Uno dei peccati più gravi di cui si può macchiare un regista d'opera contemporaneo è quello di astrazione. McVicar a Vienna tratta Seiffert (Tristano) come se fosse Keanu Reeves imbragandolo in un costume da guerriero ninja con la scimitarra. Ridicolo. Lepage al Met veste una chiattonissima e matura Deborah Voigt (Brunnhilde) con un costume che solo Uma Thurman indosserebbe senza farsi ridere dietro. Penosa. Ricordo un Parsifal viennese dove il ciccionissimo Elsner (Parsifal) mimava un coito con la minuscola Kundry della Herlitzius schiacciandola con una trabordante pancia e rendendola di fatto incapace di muovere braccia e gambe. Più che un fanciullo guerriero era un lamantino spiaggiato e ancor prima che la Herlitzius sparasse il suo terrificante "lachte", mezza Staatsoper stava già ridendo. Purtroppo non c'è niente da fare: molti registi rimangono astrattamente innamorati di un'idea drammaturgica prescindendo dal materiale umano di cui, concretamente, dispongono.
Questa è l'unica trappola in cui Marelli, fortunatamente, non è caduto.
Nina Stemme è bassa, grassoccia, tracagnotta. Ha però carisma da vendere, una ghigna da vera dura e una faccia su cui, come dicono in Romagna, "ci potresti ammaccare i pinoli". Capite che usare la Stemme per farne una Minnie fanciulla il cui seducente candore sviluppi negli uomini che la circondano porconissime idee, ancora più porcone in quanto mischiate ad una malintesa immagine materna, sarebbe un errore madornale. E quindi Marelli ha disegnato una Minnie più dalle parti di Kathy Bates che da quelle di Scarlet Johansson, una Minnie in salopette di jeans, con le belle ciambellotte di panza per niente mascherate, con modi da buzzurra e che ti immagini, quando in buona, fare la ola con i minatori e magari qualche gara non proprio elegante dopo l'ennesima birra. Una Minnie con l'occhio lungo per gli affari, che ha sacrificato avvenenza, femminilità, senso materno per buttarsi a capofitto nella gestione di un bar tutto al maschile fuori dal mondo. Una Minnie, se volete, terribilmente sfigata, la cui goffaggine nel secondo atto dona alle battute della seduzione (ridicolissime in bocca a nove Minnie su dieci se dette con convinzione) un senso di verità e di logica da renderti immediatamente il personaggio empatico e coinvolgente. La scena del bacio è meravigliosa. Una milfona sovrappeso che per anni ha aspettato un uomo e se ne trova uno bellissimo in casa, a sua disposizione. La Stemme si butta a capofitto e lo travolge, come una che abbia deciso finalmente di tuffarsi da un altissimo trampolino. O la va o la spacca. E per la prima volta vediamo questa scena da un'angolazione diversa, ma non per questo meno plausibile. Ci si chiede (e se lo chiede anche Minnie, del resto) cosa ci trovi un piacione come il Johnson di Kaufmann in una tipa come la Minnie della Stemme. E la risposta è solo una: i soldi, tanti soldi, nascosti da qualche parte sia al bar che nella casa. E la seduzione è una finta, così come finta diventa l'arrivo del bel cow-boy in quella bettola in cui (ma chi ci crede?) l'astuto Ramerrez si sorprende di trovare la candida Minnie incontrata sul sentiero che "mena a Monterey". Va da sè che questa Minnie esploda di gigantesco e ferino splendore quando, nella seconda parte dell'atto, smette i panni della seducente sedotta per diventare una dura tenutaria di bettola che tiene testa al poliziottesco sceriffo. Qui la Stemme è una tigre e la partira a poker magnifica.
Purtroppo Marelli si è fermato qui.
Per il resto altro non ha fatto che sbobinare la solita Fanciulla del West solo trasportandola dalle Cloudy Mountains di metà ottocento all'Alaska dei giorni nostri con tanto di aurora boreale. Non ci sono più i cow-boy di una volta, sostituiti da minatori/camionisti che sembrano usciti da un documentario di Nat Geo Wild, Jake Wallace, il cantastorie del campo, (inciso, Alessio Arduini, bravissimo! mi sorprendo tutte le volte che lo sento senza sapere che è in locandina) è sostituito da un compattone stereo con le cassette, la pelle d'orso del secondo atto da un piumone dell'Ikea e la "capanna a mezzo monte" da un prefabbricato di lamiera. Cambiato questo siamo stati dalle parti del già visto e stravisto
Purtroppo Marelli non sa lavorare sugli attori. E quindi la recitazione enfatica, lo scarso senso della misura, la gestione dei registri balorda la fanno da padrone per quasi quattro quinti dell'opera. La Stemme è la migliore, ma anche Kaufmann (non guidato) cade nei soliti stereotipi gestuali che il tenorissimo applica quando non sa cosa fare. Tomasz Konieczny (Rance) si muove e gesticola come un baritono periferico che deve simulare l'uomo aggressivo e prepotente.
