da Luca » ven 01 nov 2013, 12:34
Anche io dico la mia:
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TURANDOT A ROMA
L’allestimento dell’ultimo capolavoro incompiuto di Puccini rappresentato al Teatro dell’Opera (e che chiude la stagione 2012-13) era firmato, per la regia, da R. De Simone e ripreso da M. Bauduin (allestimento del Petruzzelli di Bari riaperto dopo l’incendio). Le scene erano curate da N. Rubertelli e i costumi da O. Nicoletti. Il buon gioco di luci (tendente a sottolineare i lati più cruenti nel I atto, quelli più luminosi del II e dell’alba del III) era affidato a A. Angelini. La parte visiva mostrava un assetto monumentale dove si dava molto spazio alla dimensione arcaica con il popolo ‘congelato’, potremmo dire, in statue in caldo ocra che facevano da contraltare alla freddezza delle mura della reggia. Questo, se da un lato, serviva bene la dimensione kolossal di quest’opera mancava un po’ di quel cromatismo che se è presente nella musica di Puccini dovrebbe trovare il corrispettivo in quanto si vede in palcoscenico. Il popolo-coro, in sostanza, era piuttosto omologato in questa veste ‘statuaria’ e nemmeno troppo dinamico in quanto a movimenti. A ciò si aggiunge che tale staticità (tanto del coro quanto di alcuni interpreti) a volte strideva con lo svolgersi della vicenda. Faccio un unico esempio: nel finale I quando Calaf dovrebbe essere dissuaso dalle maschere dalla prova con la frase “Su, un ultimo sforzo portiamolo via”, in realtà non si portava via un bel nulla perché le maschere erano posizionate ad un ripiano sopra il tenore. Più vivace invece la I scena dell’atto seguente con il noto terzetto di nostalgia e speranza dei tre ministri. Nella scena imperiale dominata – come d’uso – da un’enorme scalinata la protagonista cantava il suo monologo e successiva scena tra troppa gente, anche se – interessante trovata – durante il suo monologo veniva mimata, in un’atmosfera di suggestiva semi-oscurità, da alcune comparse la triste vicenda dell’ava Lou- ling. Però, almeno per me, troppa gente fuori posto.
A tratti ridicola la scena della tortura di Liù che faceva venire alla mente l’analoga scena di Azucena nel campo di Luna del verdiano Trovatore, in aggiunta al fatto che Liù si dimenava come non mai stretta fra 4 corde tenute a distanza dagli aguzzini e con il costante infierire del boia che la seviziava con una spada…
L’opera era presentata nella forma ‘abbreviata’ alla morte di Liù come alla prima scaligera del 1926.
La direzione di Steinberg puntava alla sottolineatura della sfarzosità, ma in modo talvolta sgraziato ed enfatico generando in me disapprovazione per la mancata resa degli aspetti più misteriosi, sfumati ed onirici della vicenda (penso alle varie apparizioni del I atto). Quindi pedale premuto sui forti e fortissimi, ma non risolutivo in una vicenda senz’altro eroica, ma anche sognante e a tratti delicata (come lo è il grande operista lucchese).
