Peter Gelb (General Manager del Metropolitan) lancia l'allarme dalle pagine del Guardian. Il Met naviga in acque poco tranquille sotto il profilo finanziario ed organizzativo. E' sull'orlo di un precipizio e rischia, nel giro di un paio di stagioni, il fallimento.
Così gravi proclami nascono dall'analisi economica dell'ultima stagione: una media del 20% di posti invenduti ad ogni apertura di sipario (e in una sala monstre da 3800 sedute non è poco), un progressivo invecchiamento del pubblico sia in sala che nelle proiezioni in HD, il fallimento della politica di vendita last-minute che Gelb ha importato da Broadway e un costante braccio di ferro con le organizzazioni sindacali cui sono iscritte le masse artistiche del teatro.
A tale proposito l'estate di Gelb si annuncia infuocata.
Le Union sindacali sono scese in campo con una serie di rivendicazioni che, se non saranno accettate, porteranno ad una serie di scioperi a catena a cominciare dal prossimo settembre.
I sindacati vedono in Gelb il colpevole dell'attuale situazione in cui versa il teatro. In particolare lo accusano di aver speso cifre faraoniche in nuovi allestimenti dallo scarso ritorno commerciale (pietra dello scandalo il recente Igor di Cerniakov) nonchè di aver privilegiato negli investimenti le proiezioni in HD che, di fatto, stanno lentamente cannibalizzando il pubblico teatrale.
Dal ponte di comando Gelb risponde ai sindacati con i numeri.
Le uscite del Met sono, grosso modo, pari a 300 milioni di dollari annui. Due terzi di questa somma servono coprire i costi e i benefits del personale tecnico, artistico e impiegatizio iscritto ai sindacati. Un corista può arrivare anche a costare all'azienda quasi 200.000 dollari all'anno. I loro contratti, afferma Gelb, testimoniano che i coristi sono pagati anche quando non lavorano. La conclusione del manager è amara: "Anche il più sprovveduto imprenditore del mondo capirebbe che bisogna ridurre questa voce."
Aggiunge inoltre che il pubblico invecchia, i giovani sono pochi, gli sponsor calano e nelle attuali condizioni è sempre più difficile mantenere quegli standard di eccellenza che hanno fatto del Met il primo teatro d'opera al mondo.
Anche il New York Times (di solito clemente con il Met) aveva sferrato in primavera un duro attacco nei confronti della gestione Gelb criticando quella che da sempre è la forza motrice del teatro di Manhattan: il repertorio. Repertorio che, secondo i redattori del giornale, di anno in anno è sempre più scadente, disertato dal pubblico e privo di interesse.
Pietra dello scandalo: là un Igor troppo nuovo, qui, uno Cheniér troppo vecchio. Il polveroso allestimento con Alvarez protagonista, con platea a pelle di leopardo, è stato giudicato dal redattore "francamente inguardabile e inascoltabile".
Detto questo e considerato che dietro a un PC siamo tutti capaci di suggerire soluzioni e apprestare medicamenti, trovo necessario analizzare le dichiarazioni di Gelb.
In primo luogo questo articolo è chiaramente strumentale.
Alla vigilia di un match sindacale che si annuncia gladiatorio (i problemi sono simili a nostri, ma essendo negli USA più tosti sia i manager che i sindacati mi aspetto lacrime e sangue), il pezzo del Guardian mi pare abbastanza telefonato. Gelb mette in guardia i sindacati paventando un fallimento che è dietro l'angolo. Fallimento tra l'altro non così remoto vista la chiusura dell'Opera di San Diego (tutti a casa, licenziati e buonanotte al secchio) e la crisi ben più grave di quella del Met in cui sguazzano sia l'Opera di San Francisco sia quella di Chicago costretti a rivedere i programmi e i budget in corso d'opera. Non so quanto i sindacati si facciano spaventare da una dichiarazione del genere. In Italia si farebbero (e si sono fatti) delle matte risate. Negli Stati Uniti -vista l'esiguità degli ammortizzatori sociali e la rapidità con cui si smontano baracche e burattini- è meglio riflettere prima di far saltare inaugurazioni milionarie in cui si arriva a pagare un posto in platea anche ventimila dollari. Un corista quarantenne a spasso è disoccupato di qua ma anche di là dall'Atlantico.
Strumentale o meno, la crisi del Met deve comunque farci riflettere.
La Opera House sulle rive dell'Hudson è stata in questi anni una sorta di paradigma di gestione. Le scelte artistiche, gestionali e promozionali del Met sono state, in misura maggiore o minore, declinate e riproposte da quasi tutti i principali teatri europei. Il Met è come la borsa di Francoforte; collassa quella e prima o poi collassano tutte le altre.