Ma dove Marelli davvero irrita è nel finale. Dopo aver impostato una Fanciulla del West ambientata in un contesto contemporaneo del tutto realistico, nel finale decide di virare nelle sberleffo drammaturgico che tanto piace ai registi di area tedesca. Come se noi, noi pucciniani intendo, non ci fossimo mai accorti della banalità del finale di Fanciulla, con cow-boy malinconici e i protagonisti che cavalcano verso il tramonto, (ma allora è banale mezzo cinema hollywoodiano), come se non avessimo mai capito la semplicità infantile dell'ultima tirata di Minnie (che però fa gli stessi ricattini che qualsiasi mamma fa con i figli per convincerli di qualcosa), come se insomma fossimo dei piccoli beoti che aspettano l'illuminazione... ecco che Marelli fa scendere dall'alto una coloratissima mongolfiera dentro cui entrano i due protagonisti che salgono al cielo in un'atmosfera da Pomi d'ottone e manici di scopa. Ma che bravo Marelli! Senza la tua sottile ironia non ci saremmo mai salvati da questo mare di banalità in cui anneghiamo da anni senza saperlo. Magari, dico magari, visto che sei un regista così noto e così scritturato se invece di fare la burletta, cercavi di risovere il finale e di dargli un qualche senso drammaturgico come hanno fatto sia Carsen che Lehnoff, i quali non temono il melodramma ma sanno come gestirlo, te ne saremmo stati altrettanto grati. Vabbè.
Musicalmente lo cose sono andate decisamente meglio.
Rivelatoria la Minnie della Stemme. Dopo la prova, per me, interlocutoria di Stoccolma con Loy, ero andato un po' prevenuto. Invece è stata bravissima. Perfetta per accento, chiarissima nella dizione, luminosa negli acuti (il do e i si naturali sono un po' faticosi, ma i si bemolle sono un'iradiddio), imponente per volume. Purtroppo chi ha visto questa Fanciulla in video non può rendersi conto di cosa fosse la voce della Stemme in teatro. Rimane il rimpianto che non ci fosse un regista in grado di valorizzare ulteriormente il suo temperamento vulcanico. Ma nel Finale II, come ho già detto, è stata impressionante.
Kaufmann è apparso, finalmente, a suo agio in un ruolo Caruso, centrale, con pochi acuti, sostanzialmente declamatorio. Ho trovato finalmente il Kaufmann capace di elettrizzarmi, quel tenore che aveva affrontato Don Josè, Werther, Lohengrin rastrellando superlativi e che si era invece perso in inutili Manrichi e in altrettanto inutili e malriusciti dischi verdiani. Purtroppo gli anni cominciano a sentirsi anche per lui. Già il siB è difficile e le lunghe frasi in acuto mostrano la corda. Però il fraseggio, l'accento e la prestanza fisica fanno di questo Johnson uno dei migliori, se non il migliore, che io abbia visto. Non dimentichiamoci, quando si fanno paragoni (e lo dico soprattutto per le suorine che storcono il naso) che questo ruolo, negli ultimi anni, l'hanno cantanto campioni come Berti, Storey, Armiliato, Todorovich, Torsten Kerl, e Antonenko. Kaufmann è su un altro pianeta.
Tomasz Konieczny è stato un disastro. Improponibile.
Welser Most ha diretto, dal vivo, con una singolare propensione al baccano. In video invece molti di questi clangori sembrano quasi attenutati e la sua sembra quasi una direzione "bella". Entusiasmanti misteri della tecnologia.
Pubblico calorosissimo, con fan kaufmanniane scatenate, tra cui un gruppuscolo di nonne elegantissime e sciccose, di quelle che magari non sanno nemmeno accendere un computer, ma che qui sfoderavano costosissimi smartphone con cui riprendevano di nascosto pezzi dello spettacolo e fotografavano il tenore piacione. Sembravano ragazzotte a un concerto di Avicii e l'entusiasmo nel finale è salito alle stelle. Applausi ritmati e standing ovation. Il guaio è che i viennesi li hanno fatti a tutti. Marelli e Konieczny compresi. E quindi non è bello ciò che è bello ma che bello, che bello, che bello...
Scusate, ma mi sono lasciato prendere la mano.
WSM