da beckmesser » lun 26 nov 2012, 12:02
PARIGI 2012 - SALLE PLEYEL
Già non capita spesso di assistere all'interpretazione di un caposaldo del repertorio operistico che faccia esclamare “Da ora cambia tutto”; ancor meno spesso capita di poterlo dire con riferimento al testo stesso di quel caposaldo. Eppure è ciò che è successo sabato sera alla Salle Pleyel di Parigi: per la prima volta dal 1881 i Contes sono stati eseguiti così come Offenbach li aveva concepiti e lasciati al momento della morte (che poi, fosse vissuto, la versione finale sarebbe stata ancora diversa è ovviamente altro discorso). C'era andato vicino Nagano con la sua incisione, ma qualche pezzo ancora mancava (anche essenziale, come il finale dell'atto di Giulietta); l'aveva sfiorato lo stesso Minkowsky nel ciclo di recite con lo spettacolo di Pelly ma, complici le esigenze dell’allestimento, qualcosa era stato tagliato. Stavolta c'era proprio tutto. Risultato: tre ore e quaranta minuti di musica, praticamente il Parsifal di Boulez. Troppi? Decisamente no: semmai, erano troppo pochi quelli assemblati nell'edizione Choudens, che ora è veramente tempo di mettere in archivio, per il semplice fatto che, almeno per metà, con Offenbach non c'entra proprio niente. Questa edizione, che si basa in tutto sul nuovo testo critico Keck/Kaye, dimostra una cosa molto semplice: che Offenbach, guarda caso, sapeva il fatto suo... La struttura da lui pensata (per quanto non in modo definitivo) presenta infatti una coerenza ed una ricchezza fenomenali, basate su una doppia ed irresistibile progressione: musicale in primo luogo, con i tre atti centrali che crescono in complessità e ricchezza di struttura, per culminare nei due grandi assiemi dell'atto di Giulietta (proprio quello che, nella vecchia edizione Choudens, faceva sgonfiare il tutto come un soufflè mal riuscito) il cui nuovo finale, come era già emerso dalle precedenti esecuzioni minkowskyane, è veramente un capolavoro assoluto; progressione emotiva in secondo luogo, dato che in ogni atto la situazione di Hoffmann cresce in tragicità e parossismo, preparando la catarsi del grandioso concertato alla fine dell’epilogo.
Si può poi discutere su alcune scelte testuali marginali (la scelta fra diverse versioni alternative di una stessa aria, per esempio), ma ormai è chiaro: questa e solo questa è la versione che rende ragione al genio di Offenbach. Per la cronaca, può essere utile precisare che in questa occasione Minkowsky ha optato (complice forse la forma di concerto) per le versioni più lunghe di tutte le possibili alternative: nell'atto di Olympia, Niklausse canta il “Voyez-la sous son éventail” (versione anteriore, e già nota, alla definitiva “Poupée aux yeux d'émail”) preceduta da un andante, “O reve de joie”, che fa assumer al brano una struttura da scena-aria-cabaletta. Nell'atto di Giulietta Dapertutto non canta il definitivo “Tourne miroir” ma una versione anteriore, “Répands tes feux dans l'air”, che Minkowsky aveva già usato nelle rappresentazioni con Pelly e che è un capolavoro assoluto, anche se presenta lo svantaggio di far perdere il nesso con la musica dell'ultima pantomima dell'atto, che sul “Tourne miroir” si basa. Non è invece stata eseguita la ricostruzione del duetto finale fra Hofmann e Stella (che invece Minkowsky aveva eseguito nella precedente occasione): trattandosi di un frammento elaborato dal curatore, la cosa ha un senso, anche se è un peccato, dato che quel frammento contiene le uniche pagine dell’opera orchestrate da Offenbach (Guiraud ha fatto un lavoro egregio nell’orchestrazione, ma resta l‘ovvia considerazione che in questi casi chi è chiamato a completare non può far altro che imitare quanto l’autore aveva fatto fino a quel punto, non certo immaginare cosa avrebbe fatto in seguito, e quel frammento ci dice che Offenbach aveva probabilmente in mente qualcosa di diverso da quanto fatto fino a quel momento).
Quanto all'esecuzione, è chiaro che tutto ruota intorno a Minkowsky. Ben conoscendo la registrazione del suo precedente accostamento all’opera (accesissima e ricca di contrasti), mi aspettavo avrebbe proseguito sulla stessa strada. Niente affatto: avendo a disposizione i suoi Musiciens du Louvre, la strada è stata del tutto diversa, e confesso che all’inizio mi ha spiazzato. Orchestra ridotta (una cinquantina di elementi), pochissimo vibrato negli archi, timbri puri e nettissimi (impressionante in particolare come gli ottoni, bravissimi, si “sedimentassero” sul tappeto degli archi senza mai fondervisi completamente), a creare un suono asciutto, persino un filo neutro sul piano dei colori, che però un virtuosismo dinamico spettacolare rendeva uno strumento narrativo irresistibile. E, finalmente, Offenbach perde quella bonomia di fondo (un po’ da “ma in fondo la vita è bella”) che quasi sempre gli viene fatta assumere, per acquistare contorni inquietanti, a tratti quasi marionettistici, di chi dipinge una società della quale ha scientemente deciso di far parte ma che non per questo finge di non conoscere.
Nel cast, mancava crudamente la Dessay, originariamente prevista: anche sfasciata, avrebbe comunque messo in pista quel mix di carisma e personalità indispensabile per affrontare i tre ruoli. Sonia Yoncheva ha una voce splendida (uno dei timbri più belli che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi), buona tecnica (anche se perfettibile, specialmente in alto) e discrete doti di interprete; gioca di rimessa con Olympia, e poi sale di quota, così da portare a casa la serata con onore, ma per un’operazione del genere serviva qualcosa di più (fuori gioco la Dessay, ci sono comunque altre possibilità: la Damrau, la Petersen…). Naouri è, molto semplicemente e come già noto, il migliore interprete che i quattro ruoli diabolici possono sperare. Anche Osborne esce con onore da una parte che l’integralità assoluta rende una delle più massacranti del repertorio: come spesso avviene con questo tipo di cantanti, tuttavia, l’uscita dal suo repertorio tipico mette in luce una personalità non proprio debordante ed una capacità di lavorare sull’accento abbastanza limitata. Comprimari straordinari (a partire dal glorioso Fouchécourt) e con addirittura Sylvie Brunet come Voce della madre di Antonia.
A questo punto, verificata la strepitosa tenuta musicale, non resta che verificare quella teatrale: la parola passa quindi a qualche sovrintendente illuminato. Speriamo bene…
Saluti,
Beck