Ho assistito a 2 rappresentazioni (29 e 30 ottobre) con il terzetto principale diverso: E. Herlitzius è stata una Turandot molto singolare. Aspra e tagliente nel timbro e in difficoltà nel settore acuto ha offerto una principessa giustamente legata alla nevrosi di personaggi come Elektra e Salome (dei quali è acclamata interprete). La voce soffre in alcuni momenti (in acuto stridulo e fiati corti) però i movimenti erano felini e il fraseggio sferzante davano l’idea di un personaggio che dietro la sua durezza ha molti problemi psicologici (se non addirittura psichiatrici). Per me è stata una valida prova soprattutto per l’interpretazione, la gestualità ma anche il modo di gestirsi (ora in ginocchio, ora seduta, ora piegata in diversi punti della scena: qualcosa di simile lo avevo visto solo in un noto video con G. Jones) che la facevano rifuggire da certa statuarietà legata, a volte, a questo personaggio. Un momento di difficoltà l’ha avuto all’inizio del III enigma attaccato non in acuto (“Gelo che ti da foco…”) ma quasi parlato, però notevole l’incalzare e l’infierire sul principe dopo averlo proposto (“Su straniero ti sbianca la paura…” ecc.). Una principessa non perentoria vocalmente, ma comunque interessante negli elementi menzionati. Male invece K. Chanev come Calaf, pallido e di scarsa epicità con certo volume in centro, ma in difficoltà nelle mezze voci e non certo campione di potenza nei vari scontri con la protagonista. Il “Non piangere Liù” non ha avuto apprezzamenti mentre un timido applauso lo ha ottenuto nel fatidico “Nessun dorma” e non si capisce perché. Inoltre ha scelto la varianate acuta di “No principessa altera…”: cui prodest? Tra l’altro leggo nel programma di sala che originariamente tenore lirico (Faust, Werther, Tamino, Ottavio, ecc), questo tenore si è orientato a personaggi drammatici (Don José, Canio, Radames, ecc.). Mah…
C. Remigio era tutto sommato una discreta Liù anche se, per apportare un efficace contrasto a Turandot (e soprattutto a questa Turandot), avrebbe dovuto essere più morbida nel suono (e qualche filato non avrebbe guastato) e più sentimentale evitando di trasformarsi un zuccheriera, ma certe inflessioni specie nella tortura non erano molto lontane dalla verdiana Azucena anche per certi suoni in basso piuttosto sgradevoli di sentore che definirei verista. Però la partecipazione c’era.
Molto bene il terzetto delle maschere (S. Del Savio – S. Fiore – G. Bonfatti) anche se in alcuni momenti del la loro scena del II atto mancavano un po’ di colore limitando l’aspetto farsesco della loro presenza. G. Montresor tonante ed imponente (anche visivamente) Mandarino anche se la voce non era fermissima e sentivo qua e là qualche oscillazione. Altoum era l’illustre C. Merritt: passabile nella prima serata molto meno nella seconda: voce parlante e dizione non completamente ‘all’italiana’. È stato un grande cantante e notevole vocalista rossiniano, però mi chiedo se per l’importante Altoum (sebbene di poche battute e di tessitura sostanzialmente centrale) non si poteva pensare a qualcosa d’altro e dare la possibilità ad un cantante ‘nostro’ forse meno noto per offrire migliore caratterizzazione. Non voglio aggiungere anatematismi che possano offendere, però a me non è piaciuto per nulla.
Nel secondo cast il terzetto era composto da: E. Popovskaja – M. Giordani – M. Kovalevska. Con la Popovskaja si assisteva (confrontata con la Herlitzius) ad un ritorno alla tradizione: Turandot statuaria, pochi movimenti, voce che dominava senza apparenti difficoltà (ma c’erano: nel settore acuto non teneva i suoni di certa consistenza e certe frasi risultavano tronche, senza contare la difficoltà nei passaggi più ardui della perorazione ad Altoum “Figlio del cielo…”). Giordani è stato senz’altro migliore di Chanev e, a tratti, il timbro ricordava quello del suo conterraneo G. Di Stefano. Tuttavia gli acuti non sono lucidissimi e nel “No principessa altera…” (anch’egli in acuto e poteva risparmiarselo) la difficoltà era evidente. Il “Nessun dorma” eseguito meglio del collega russo è passato, paradossalmente, sotto silenzio: un applauso se lo meritava. L’eroicità c’era e anche il piglio principesco. La Kovalevska precisa e suadente Liù non amava però filati e mezze voci (specie nel “Signore ascolta”). Quanto alla scena della tortura emergeva una Liù passionale ed infervorata senza contare – ahimé – qualche suono aspro. Al momento del suicidio tuttavia tale è l’immedesimazione che anche la principessa appare fortemente colpita e quasi sul punto di intervenire.
Da ultimo: che dire della scelta della conclusione ‘toscaniniana’? Siamo abituati al ‘vissero felici e contenti’ essendo Turandot una favola, però l’allestimento con luci che via via si spegnevano lasciando le sagome di Turandot e Calaf l’una di fronte all’altro e la chiusura del sipario con tutti pianissimi che accompagnano il funerale di Liù lasciavano il segno. Personalmente dico che l’esperimento può avere certa efficacità, ma…. una tantum…
Resta il rammarico di un nostro operista (per me il più grande) fermato in corso d’opera: con la sua lungimiranza chissà che ci avrebbe potuto dare non solo nel finale, ma DOPO quest’opera!
Saluti, Luca.