da vivelaboheme1 » gio 16 ott 2014, 15:52
Per chi approdi a Biologna in treno, come è stato per chi scrive, Il solo motivo di non ascoltare e e non vedere questo straordinario Guglielmo Tell è... la Stazione Ferroviaria di Bologna nell'imponente e presumibilmente costosissima ristrutturazione che l'ha trasformata, allo stadio attuale (manca qualche rifinitura) in un INCUBO per il viaggiatore in partenza o in arrivo. Quando arrivate dovete salire, salire, ancora salire, scale mobili e non, prima di riveder le stelle, cioé Piazzale Medaglie d'Oro. Per ripartire, calcolate - fra indicazioni criptiche o erronee e scale per scendere, scendere, ancora scendere, un quarto d'ora fra Piazza Medaglie d'Oro e il vostro treno: e calcolate bene, perché rischiate di perderlo, persi nell'avveniristico labirinto. Credevo che l'Oscar della ristrutturazione idiota spettasse agli ideatori della "nuova" Stazione Centrale di Milano - quella in cui per andare da un tapis-roulant all'altro si fanno centinaia di metri a piedi senza tapis-roulant. Ebbene, Bologna, "vince" a... binari bassi il Premio dell'Idiozia. In entrambi i casi, i rispettivi Architetti/Ingegneri ne escono sotto le ingiurie degli utenti.
Ma ne valeva la pena, per questo Tell Francesco ci ha descritto dettagliatamente la parte scenica, solo che (e per fortuna, così si discute) non sono d'accordo con le sue conclusioni parzialmente negative. Non mi dilungherò, perché più interessato, qui, a segnalare un altro aspetto di grandezza (la direzione). Dirò subito che, nell'insieme, il Don Giovanni-formato mignon di Graham Vick (Circuito Lombardo) di cui ho appena narrato, mi sembra lavoro più compiuto (infatti è più contestato da quelli che, nel 2014, ancora "si scandalizzano" per il sesso in scena). Qui, di fronte al difficilissimo "monumento" rossiniano, la "mano" di Vick è stata pur sempre ardita, ma nel complesso più cauta. Gli è scappata, a mio avviso, proprio all'inizio una brutta, didascalica, gigantografia del Cervino visto più o meno da Zermatt, che è Svizzera ma c'entra come i cavoli a merenda. E (più nei primi atti che nel terzo e quarto) il rischio del "didascalico" non è completamente evitato. Vick, da grande "narra" sempre benissimo la vicenda: quel che mette in scena potrà (ad alcuni) parer stravagante, ma storia (anche faticosa, se vogliamo) del Tell ne esce netta, raccontata per filo e per segno: a rischio, appunto, di volere , a tratti, "spiegare" fin troppo. Ma non ho colto - se non come motivo di merito per Vick - quegli aspetti contraddittori che Francesco segnala come "non rossiniani" (il programma di sala è interessante là dove lascia aperta la "posizione" dell'ottimo GIacchino riguardo la questione del "potere" e di come l'opera la tratta: non direi che il Tell sia "contenustisticamente", lavoro "spiegato" e "spiegabile" una volta per tutti: è una meraviglia musicale, questo sì, e questo, alla fine ci importa). Ciò detto, basta la risoluzione scenica - in bilico fra comico e tragedia - straordinaria (bravissima la compagnia di ballo, così come curatissima, al solito con Vick, è la recitazione di tutti, pur un filo più tradizionale rispetto a quella cinematografica adottata nel Don Giovanni lombardo) della festa e delle danze del terz'atto, per dire del talento di Vick. Il "bilico" fra comico (che c'è anche qui, nel "serio" Tell) e il tragico è proprio uno degli aspetti meglio colti e realizzati da Vick.
E le danze del terzo atto sono una delle meraviglie della direzione di Michele Mariotti, che è - ed è questo che mi premeva - la vera e prima forza di questo Tell bolognese (ed è individuato bene. come tale, dal pubblico). Mariotti ha solo 33 anni ma, come direttore d'opera (non l'ho ancora ascoltato in repertorio sinfonico), è, per maturità, di almeno dieci davanti a tutti, dicasi tutti, i cosiddetti "direttori ragazzini", più o meno circolanti in questi anni (Daniel Harding approda ora, alla soglia dei 40, alla maturità d'una grande intelligenza, dopo inizi da fenomeno seguiti a stagioni critiche di evoluzione, Guastavo Dudamel direttore d'opera è una equazione ancora irrisolta, fra gli italiani "vedo" Jader Bignamini (oltre al maturissimo, non ancora quarantenne, Matteo Beltrami, carriera defilata che meriterebbe l'approdo in grandi teatri) che di anni però ne ha 38: fin qui eccellente lo riascolterò a Parma nella Forza). Mariotti ricorda, nella fondamentale sobrietà della resa musicale e nella bellezza ed efficacia di una mano sinistra (ero in un palco di quart'ordine, a picco su di lui e la buca, come mi piace stare) tanto bella in sé quanto efficace negli esiti, con orchestra e soprattutto cantanti e palcoscenico, il giovane Claudio Abbado. Che era, circa a quell'età, più radicale e iconoclasta. Mariotti è più "gentile" e incline anche al gioco strumentale, ma l'essenzialità,la non-platealità, è la stessa che era del "ragazzo" (anzi giovane uomo) Abbado. Non sono il primo a cogliere il paragone, lo aveva fatto, molto meglio di me, il grande Elvio Giudici, con le cui descrizioni di Mariotti concordo appieno. E' una non essenzialità che non cancella od esclude - anzi esalta! - l'"emozione" musicale. La Sinfonia - giustamente salutata da ovazioni da stadio del teatro - è pura emozione proprio laddove rifugge dalla platealità, cercando, e