lo ammetto: un momento davvero riuscito (tecnicamente riuscito, voglio dire) è stato il momento del coro "Patria oppressa". Lì davvero -vuoi anche per la superba prestazione corale- Kusej ha segnato un goal. Va anche detto che è una scena in cui è difficile non riuscire a commuovere...
Rispondo volentieri invece a Teo.emme
teo.emme ha scritto:DottorMalatesta ha scritto:non ho apprezzato la recensione che hai proposto perché, di fatto, si ferma a: "questo Macbeth non va perché non rispetta le indicazioni del libretto". Capirai che gran cosa...
E quindi? Sarebbe un peccato così mortale?
teo.emme ha scritto:DottorMalatesta ha scritto: Certo, se uno ha in mente lo spettacolo di Tarkovskj o l´orrore proposto qualche anno fa a Torino (regia di Andrei Konchalovsky), siamo su un altro (alto) livello.
Bieito meglio di Tarkovskij????? Ma stai scherzando...vero? Spesso leggo certi maestrini dalla penna blu e rossa che "bacchettano" chiunque non la pensa come loro - in campo registico - perché non colgono il "konzept" o la raffinata destrutturazione o la geniale decontestualizzazione o altre amenità simili...accusandoli di superficialità (quando non ottuso provincialismo) perché si fermerebbero al dato più esteriore (puttane, storpi o tette al vento...per riprendere un discorso già letto).
Vorrei premettere che non mi sono atteggiato a maestrino con la penna blu e rossa (almeno non intenzionalmente
) e che non ho certo postato io un riferimento ad una recensione che giudico metodologicamente discutibile.
Recensire uno spettacolo basato su un Konzept, una regia simbolica sulla base del rispetto o meno alle indicazioni sceniche previste nel libretto non è solo un peccato mortale, ma è una vera e propria ingenuità metodologica (ero tentato di scrivere "errore", ma allora sì mi sarei atteggiato a maestrino
)! E' come prendere un dipinto informale (chessò, Kandinskij) e criticarlo pesantemente perché… l’autore non ha rispettato la prospettiva lineare di Piero della Francesca!
Ammesso e non concesso che considerare vangelo le indicazioni sceniche del libretto sia del tutto corretto (procedura che, lo ammetto, mi sembra discutibile e un po' vecchiotta... Voglio dire, non siamo mica più nell'800, siamo d'accordo o no che il regista sia un interprete e, per certi versi, un creatore? Forse mica tutti…), come si può applicare un tale metro di paragone ad un'impostazione registica strutturalmente, formalmente diversissima come concezione, come impianto tecnico?
Se vuoi negare ogni validità alla regia destrutturante, alla regia simbolica, alla regia "a tesi" (quella basata su un Konzept), vabbè. Tanto vale finirla qui e smetterla di parlarne.
Ammettiamo però solo per un momento che possano avere diritto ad esistere anche impostazioni registiche "altre" da quelle narrative/illustrative (e per regie narrative/illustrative intendo un amplissimo ventaglio di realizzazioni, dalle scemotte riproposizioni delle cartolinee Liebig, al trovarobato più o meno riuscito di Zeffirelli, alle geniali riuscite di un Mc Vicar e, quando vuole essere prevalentemente narrativo, di un Richard Jones). Impostazioni registiche cioè che intendano frantumare la drammaturgia originaria per poi, con i cocci, ricomporne un'altra completamente diversa eppure legata a quella originaria da fini invisibili ma tenacissimi (il caso di Tcherniakov
, che confesso essere il "mio regista" del momento); oppure regie fortemente simboliche (come quelle di un Robert Carsen); oppure ancora regie nate come dimostrazione scenico-teatrale di una o più tesi (il Regietheater tedesco di un Kusej, di un Guth, di un Konwitschny, di un Neuenfels). Come si può anche lontanamente pensare di poter applicare una metodologia critica che non consideri le profonde diversità di tali impostazioni con quelle che ho definito "narrative/illustrative"? Come si può giudicare il Macbeth di Kusej sulla base del “rispetta o no il libretto”?!
Io mi rendo conto che qui si stia svolgendo (e da anni) un’autentica guerra civile. Non tanto tra tradizione e innovazione (alcuni spettacolo “innovativi” sono in realtà tradizionalissimi, e riscuotono successo anche tra i nostalgici delle cartoline Liebig, e penso ancora una volta alle regie di McVicar). E’ chiaro che oggi nessuno accetterebbe più di assistere all’opera come si faceva 70 anni fa (fondalini dipinti, tenori con pose da vigile urbano, etc.). Perché il nostro linguaggio (visivo, culturale, sociale) è profondamente cambiato. Scusa la divagazione, ma penso a mia figlia, 3 anni. Inizialmente innamorata di Biancaneve della Disney (il primo lungometraggio, penso dei primi anni ‘30). Bene, è bastato farle vedere una sola volta (vincendo resistenze e diffidenze) Rapunzel (il penultimo cartone animato Disney, 2010 o giù di lì) per farle relegare Biancaneve nel dimenticatoio
!!! Voglio dire, il linguaggio evolve, la storia evolve, la società evolve, l’ arte evolve, il teatro evolve!!!! Noi evolviamo!!!!
Io penso invece che la vera guerra civile si stia combattendo (a teatro) tra tre gruppi.
Da un lato chi (come dice Wotan di Fricka) “StetsGewohntest nur magst du verstehn” (solo ciò che già sai tu puoi comprendere), cioè chi è legato ad un’unica lettura teatrale (quella narrativa/illustrativa, declinata nelle sue varie forme ed espressioni).
Dall’altro chi concede diritto di esistenza ad esperienze teatrali “altre” da quelle cui si è sempre stati abituati, dimostrando quindi maggiore curiosità. E siccome, da neurologo, so che la curiosità è ciò che fa evolvere il cervello del singolo e la società umana nel suo complesso, io mi professo –con forza- appartenente a questo gruppo. Infine, i “morallisti”.
Infine quelli che, per dirla come l’amico Mattioli, vogliono a tutti i costi “difendere Verdi da Verdi”. Quelli che appena vedono una poppa al vento se ne escono da teatro indignati, salvo poi consolarsi davanti... a qualche rivistina porno
. Quelli che confondono esperienza estetica ed esperienza morale, neanche fossimo nella antica Grecia dove i kaloi (belli) erano anche, necessariamente, agathoi (buoni). Per quale motivo, l’arte teatrale dovrebbe essere espressione del sublimemente “bello e buono”? Perché il teatro dovrebbe essere la tutela del buono? Del moralmente appropriato? Sin dall’antichità il teatro è specchio della società, con le sue grandezze, le sue meschinità, i suoi orrori. Perché mai il teatro deve parlare agli uomini di angeli e non di uomini?
Ciao,
DM
P.S.: scusate la "lenzuolata" (come direbbe qualcuno)...