Detto questo mi sorprende però che Gelb di fronte a dati così sconfortanti (sconfortanti per gli standard statunitensi e anglosassoni, in Italia una copertura di sala dell'80% di pubblico pagante è un successone) attacchi la solita geremiade del pubblico anziano, della poca cultura nelle scuole, dei giovani che non vengono all'Opera... non c'è la frigna alla Lissner sul disinteresse delle Istituzioni, ma solo perchè negli USA da quell'orecchio ci hanno sempre sentito poco.
Tolto questo, non siamo lontani dal consueto pianto del teatrante italico alle prese con bilanci ribelli e sindacati rompicoglioni.
Sono del parere che prima di partire con eventuali soluzioni Gelb debba chiarire quale sia il suo obiettivo.
Temo che al giorno d'oggi continuare a studiare strategie di gestione basandosi sull'equivalenza "operalovers/operagoers" non porti a nulla. Quando Gelb lamenta che le proiezioni in HD non hanno portato nuovo pubblico a teatro dimostra -se in buona fede- di tirare a casaccio in un bersaglio sbagliato.
Gli appassionati d'opera sono un oceano; i frequentatori d'opera dal vivo, al confronto, un laghetto di montagna.
Gelb deve decidere che strategia prendere: o potenziare l'oceano (incassando biglietti in giro per il mondo moltiplicando le dirette e limitando le repliche e gli allestimenti dal vivo) o potenziare il laghetto (limitando le dirette e potenziando gli allestimenti che solo lì puoi vedere). Immaginare -rimanendo nel paragone- che l'oceano alimenti il laghetto è fantascienza. Lo inviterei studiare l'evoluzione della gare di Formula1 che, con le dirette televisive sempre più sofisticate, si sono già poste un problema identico. E l'hanno risolto benissimo: a quanto pare è uno sport che gode di ottima salute.
Ma questa è solo la punta di un iceberg.
Anche il problema giovani, che Gleb tratta nel pezzo sul Guardian, è un falso problema.
Non so se abbia dei figli, ma da quanto scrive mi pare di no.
Perchè i giovani dovrebbero andare all'Opera? Non ci sono mai andati nemmeno quando era una delle poche forme di intrattenimento fuoricasa, perchè mai dovrebbero andarci adesso? Certo, il ricambio generazionale. Ma se il ricambio generazionale arriva attorno ai quaranta/cinquanta (come avviene in molti teatri d'Opera tra cui, per loro dichiarazione, alla ROH), perchè mai perdere tempo, energie, danaro per cercare di invogliare recalcitranti ventenni a vedere pachidermici e sudati tenori che arrancano per le tessiture dello Cheniér in mezzo a muffite carabattole francorivoluzionarie? Perchè?
Cercare di far si che l'Opera ritorni un genere popolare è impossibile.
Cercare che diventi un genere popolare e giovanile è pura accademia.
I codici linguisti e le convenzioni teatrali dell'Opera sono complessi, stratificati e storicizzati. Oggi il percorso che porta una persona qualunque a diventare un operalover e quindi un operagoer è principalmente intellettuale. Se si vuole un ricambio di pubblico si deve lavorare su quello. Non sparare a casaccio dirette d'opera in giro per il mondo per poi stupirsi se pochi hanno voglia di pagare 150 dollari e passa per vedere Deborah Voigt dal vivo che fa Minnie. Quando per dodici dollari (fin troppi) te la vedi al cinema sottocasa, in HD, con i popcorn, in una poltrona comoda ed ergonomica.
E poi, scusate il paradosso, ma se i manager operistici si lamentano perchè i giovani (questa strana categoria che per i vecchi è uniforme e immutata nei secoli dei secoli) non vanno all'Opera altrettanto dovrebbero lamentarsi i manager del pop perché i cinquantenni non vanno ai concerti rock. Mi piacerebbe chiedere a Peter Gelb se lui è un assiduo frequentatore degli One Direction o dei Muse. E se la risposta è negativa vorrei che mi spiegasse il perchè.
Infine, la questione storicamente dibattuta dei costi fissi.
In questo Gelb ha ragione. Non è possibile che un'impresa --qualunque cosa produca- spenda tre quarti del budget per pagare il personale. Anche se il bene che produci -conti alla mano- giustifica tutte quelle spese, ugualmente non puoi andare a vanti. Vuol dire che il bene che produci -per quanto magnifico sia- è fuori mercato.
Poi potremmo fare sera nel discutere se i parametri economici che regolano le imprese si possano applicare anche all'Opera. Ma sarebbe, anche qui, pura accademia. Non è più questione se sia giusto o meno. E' un pensiero secondario.
Così (giusto o meno) non si può andare avanti.
E se lo dice New-York forse, a breve, lo diremo tutti.
Spero di aver dato qualche punto su cui discutere. Scusate la mia latitanza ma vi seguo.
WSM