da fadecas » gio 11 set 2014, 20:13
Premetto che della Olivero sono stato sempre un estimatore convinto e, di più, un appassionato, anche perché, per ragioni anagrafiche, ho avuto la fortuna di seguire dal vivo a Trieste cinque sue grandi interpretazioni, più un recital vocale, nell’arco di tempo dal ’63 al ’76. Per altro, alieno per natura e per posizione da idolatrie incensatorie, e diffidente verso chi celebra genericamente la grandezza dell’arte con l’a maiuscola, spero di aggiungere delle considerazioni abbastanza equilibrate sul tema, che serpeggia negli interventi di questi giorni, sull’inattualità di questa interprete consegnata comunque alla storia.
L’ovvietà della considerazione che la “grandezza” di Magda Olivero sia legata al suo tempo, come del resto per qualunque altro artista,sottende il rischio di un certo semplicismo liquidatorio di fronte a cui mi pongo qualche interrogativo in più. Nel caso di una parabola umana così estesa, nella sua straordinaria longevità, più che mai, secondo me, bisognerebbe differenziare il discorso biografico sulla persona dalla valutazione complessiva dell’interprete
Sul primo punto, quello umano e biografico, è incontestabile che con lei sparisce la sopravvissuta testimone di una stagione storica – di una civiltà operistica – ampiamente lontana e tramontata, quella di una cantante che si era nutrita della vicinanza ad un mondo musicale che annoverava i rappresentanti più significativi, ormai maturi, della giovane scuola che nel primo quarantennio del ’90 aveva consolidato (e stava per esaurire) la sua fortuna esecutiva sulle scene italiane.
Il secondo aspetto, quello cioè della contestualizzazione di Magda Olivero come interprete, è a mio avviso molto più problematico. Proprio l’estensione della sua carriera in un arco temporale che va dagli anni ’30 a tutti gli anni ’70, e la fortuna che di tutte le sue diverse stagioni interpretative rimangano testimonianze audio, impongono di cercare di circoscrivere meglio le coordinate del suo tempo artistico, della sua “storicità”. Anche perché la carriera della Olivero è tutt’altro che un pezzo di antiquariato monolitico, ma conosce molteplici svolte e discontinuità di scelte, segnando delle tappe di una maturazione vocale e di un’evoluzione di interessi e di “colori” interpretativi che ha significato un’inesauribile ricerca del nuovo e dell’inedito, una capacità di accogliere sfide e rimettersi in discussione.
Dall’approccio in chiave belcantistica ai ruoli più lirici della giovane scuola degli anni ’30 alle scelte più spinte, dopo la lunga pausa negli anni quaranta, della seconda fase della carriera, in quegli anni ’50 che segnavano un dirottamento accentuato di gusto e di sensibilità, dominato, oltre che dal ciclone callasiano e dal revival di una cantabilità più legata ai canoni ortodossi della scuola italiana con Renata Tebaldi, dalla comparsa di cantanti/attrici di formazione e di gusto “neorealistico”meno coturnate di quelle delle generazioni precedenti, dalla gestualità icastica e di forte presa, intercettate in qualche caso efficacemente anche dal nuovo medium televisivo, facilmente prestate, e con successo, al repertorio della giovane scuola – penso, una per tutte, forse curiosamente la vera “rivale” della Olivero in alcune contemporanee ma non convergenti prese di ruolo, a Clara Petrella … - fino alle sperimentazioni, in qualche caso tutt’altro che sporadiche, della sua ultima stagione – dalla Medea del ’67 in poi – in territori apparentemente lontani dal suo substrato d’origine, da Poulenc a Janacek a von Einem …
Quale delle tante Olivero consegna alla storia dell’interpretazione vocale e teatrale il suo suggello più personale e compiuto? Nell’orizzonte delle mie scelte personali – che ovviamente sono solo una mia proposta - additerei le parti più interessanti delle sue testimonianze nelle opere complete registrate dal vivo, in particolare nel periodo ’59-’67 (dalla Francesca scaligera alla Medea di Dallas). Quindi, proprio negli anni in cui la maturazione espressiva, vocale e drammaturgica in senso più completo, la allontanavano un po’, pur senza farlo rinnegare, dagli orizzonti della sua prima formazione. Anni in cui i ruoli sopranili pucciniani e “giovane scuola” erano appannaggio, oltre che della citata Petrella, soprattutto di cantanti della generazione anni ’20-‘30, di cantanti – come Rosanna Carteri, Marcella Pobbe, Virginia Zeani - che, oltre ad esibire un’avvenenza giovanile di forte presa quasi cinematografica che costituiva una carta vincente per la loro popolarità, abbinavano un gusto musicale più sobrio ed asciutto di quello del periodo in cui la Olivero si era formata.
Spiego le ragioni della mia preferenza per le registrazioni di opere integrali. I primi dischi registrati in studio alla fine degli anni ’30 e quelle successive dell’inizio anni ’50, come pure gli innumerevoli recital ripresi nel corso della sua carriera, sono incentrati tutte sul pezzo chiuso, sul numero staccato. Questo contesto, se da un lato assicura, ameno nelle riprese in studio, un nitore vocale che dal vivo talvolta si appanna, dall’altro fa emergere quello che è l’aspetto più caduco del suo approccio, quel manierismo a cui penso il Dottor Malatesta si riferisse quando parlava di gusto oggi attardato, l’indulgenza a centellinare eccessivamente le dinamiche perdendo la quadratura della frase e a disperdersi nell’effetto fine a sé stesso. Certo, di perle espressive se ne trovano moltissime – e l’arioso bamboleggiante di Angelica citato ne è uno dei tanti esempi – ma il limite pesa, all’ascolto, oggi più che mai.
