Apperò, meno male che avevo appena dato il mio benvenuto agli angeli femminili!
Scherzi a parte, ti ringrazio di cuore per l’attenzione e il tempo che hai dedicato al mio scritto, nobilitandolo addirittura del titolo di “recensione”! Sono convinto che, più che gli apprezzamenti generici (“sei un mito, scrivi come un dio, bravo, continua così” etc.), una critica come la tua possa essere vera occasione di confronto e crescita. Per cui grazie.
Sono contento che il Macbeth di Kusej ti sia piaciuto. Probabilmente è piaciuto anche ad altre decine di persone. Ma non è questo il punto. L’esperienza e la ricezione estetica ed emotiva di ogni forma d’arte è qualcosa di individuale, risente di moltissimi fattori, e richiede il massimo rispetto. Sempre.
Ma, lo ripeto, non è questo il punto. Se ci fermiamo al “mi piace/non mi piace” molto avanti non si va. Lo scrivi tu stessa e concordo perfettamente.
Non si può recensire senza recepire. E non si può recepire senza cercare (non dico riuscire, ma almeno cercare) di decodificare uno spettacolo, valutando il contenuto dell’oper a e la forma tramite cui quello specifico contenuto viene tradotto in un’esperienza sensibile che parla ai sensi, ma –in realtà- al cervello (e quindi non è una semplice esperienza sensoriale, ma diventa estetica). L’arte, in fondo, è questo. E la critica d’arte questo dovrebbe essere.
Permettimi una difesa, se non altro per il metodo da me adottato (non certo per la qualità del risultato: non lo faccio per professione, il mio italiano è mediocre, e mi considero un semplice “appassionato” d’opera).
Penso infatti che, sotto il velo dell’ironia, il mio scritto fosse incentrato sul contenuto dello spettacolo e sulla forma con cui tale contenuto è stato tradotto in immagini.
Penso di essermi sforzato di comprendere il contenuto, il Konzept sotteso alla regia, decodificandone la simbologia. Simbologia a volte più immediata (la landa desolata ricoperta di teschi, miserello simbolo di morte), a volte più complessa: la tenda da campo come inconscio della coppia; il sesso come sterile, insensata coazione a ripetere un atto meccanico, generatore di mostri e atrocità (“il sonno della ragione genera mostri” di Goya) ; il male come qualcosa che ti si attacca senza potersene andare mai più (le streghe come fastidiose “pulci”, la testa mozzata di Banco che torna e ritorna più volte); il male che si nasconde dietro una facciata di innocenza e perbenismo (le streghe-bambini); il male che permea il quotidiano (mi sembrava che almeno questo aspetto fosse chiaro, ironia a parte, nella mia battuta sulla testa di Banco nascosta nel sacchetto della spesa).
E, dal punto di vista formale, pensavo anche di aver cercato di identificare alcuni riferimenti “extrateatrali” (giudizio universale di Michelangelo, film splatter, Joker, il cane Rex, Rosemary’s Baby). A questo proposito, permettimi di dire che il tuo riferimento a “Village of the damned” è interessante
. Magari sei un’appassionata del genere, ci sei arrivata da sola, e allora tanto di cappello
. Però il riferimento a questo film per spiegare i bambini-streghe di Kusej viene riportato esplicitamente da Elvio Giudici nel suo ultimo libro sulla regia verdiana (e probabilmente è presente su svariati siti online). Ho come il sospetto che, non essendoti ben chiaro dove volesse andare a parare Kusej con questa sua soluzione visiva, tu abbia voluto cercare ulteriori chiarimenti…
Potevo poi infierire molto di più sulla modestia tecnica di questo spettacolo. Penso ad esempio al coro dei sicari, in cui l’alternanza tra perbenismo di facciata e malvagità (quel togliersi e mettersi i passamontagna, e quell’accendersi e spegnersi di luci) non aveva la minima attinenza con quanto si ascoltava. E questo, bada bene, non perché quello che si vede in scena non debba essere in antitesi con quanto si ascolta. Ma perché quello che si vede dovrebbe nascere e porsi in relazione (anche in contrapposizione, anche in negazione) con musica e testo. Questa, in definitiva, mi sembra essere la peculiarità della regia d’opera. E, mi spiace, ma in questa scena Kusej si è dimostrato un vero analfabeta delle specificità linguistiche del teatro d’opera.
Un’ultima annotazione. Mi fa piacere leggere quello che altri scrivono a proposito di questo spettacolo. E non metto in dubbio che il mondo sia pieno di gente che le regie d’opera le sappia decodificare e recensire meglio di me. Però non mi sembra proprio di aver letto, nella recensione che hai indicato, nulla che si accosti ad un’analisi del contenuto e della tecnica di questa regia.
Qui ad OD ci si sforza da anni di fare una riflessione sulla regia operistica che vada oltre il “rispetta o no le indicazioni sceniche previste nel libretto”. Se lo fa qualche altro sito, bene. Mozartianamente mi sento di dire “faccia, dica quel che vuole!”). Sicuramente mi perdo qualcosa ad essere membro della sola Operadisc. Ma, cocciuto e pigro come sono, sto bene dove sto.
Ciao e ancora grazie per le stimolanti considerazioni,
DM