CRONACHE DA AIX (2011)
Ogni teatro ha il suo pubblico e ogni pubblico ha le sue scorie.
Alla Scaka, per esempio, tutti applaudono convinti una regia e un'esecuzione davvero forti e moderne se si tratta della Morte a Venezia o della Lady Macbeth di Mszensk.
Perché in questi casi l'italiano medio non si sente difensore d'alcunché: nessun imperativo morale gli impone di "proteggere" (scusate se rido) Britten o Sostakovic.
E così, in questi casi, il pubblico fa quello che dovrebbe fare sempre: forte (lo dico senza alcuna ironia) della propria ignoranza di Britten e Sostakovic, si limita ad andare a teatro, lasciarsi prendere per mano e divertirsi di fronte al "bello" che viene loro mostrato.
Ma con Verdi e Donizetti no!
Lì un brutto demonio, travestito di sedicente "conoscenza" del repertorio e delle tradizioni, lì l'arrogante convinzione di essere venuti a teatro, aver speso dei soldi non per divertirsi, non per ascoltare un'espressione di musica e teatro, ma per proteggere le proprie tranquillizzanti certezze di vecchi minacciati dall'avanzare dei giovani... spinge il nostro pubblico a tapparsi occhie e orecchie e a porsi di traverso (almeno sperare di farlo) a ogni deviazione, ogni "mancanza di rispetto"...
A Aix-en-Provence (benché il suo pubblico sia fra i più illuminati, internazionali e colti) la situazione è la stessa.
E' un pubblico felice di ogni novità, di ogni scoperta, di ogni sperimentazione... è un pubblico che divora 4 secoli di musica senza farsi mai intimidire, è un pubblico abituato sempre al meglio e sempre all'avanguardia!
Eppure... quando si tratta di Mozart (l'autore "classico" di Aix fin dai tempi di Dussurget) allora diventa esattamente come il sapientone loggionista nostrano, che fischia "a prescindere", che si scandalizza.
Ne ha fatto le spese, lo scorso anno, il direttore del festival, il bravissimo Bernard Foccroulle che ha visto i "vecchi credenti mozartiani" insorgere di fronte a un Don Giovanni semplicemente geniale, con una regia-capalavoro firmata da Cerniakov e un'esecuzione musicale dal taglio filologico e arricchita da alcune delle maggiori personalità vocali del nostro tempo (Schovus, la Petersen, la Opalais, Kelelsen).
L'esperienza insegna, e così quest'anno... su Mozart il festival ha operato un programmatico e radicale dietro-front.
Un Clemenza di Tito all'insegna del vecchio (musicalmente) e del rassicurante (teatralmente).
"Vi dò quello che volete" pareva dirci il Festival. "Vi do il Mozart già visto e già sentito; cerchiamo almeno di farlo bene".
Già... perché anche fare "il vecchio" (questo vale per Mozart a Aix o per Verdi da noi) non è detto che significhi "fare il brutto".
Almeno in teoria non dovrebbe essere così...
Si può fare una bella seduta spiritica col passato (come piace ai "vecchi credenti" e sdentati loggionisti) e la si può fare bene.
Sulla carta infatti questa Clemenza era obbiettivamnete attraente: tutti i principi su cui era progettata erano vecchi eppure di luminoso livello.
A partire dal direttore: un mito come Colin Davis (ottantacinque anni) con la sua orchestra, la London Symphony, entrambi fermi a un Mozart come lo si faceva nei primi anni 70 (e già allora accusato di essere la variante inglese del già vecchio Mozart viennese).
E non di meno si tratta di un mitico direttore e una mitica orchestra, a cui si deve rispetto.
Al suo fianco un regista giovane a all'avanguardia, ok, come Mc Vicar, ma anche uno che non ha paura di sfidare l'intellettualismo europeo, non attratto da riletture sconvolgenti, che preferisce dedicarsi alla poesia e alla forza diretta, semplice del gesto e dell'umanità dei personaggi (e che quindi piace ai tradizionalisti, tanto da essere accusato di zeffirellismo a Salisburgo - accusa assai inguista per altro - e risultare amatissimo persino al Met).
Infine un cast tranquillizzante, tutto improntato al "già visto", senza alcuna sorpresa.
Un rossiniano d'america (Kunde) in Tito, un'inglese figlia della Baker (la Connoly) in Sesto, un soprano lirico tipicamente all'italiana che più generico non si può (come oggi va di moda: basta pensare a quanto scorrazzano per il mondo in Elettra e Vitellia le varie Mei, Frittoli,Remigio, Cedolins) come la Giannattasio in Vitellia.
Dato che io appartengo a quei fortunati ascoltatori che a teatro non cercano nè il "nuovo", nè il "vecchio", ma semplicemente il bello, ero convinto che - con simili nomi - mi sarei comunque goduto un bello spettacolo.
In tutta onestà, così non è stato.
Anzi, dopo aver fatto le pulci a un Naso ben altrimenti spettacolare e brillante, sono costretto ad ammettere che questa Clemenza è stata un vero flop.
Anzitutto, pollice verso su Mc Vicar.
