Magari questo allestimento di Aida avesse avuto, per l’inaugurazione 2006, la direzione che ha adesso! Chi ha nella mente la plantigrada, monolitica, greve, direzione di Riccardo Chailly non può che rimanere piacevolmente sorpreso da quella, ardente, di Gianandrea Noseda: screziata di sfumature, teatralissima, mobile nei fraseggi e nella scelta di tempi adatti alle varie situazioni drammaturgiche. Muovere la musica, fare teatro in musica, è la prima legge del direttore verdiano. E, bisogna pur dirlo, dai Vespri di Torino, alla Miller della Scala, a questa Aida (non ho ascoltato il Don Carlo torinese) Noseda non ha sbagliato un colpo! Qui è interessantissimo: un’Aida di grande “personalità”, che – a nostra memoria – non assomiglia ad alcuna altra, eppure è pertinentissima. Il colore è tendenzialmente chiaro (tipico di Noseda) ma non sempre (non nel processo a Radames: magnifico il tema dell’ingresso dei sacerdoti passato fra contrabbassi e celli con una “tinta” e un calore straordinari). E il dato più caratteristico di questa lettura è proprio l’estrema mobilità: tutte le dinamiche e tutti i “tempi” sono scelti e messi in atto in rapporto alla situazione drammaturgica e all’espressione. Il che getta di peso l’ascoltatore dentro la storia, lo chiama a seguirla momento per momento, una situazione dopo l’altro, un sentimento dopo l’altro da parte dei protagonisti: e questo è teatro in musica, quindi è Verdi. Ai cantanti è richiesta una grande mobilità vocale (quella scenica non c’è perché totalmente disattesa dalla non-regia di Zeffirelli nel mastodontico allestimento scenico che è la classica montagna che partorisce il topolino, ovvero l’inerzia) e la risposta è lodevole, anche se, va detto, questa ripresa di Aida ha quattro ragioni d’essere: il direttore, l’orchestra, il coro (favoloso!!) e la protagonista. Hui He ha fatto di questo ruolo la sua “firma”, ovunque in Italia e nel mondo. Personalmente l’avevo sentita a Colonia diretta da Humburg e quest’estate all’Arena con Wellber, più in uno-due altri allestimenti che al momento mi sfuggono. A mia memoria questa alla Scala è la sua miglior Aida: conoscevamo il canto rotondo, da manuale, della He, ma qui, rispetto ai precedenti ascolti, abbiamo trovato tutta l’anima di Aida oltreché la correttezza quasi completa delle note (e non è consueto sentir concludere i “Cieli Azzurri” con una nota filata e tenuta come e quanto la He ne è stata capace). Il resto della compagnia è meno significativo (Berti Radames molto “tenoreggiante” pur accettabilissimo, la Krasteva e Spotti un’ Amneris e un Ramfis “nella media”, lei buona attrice se Zeffirelli gliel’avesse concesso, Mastromarino Amonasro oscillante fra acuti sicuri e centri meno gradevoli) con menzione a parte per l’eccellente Re di Alexander Tsymbalyuk. Ottima l'orchestra e - va ribadito - strepitoso il coro, per dizione, colore, ricchezza di dinamiche.
Della direzione di Noseda andrebbero citati diversi momenti, e le mille sfumature espressive. Magnifica tutta la scena del trionfo, fra l’altro “dosata” con tempi e dinamiche personalissime: raramente si ascolta perfino la marcia trionfale concertata con tal cura nella “stereofonia” degli interventi e nel ritmo. Noseda tiene un po’ più bassa dell’usuale la tromba che enuncia il tema e un po’ più alto l’accompagnamento ritmico, il che dà un senso davvero “regale” alla marcia. Le danze sono d’una dinamica travolgente. La mobilità estrema della direzione chiama tutti a duro impoegno, c’è, qua e là qualche attimo di scollamento, ma è un’ Aida di grande espressività, frutto d’una personalità direttoriale forte e originale.
Dell’allestimento, noto assemblaggio di elemento egypt-gay, egypt-fetish, egypt supermarket, egypt-dutyfree si è fatto cenno qua e là. Messinscena opulenta? Sì, non c'è spazio per uno spillo nell'ammucchiata di cose e persone, ma a scena stracolma fa riscontro regia non pervenuta. Quando, a fine atto terzo, Aida e Amonasro se ne vanno pian piano e i soldati restano impalati come mummie, siamo all’assurdo, o al grado zero della regia. Inerzia. Ogni cantante deve, in pratica, inventarsi, come sa e come può, un minimo di “azioni” sceniche. Con esiti di comicità involontaria quali il sunnominato finale terzo, oppure, inizio atto secondo, l’entrata in scena della Krasteva-Amneris (davanti alle ancelle nella stanza verdolina stile duty free-egyptian-kitsch), allegramente sculettante, quasi una Santanché dell’antico Egitto. Per non parlare dei negretti più o meno gayeggianti. E del madornale travisamento del più rarefatto finale d’opera di tutto Verdi: era stato colto benissimo, nella sua “intimità”, dalla Fura a Verona (e sì che sono i fautori del “grandioso”!) dove c’erano solo Aida, Radames e la fatal pietra. Qui al di sopra degli amanti si aggira una folla zeffirelliana di persone che disturba ad un tempo l’occhio e l’orecchio. E, nel complesso, l’inerzia non è tradizione, né innovazione: è soltanto inerzia.
marco vizzardelli