Il discorso cambia di molto, secondo me, nelle registrazioni dal vivo (o comunque realizzate nell’arco di una ripresa completa) di opere integrali nella fase mediana della sua carriera. Nei primi ’60, infatti, l’irrobustimento del tessuto vocale e l’affievolimento del vibrato stretto si accompagnano al maturare di un gusto più sorvegliato, ad un porgere la frase con un’incisività più scandita ed asciutta, rispettosa dei tempi drammaturgici della situazione operistica e senza le sbavature che la virtuosa delle dinamiche si concedeva nei recital.
Anche la scelta di affrontare certi ruoli quasi da caratterista di compositori contemporanei – come La guerra di Rossellini – contribuisce certo ad ampliare la gamma delle sue caratterizzazioni, a stimolare la sua fantasia interpretativa accentuando la scioltezza e la disinvoltura dell’attrice e la capacità di rivestire di tinteggiature sempre nuove i suoi approcci ad un ventaglio molto vasto di situazioni espressive, ben oltre i limiti di scuola di un soprano lirico.
Certo, la propulsione emotiva rimane sempre una componente essenziale della sua maniera di interprete, e a farsene un’idea completa bisognerebbe disporre anche di testimonianze video della sua presenza scenica estremamente duttile – comparata ovviamente ai tempi in cui la figura del regista era pressoché inesistente - che ovviamente non possediamo, e che farebbero capire il magnetismo ad alta temperatura che la sua presenza era in grado di sprigionare in mezzo al pubblico, attestato dalle reazioni pressoché costanti del pubblico e di buona parte della critica.
Oltre a questo, però, in molte di quelle registrazioni si possono cogliere benissimo, anche al solo ascolto, le innovazioni che l’interprete riusciva a trasmettere nello scavo del fraseggio e dell’accento, nella capacità di variare in maniera caleidoscopica la resa dei differenti momenti drammatici e musicali di una parabola operistica, inventandosi colori inediti in rapporto alle diverse situazioni teatrali.
Se dovessi scegliere un personaggio esemplare di questa ricerca inesausta, ad onta delle tante Adriane, Iris e Fedore, indicherei – con convinto azzardo - le numerose registrazioni di Fanciulla degli anni ’60 (da quella del ’62 al S. Carlo, a quella di Venezia del ’67, per tacere di quella triestina del ’65 su cui ovviamente la mia soggettività avrebbe un peso soverchiante, essendone stato spettatore …).
Nella resa di questo ruolo, che troppi soprani hanno risolto con un approccio tendenzialmente monolitico, vuoi in chiave di epica wagneriana cfr. Nilsson o altre vocalità di alto tonnellaggio, vuoi – secondo una seconda linea interpretativa - in stile da epopea western, la Olivero riusciva a far vibrare tutte le increspature nevrotiche di una partitura e di un dramma pienamente inseriti nella temperie musicale e drammaturgica del primo ‘900 europeo, apparentandola strettamente, inoltre, alle consorelle pucciniane (Tosca Butterfly Angelica) in un caleidoscopio inesauribile di cesellature psicologiche che ne mettevano in risalto , con una tavolozza variegatissima di atteggiamenti, ora l’abbandono emotivo ora la trepidazione fino alla convulsione e alll’isteria, per concludere con una sorta di problematica catarsi finale che si rifletteva nel’accento più grave ed arcano dei suoi interventi vocali nell’atto conclusivo.
La Fanciulla della Olivero è un ritratto psicologico e musicale convulso e tormentato, che riflette, per intuito, le affinità tutt’altro che sotterranee fra Puccini e il preespressionismo straussaino, rifuggendo dalla visione a tutto tondo un po’ “american way”con cui spesso tale ruolo è stata risolto; nella sua complessità di sfaccettature non è secondo, almeno a mia personale opinione, ai traguardi che la Callas in quei medesimi anni, o poco prima, aveva raggiunto in tutt’altro repertorio. Si può considerare, questa intuizione, un segno storico ben preciso, che apre la via ad altre più moderne accezioni interpretative pucciniane? Secondo me, sì.
Discorsi analoghi meriterebbero altre sue interpretazioni, come – per restare in ambito puccinaino - la Manon di Amsterdam del ’63 (lontana da disuguaglianze di emissione ed anche da eccessi nel declamato che inficiano un po’ le sue Manon dei primi ’70), o la Francesca del ’59 alla Scala, dove l’Olivero, se manca di quella cantabilità aulica che la giovane Gencer sapeva consegnare in quegli stessi anni al personaggio, restituisce al fantasma dannunziano dei risvolti crepuscolari che mai avevano trovato probabilmente fino a quel momento un così sofferto intimismo, un sapore di decadentismo come condensato di un’intera civiltà musicale – lo stesso, del resto, che è stato ampiamente riconosciuto alla sua Adriana e in particolare al disfacimento estenuato del quarto atto, un’elegia del tramonto di un’epoca oltre che della morte di un’attrice.
E qui – ma soltanto qui – trovo pertinente il richiamo alla mitologia di Gloria Swanson e di Viale del tramonto, che nel complesso mi pare decisamente restrittivo per definire la parabola di un’interprete che ha sempre guardato avanti a sé fino alle sue ultime prove.
Molte altre disamine sarebbero ancora meritevoli, sia sulle testimonianze di quel periodo citato sia negli approdi della maturità estrema, e molti ascolti riserverebbero probabilmente emozioni inedite… Ma cedo ad altri la parola ed il confronto, se ci saranno, come spero.
Un saluto Fabrizio/Fadecas
Fabrizio