Regia pessima, slentata, priva di idee, caratterizzata da gestualità totalmente pizziana (unica eccezione il drammatico confronto tra Sesto e Tito, sola vera perla della serata, dove era possibile riconoscere finalmente la scioltezza e modernità della gestualità mcvicariana).
Un'ambientazione (napoleonica) che faceva ridere i polli, anche perché - una volta vestiti i personaggi da primo ottocento e infagottato Kunde di bianco, tanto da renderlo ancora più ridicolo in scena - nulla è stato fatto.
Un incendio del Campidoglio che, lo dico sul serio, il nostro buon vecchio pizzi avrebbe realizzato mille volte meglio: due finestre illuminate di rosso e fumo finto che aleggiava in scena. Una fissità gestuale e illuministica da produrre vera sonnolenza.
Un finale (con le guardie che si avventano su Vitellia) banalissimo e depressivo.
Che diavolo è successo al genio di Mc Vicar? Per come la vedo io è semplice: distrutto dall'incredibile lavoro svolto sui Meistersinger a Glyndebourne, ha tenuto le forze per l'Anna Bolena al Met. E che questa povera Clemenza per vecchi vada a farsi benedire....
Mi spiace soprattutto per lui: un grosso neo nella sua folgorante carriera.
Davis non merita altrettanti rimproveri: lui ha fatto quello che ci si aspettava.
Ha fatto un Mozart esattamente identico a quelli che incideva quaranta anni fa.
Morbido, vellutato, accurato, ma senza alcuna disposizione tragica, senza alcuno strappo narrativo, senza alcuna intensità poetica, talmente omogeneo e raccolto da favorire sonni profondi.
Lo conoscevo bene, non mi aspettavo niente di diverso: anzi era proprio questa nobile vetustà che in teoria mi attirava (e la perfezione degli accompagnamenti, l'equilibrio straordinario con gli strumenti obbligati). Purtroppo però la Clemenza è opera particolarmente bisognosa di esuberanza.
Il buon Boehm era un ciclone paragonato a questo stanco e demotivato baronetto.
Infine il cast.
Per non sconvolgere nessuno, oggi sono due le strade per Tito: quella degli inglesi coloristi (sulla linea dei Langridge e Rolfe-Johnson: e infatti inizialmente era stato scritturato Ainsley) o quella dei Rossiniani d'America (sulla linea dell'inarrivabile Ford).
Alla fine è stata scelta questa seconda: Kunde, che vocalmente - come avevo scritto nell'articolo a lui dedicato - è totalmente a suo agio come tessitura e tecnica; il suo colorismo gli permette di lavorare benissimo sui recitativi (fin dove almeno lo spinge il suo non profondissimo istinto espressivo) e di dare un bello sbalzo alle arie.
Ogni tanto qualche segno di senilità lo si avverte, ma ben poca roba di fronte a un canto che comunque - in questo repertorio - è ancora trionfale.
Semmai il limite sta nel canto di agilità, che non è davvero più sicuro come un tempo.
Resta il problema della sua scarsissima credibilità scenica: come attore il Kunde di oggi funziona solo in personaggi estremi e rabbiosi (il baritenore nozzariano). In quelli nobili sembra un orsacchiotto imbronciato e maldestro, tanto da scivolare su un gradino e non saper gestire gli assurdi costumi (non disegnati per lui).
Ed è lui che più di tutti avrebbe avuto bisogno dell'aiuto di Mc Vicar, che - se ispirato - fa recitare anche i sassi.
Infatti, laddove il lavoro c'è stato (mi riferisco al secondo atto), Kunde è riuscito a dare vera emozione al suo personaggio, con soluzioni anche sceniche estremamente sciolte, moderne, commoventi.
Il pubblico gli ha riservato un accoglienza fredda, forse un filino troppo fredda rispetto comunque a ciò che di buono il suo Tito aveva.
Male, senza speranza, la Giannattasio in Vitellia, accolta con freddezza anche maggiore.
Vocalmente, scenicamente, tecnicamente inadeguata è il meno che si possa dire.
Un Vitellia in minatura, che si atteggia a gran diva senza esserlo, priva di carisma scenico (il suo zampettare in scena forzava la tenerezza) tirata sugli acuti, tiratissima sui gravi, evidentemente piazzata in un ruolo completamente sbagliato per lei.
Attenzione: errori come questi si pagano.
La gioia del pubblico si è riversata, come era prevedibile, solo sulla Connoly, trionfatrice indiscussa della serata, la vittoria del "canto inglese" su quello americano e italiano.
Attrice consumatissima, musicista in piena regola, sorprendentemente capace di esprimere la gioventù idealistica e disperata del personaggio, è l'unica che ha saputo trarre dalla noia generale gli stimoli per un'interpretazione di altissima classe e tormentata emotività.
Gli altri membri del cast non meritano menzione, con l'eccezione dell'Annio della bravissima Anna Stephany, un nome da tenere a mente.
IL pubblico ha dormito molto ieri sera (mentre era attentissimo e coinvoltissimo al Don Giovanni).
In compenso ha applaudito (senza isteria) alla fine; mentre al Don Giovanni aveva fischiato e contestato.
In questo senso l'obbiettivo è stato raggiunto.
Salutoni provenzali.
Matteo Marazzi