Uno ascolta l’Elias di Mendelssohn e si chiede se il compositore sia stato semplice strumento nelle mani di Dio, vero autore: tale la bellezza, addirittura inquietante, di un capolavoro che ci lascia storditi, travolti da una musica che si fa espressione quasi “palpabile” della presenza del divino nella natura e nelle vicende degli umani. Quando, nella seconda parte, dai numeri 33 in poi dell’oratorio, si evoca l’incontro del profeta con Dio sul Monte Horeb, si ha come un senso di vertigine. L’uso diretto e non mediato della narrazione biblica e il non-uso della parte del narratore, e uno stile che attiene sia all’opera che al lied, sia al teatro musicale dell’800 che agli “affetti” ed “effetti” barocchi, fanno sì che ci si ritrovi come “immessi”, partecipi più che ascoltatori, nella manifestazione del divino. Ed è questo che ci lascia non solo stupiti, ma anche scossi.
Naturalmente, la forza d’urto di questa musica è tanto più forte quando trova interpreti capaci di evocarla. E Daniel Harding ne è stato formidabile evocatore ed interprete, alla guida di un formidabile quartetto vocale, del coro di Casoni al culmine della sua eccellenza nel complesso e nelle sortite solistiche, dell’orchestra della Scala in grado di tradurre tutti i fremiti della sbalorditiva partitura. A partire dalla scelta di un suono barocco, archi a vibrato praticamente assente, ottoni in rilievo, una timbrica sorvegliatissima e una mobilità di scansione e fraseggi che ci ha molto ricordato – pur nella maturità e nell’equilibrio raggiunti da un direttore alle soglie dei quarant’anni – l’Harding fremente degli esordi, quello che stupiva e avvinceva con un Don Giovanni fuori dagli schemi. L’inventiva del giovane Harding si coniuga oggi all’eleganza del gesto e dell’espressione che ne consegue e ad un sovrano equilibrio che non esclude – anzi, esalta! – la curiosità intellettuale, la freschezza di esiti mai scontati. Con Daniel Harding la musica è avventura dell’intelletto: un lavoro quale l’Elias risulta esaltato da un simile approccio.
Fra i solisti, tutti, come detto, eccellenti, l’Elias dell’incredibile baritono Christian Gerharer: la parola, il colore, di una voce non grande che “passa” mirabilmente con la forza dello stile e dell’espressione (a tratti, e a occhi chiusi, sembra evocarsi, pur più raccolto, il “suono” del grande Dieskau). Ma anche i suoi compagni di viaggio, lo svettante tenore Andrew Staples (dall’avvincenta biografia, che lo vede dedito alla diffusione della musica in situazioni e Paesi inconsueti), il limpido sopranoJulia Kleiter, l’espressivo “mezzo” Sarah Connolly hanno servito a perfezione il capolavoro. E, oltre coro e orchestra, hanno commosso le quattro voci bianche dell’Accademia della Scala (da brivido il terzetto a cappella degli Angeli, nr 28).
Tutti e tutto hanno trovato esaltazione nelle mani di Daniel Harding: si deve esser grati a Stephane Lissner, sovrintendente-direttore artistico uscente (i cui meriti è già “di moda” e “di potere” – vero, via Solferino 28? – dimenticare), per la presenza del direttore inglese cui, da Idomeneo a Cavalleria Rusticana al Sacre in forma scenica e di concerto a innumerevoli esibizioni, i complessi scaligeri devono la parte forse più avvincente del loro cammino di questi anni: un’avventura dello spirito e dell’intelligenza che speriamo prosegua nella “gestione” dell’entrante Pereira. I ritorni annunciati (più o meno possibili) delle glorie del passato scaligero “fanno scena e notizia” mediatica: ma non avere un Harding con l’incisività che ne ha connotato la presenza negli anni-Lissner (che hanno aperto la Scala all’Europa e al mondo), sarebbe ingratitudine umana ed insipienza artistica.
marco vizzardelli