da vivelaboheme » gio 20 feb 2014, 11:16
La prima rappresentazione di questa ripresa era finita ad insulti e boati. Insulti volgari, grossolani e più che mai patologici della Tristana del Corriere della Sera che per l'ennesima volta ha usato il giornale come palestra per proprie vendette personali: improperi scritti (non critica) a Rustioni con un surplus (che c'entrava zero) di ulteriori contumelie all'Ottavio Dantone direttore della Clemenza a Venezia (cui, a mio parere, andrebbe invece seriamente presa in considerazione l'assegnazione dell'Abbiati 2014 da parte dei critici, tale il livello eccelso della sua direzione mozartiana alla Fenice). Insulti delle consuete vestali di loggione a direttore, mezzosoprano e baritono.
Poi, si va alla "seconda", qualche conoscente che c'è già stato ti avverte "guarda che non è assolutamente come l'han voluto far passare alla prima". E infatti si assiste ad una godibilissima ripresa di già noto spettacolo. La ben nota messa in scena di De Ana ha il limite della ripetitività (le composizioni sceniche del coro che inizia immobile poi si anima, i bei costumi, le quinte che scorrono sul palco) tipica (e accresciuta nel tempo) di questo comunque raffinato regista-pittore. Tradizionale? Sì, ma non volgare o pletorico. Se chiediamo a uno spettacolo - come molti fra coloro che qui su Operadisc prendono la parola - il pensiero e una novità scenica, con De Ana siamo da tutt'altra parte. Se stiamo ad un'elegante tradizione... ci siamo. Non di più, non di meno (comunque questo spettacolo regge meglio nel tempo, ad esempio, rispetto all'usuratissimo Rigoletto-Deflo, quello sì una usurata sfilata di moda).
Daniele Rustioni è un interessante giovane direttore: la maturazione non è completa - e ci mancherebbe! - ma ha evidente talento, produce bel suono. Grande e professato ammiratore del Verdi giovanile di Riccardo Muti (che è legittimo ammirare) tende un po' ad un'imitazione (un'imitazione "in sedicesimo" ad occhio e orecchio di chi assiste) del modello, nella gestualità e in alcuni scarti di tempi non sempre congrui. Ma - alla seconda rappresentazione, cui ho assistito - pur rimpiangendo un po', specie nel primo atto, l'assenza di quella "nota" notturna, lunare, che è parte dell'opera, ma mi son trovato di fronte ad un bella sonorità orchestrale, ad una valida mobilità di situazioni musicali-drammatiche, a coraggio anche (quel che gli era un po' mancato in Un Ballo in Maschera) e soprattutto ad un ultimo atto condotto in punta di bacchetta: tutta la fase che va dal duetto Azucena-Manrico ("Madre, non dormi?" ecc.) allo svelamento del sacrificio di Leonora è condotta con grande delicatezza, c'è una bella ricerca di leggerezza pur nell'intensità, ed è bella, in questo finale, la risposta di tutto il cast. Sul quale, più in generale, occorre, direi , fare qualche distinguo.
La Agresta canta, come quasi sempre, bene. Ma è Leonora a tratti sì, a tratti no: nel primo atto soffre di qualche strana (perché intermittente) fatica nell'acuto preso in morbidezza e lo strumento appare un po' arido rispetto all'esigenza del personaggio. Ma va assai meglio in seguito. Non tanto nel Miserere più cabaletta (agilità non trascendentale) quanto nel ""Vivrà", quasi perfetto. Forse è una cantante che sta un po' correndo, dietro ruoli diversi e ha quel limite (lo avevo notato anche a Genova, nella Desdemona) di una certa genericità querula nelle parti più "conversative" o semplicemente "di parola scenica". Però è - come dicevo - un "bel cantare" complessivo.
Alvarez è Alvarez: il canto spinto può non piacere, la voce (in forma, peraltro, in questa occasione) ha disuguaglianze da "spinta" e logorio di anni, ma c'è l'accento, la parola, la dizione, il carisma e e il timbro, obiettivamente stupendo e accattivante, che ha pochissimi riscontri fra i tenori in attività. Discorso noto: uno ascolta Alvarez e da un lato rimpiange ciò che questa voce e questa carriera avrebbero potuto essere, con un po' di giudizio nell'uso (la "base" era quella del forse massimo tenore, fra i vivi, gli sprechi tanti: la Pira in strofa unica con l'acutino che va indietro anziché proiettarsi ne è la conseguenza inevitabile). Dall'altro lato, gode di quel che comunque c'è: nella bellezza ancora ammaliante dell'accento, delle frasi scolpite e della personalità, un Manrico "vero", palpitante di teatro.
La Semenchuk (buatissima, mi si dice, alla prima, vittima anche d'un incidente vocale in acuto) spende una voce un po' usurata ma manda in porto (alla seconda) una dignitosa, alla fine accettabilissima Azucena. Obiettivamente meno felice, nella fissità dell'emissione, il Conte di Vassallo (subentrato dopo multipli forfeit di colleghi). Ok come sempre il coro (soprattutto la sezione femminile).
Conclusione: senza scandali e senza miracoli, una godibile ripresa. Non certo degna di finire sotto le - ormai stucchevoli - esasperazioni da vendetta più o meno personale che immancabilmente accompagnano le prime scaligere. Più frequento la Scala più mi s'accresce l'idea, da suggerire anche ai critici, di lasciar proprio perdere le prime rappresentazioni e il pestilenziale clima (palpabilissimo, crediamo anche dagli artisti) che non fa alcun bene alla musica. Come non bene, anzi malissimo fa (e lo ripeterò fino alla noia) l'uso della carta stampata (quotidiani che girano il mondo, e il mondo legge che un Rustioni o un Dantone sono degli inetti) a sfogo di personali nevrosi o giochi di parte. Non è giornalismo, non è informazione, non è critica musicale. Non serve: danneggia. E la pietosa risposta che, a domanda sull'argomento, immancabilmente si riceve da giornalisti e artisti ("sappiamo com'è, ma è meglio lasciar correre, perché ' non si tocca, non si può' ") è avvilente. Quel 'non si tocca, non si può' è un tipico segnale (fra i molti, nella vita di questo Paese) di una italianità deteriore che, applicata alla musica e al teatro d'opera, fa solo del male.
marco vizzardelli