trovando, la finezza dello strumentale (cosa non sono il flauto di passaggio dal temporale alla pastorale, e la pausa che ne precede il tema! Cosa non sono gli accenti dati da Mariotti alla fanfara, presa in tempo"giusto", senza frenesia e giocata, appunto, suglia accenti!). E si va di conseguenza, per tutta l'opera. La "mano" di Mariotti è ben visibile nella naturalezza e "facilità" (in un'opera così trascendentaler!) del canto di tutta una compagnia di canto tutta puntuale ed equilibrata ma priva (e forse è meglio) del fuoriclasse che sfori sugli altri. Anche là dove difficoltà si presenti (Spyres, magnifico nel lirismo dell"Asil", acchiappa senza dominarlo il virtuosisimo di '"Aux armes"), Mariotti è con i cantanti e con la scena, senza andarvi al traino, ma imponendo una sua precisa linea di concezione e concertazione. Le parti concertate (esempi,il famoso terzetto, che qualcuno temeva tagliato, e invece c'è, e i finali 3 e 4) sono una meraviglia di esattezza e nello stesso tempo di "lettura d'interprete". Fra le esecuzioni d'eccellenza del Tell di questi anni, c'è stata sicuramente quella, magnifica, di Pappano con i complessi di Santa Cecilia e un cast che comprende le note trascendentali del tenore Osborne. Ma Pappano, né dal vivo (lo ascoltai all'Auditorium romano alla ripresa) né in disco, osa il tempo "immobile", "sospeso" adottato da Mariotti nel finale 4 (possiamo dirlo? Eurovisione tv a parte negli anni della nostra infanzia, è forse il più bel finale d'opera mai concepito, senza il quale sicuramente non avremmo quello splendido del Ballo verdiano): il "tutto cangia" ("tout change") diventa davvero stupore, che poi - da tale "immobilità" viene come scagliato in aria (e , reso così, è da brivido) nel crescendo (orizzonte immenso e magnificenza della natura) di un'estasi esultante (alla quale a mio avviso la "scala rossa verso il cielo" voluta da Vick fa da contrappeso dialettico - discutibile, certo, come co dice Francesco - ma certamente stimolante, per l'occhio ed il pensiero). Se il finale di Vick si inserisce nella categoria del discutibile-stimolante, quello di Mariotti (e prima di lui di Rossini!) va diritto su quello dell'esaltante. E partono, in un Teatro Comunale completamente, conquistato, le ovazioni-applausi ritmati di circa quindici minuti, con un'accoglienza a tutto il cast, ma in particolare e segnatamente al direttore, per ricordare la quale dobbiamo ancora andare alle repliche dei Boccanegra o Macbeth di Claudio Abbado alla Scala: accoglienza peraltro meritatissima. Bologna aveva già, ma ha resto "stabile", la presenza di un talento giovane quanto prezioso ( e ancora una volta, dopo la recente, favolosa esperienza d'ascolto di Daniele Gatti in concerto a Milano, il milanese presente in sala al Comunale si pone qualche domanda sulle scelte d'altro genere operate a Milano). E piace anche, alla fine, l'understatement di Mariotti che lascia il teatro salutando gli amici e inforcando la sua bici con il sellino ricoperto di cellophane-antipioggia.Una immagine di "naturalezza", e di sostanza "non esibita", che si ritrova, pari pari, sul podio
La compagnia di canto, per quanto detto sopra, va nominata in toto: ma (piaccia o meno il timbro di Spyres, comunque sensibilissimo e plausibile Arnold), dall'imponente Alvarez (Tell) alle pure sensibili ed appropriatissimo Yolanda Ayutanet ed Enkeleida Shkoza(Matilde ed Edvige) al magnifico Jemmy di Mariangela Sicilia, all'esattezza anche fisica di Luca Tittoto (Gessler) e Simone Alberghini (Melchtal: impressionante la "fisicità" della sua uccisione in scena), tutti contribuiscono al felice esito. Alla mia replica, l'orchestra (perdonabili sviste negli ottoni, qua e là) è andata in crescendo (magnifica nelle danze, qui con "legni" formidabili) dopo qualche inziale timidezza. Splendidi il coro di Andrea Faidutti, e (si è detto) il corpo di ballo.
Una nota di ordine ippico equestre (è la mia materia, e qui replico a Francesco): i cavalli in scena, finti o veri che siano, sono storicamente insidie e spesso maledizioni per i registi (li usò bene Ronconi a suo tempo in spettacoli "storici", "cadde" invece clamorosamente da cavallo, e paradossalmente da cavalli morti in scena, Werner Herzog, proprio a Bologna, in una Giovanna d'Arco orrenda scenicamente pur nell'ottima direzione del giovane Chailly. Tralascio quelli vivi di Zeffirelli nella sua antica Aida scaligera: all'epoca gli zoccoloni sul palco"coprivano" la Marcia Trionfale, nella brutta ripresa recente li ha fatti andare al passo con esito almeno più delicato). A mio avviso, Graham Vick, in questo Tell, ha usato benissimo, con efficacia e molta ironia, i suoi cavalli finti, sia che stiano dritti sul palco, sia che Arnold vi monti (con una certa difficoltà: Spyres è un ottimo cantante ma non ancora Buffalo Bill), sia che vengano ammucchiati come barricate quando non servono più; sia, infine, nella visione - tragica e straniata, ma ancora ironica - del sangue, "foret" ma visibilmente finto, del cavallo decapitato che ha colpito l'attenzione di Francesco. Rispetto a tanti suoi colleghi, dal giornalista ippico Vizzardelli viene senz'altro "assolto", ma direi anche "promosso con buon voto", nell'uso scenico dei quadrupedi.
A parte la stazione ferroviaria, Bologna mi ha dato gioia.
marco vizzardelli