Per parte mia, un orrore complessivo simile alla “prima” questo Macbeth, in un teatro d’opera “di nome” quale la Scala, non lo vivevo da anni.
Dirò subito che innocenti, e in alcuni casi anche validi, mi sono sembrati i cantanti. La Lucrecia Garcia è terribilmente acerba per la parte della Lady. La voce è, per ora, sana (ma se la usa come sta facendo, auguri!), a tratti belloccia salvo quando va nel naso e prende quella timbrica e tono un po’ petulanti tipici dell’inflessione ispanica. L’interprete è quasi inerte, certo non molto aiutata dal fisico, ma non è colpa sua se è stata vestita da male a MALISSIMO nel corso di tutta l’opera: nella scena del banchetto sembrava un mix fra Tosca e un Uovo di Pasqua (è il periodo…) in carta stagnola. Non c’è mai un movimento che corrisponda all’espressione (scusi, regista Corsetti: le ha insegnato qualcosa? O davvero è così poco “ricettiva”?). Ma, e questo è più preoccupante, per la maggior parte dell’opera dà l’impressione di non aver alcuna coscienza delle parole che pronuncia e delle espressioni e dei sentimenti ad esse collegate. Che la scena del sonnambulismo termini con una non necessaria (basta non eseguirlo) “scivolata” sul celebre re b. non è grave (c’è chi caccia uno strillo, e amen): lo è, invece, la quasi totale disconnesione fra testo ed “espressione” della cantante. Viene il dubbio che non conosca perfettamente il significato di ciò che sta “dicendo in canto”. Ma il direttore d’orchestra ed il regista dovrebbero esistere per quello: e risultano ASSENTI. Dunque, colpa loro.
Ci sono due buone o ottime voci maschili: Franco Vassallo-Macbeth e Stefano Secco-Macduff. Il primo “spara” un Macbeth più verista che “primo Verdi” , ma canta, e piuttosto bene, a tratti molto bene. Starebbe al direttore, nel momento in cui si adotta (pur spuria e con commistioni) la “prima” edizione, rispettarne, nei fatti e nella direzione dei cantanti, la fisionomia senz’altro più arcaica e “belcantista” rispetto all’edizione successiva. Ma l’impressione è che tutto ciò a Gergiev freghi zero, o quasi. Qui ognuno canta secondo un suo stile personale. Il direttore fa i suoi gesti d’aquila, ha quasi sempre la testa in giù sulla partitura, e il canto procede allo stato più o meno brado. Stefano Secco-Macduff è, da quanto ricordavamo, cresciuto in sostanza e volume, ed è quasi eroico nel sostenere “Ah, la paterna mano” al tempo e fraseggio spaccavoce impostogli dal podio: molto bravo, tanto più date le circostanze. Stefan Kocàn manda in porto un Banco di buona presenza e voce non proprio omogenea ma d’una certa suggestione timbrica.
Il coro è la vera “spia” della parte musicale di questo Macbeth. Canta bene, come sappiamo, sillaba ancor meglio “mordendo” sulla parola ma… è quasi sempre fuori tempo. Perché è impossibile anche al miglior coro stare a tempo se il direttore, dal podio, ti spedisce con pervicacia “fuori”, da “Macbetto il tuo signore sir t’elesse di Caudore” in poi, cioé: in pratica per tutta l’opera, compreso un “Patria Oppressa (non obiettiamo sull’inserzione: è talmente bello che è un peccato rinunciarvi!) in forma di estenuata marcia funebre, suggestivo ( a tratti, vedi la battaglia finale o la danza degli spiriti alati su Macbeth svenuto, si riconosce che è Gergiev, non un inetto) ma erratico nella scansione. Allora: erratico e quasi sempre fuori tempo. Ripetiamo: l’immagine di Valery Gergiev sul podio della “prima” di questo Macbeth (dall’alto lo vedevamo bene) è inquietante: costantemente chino sulla partitura con le braccia e la (mini, ma non minima, stavolta) bacchetta mulinante. Mai – o quasi – rivolto ai cantanti e al coro. Quanto l’ha provato, questo Macbeth? Cosa è realmente accaduto alle prove, fra la (si dice) eliminazione del D’Espinosa e l’arrivo di Gergiev? L’impressione è che l’imbarazzante esito di questa prima sia figlio in parte di una difficile, diciamo problematica, affinità espressiva e lessicale (l’ombra dell’infelice Forza del Destino di anni fa aleggiava) fra il pur geniale (quando prova e s’impegna) direttore, e… Giuseppe Verdi. D’altra parte, forse o probabilmente, dell’ormai irredimibile tendenza del pur fascinoso Valery a… provare fra un aereo e l’altro. Il primo atto, in particolare, di questa “prima” di Macbeth era di un’approssimazione tale da giustificare, stavolta ampiamente, le rimostranze mosse al direttore. Dispiace dirlo, ma – tanto più se ci si chiama Valery Gergiev – “così” non è una cosa seria.
Lo spettacolo di Barberio Corsetti e collaboratori si trascina fra “ronconismi” (la scenografia, l’arrivo di Duncano che sembra il Viaggio a Reims, magari involontariamente), cerebralismi, bravura di mimi fine a se stessa, costumi confusionari, brutte luci, l’inerzia totale di lavoro sui cantanti protagonisti, che in un contesto pseudo-non convenzionale (in realtà convenzionalissima citazione di mille vezzi e luoghi comuni della contemporanea messa in scena) ripetono convenzionalissimi gesti. Di proiezioni di faccioni, ne abbiamo viste a migliaia, negli ultimi anni: ancora? Il coro in Patria Oppressa, quasi tutto in paletot, o paltò per dirla più semplice: ancora? Condannerei alla fucilazione tutti i registi che mettono in paltò i cantanti. Basta! E’ diventata una stantia convenzione. Ripeto quanto detto a proposito dell’Olandese di Homoki: non tutti “si nasce” Guth, o Carsen, o Jones. Barberio Corsetti non nacque.
Meritatissimi, e ben mirati (giustamente esclusi cantanti e coro, che hanno fatto il possibile e talora anche di più) gli improperi conclusivi a direttore e artefici dell’allestimento. A Valery Gergiev, in particolare, verrebbe da dire che non importa se, alle repliche, quegli istanti di genialità nonostante tutto presenti (sappiamo chi è Gergiev) troveranno miglior esito e contestualizzazione. Si può esser genio quanto si vuole ma, se ad una “prima” (e non è la prima volta, Maestro!) non si arriva pronti, ciò non è corretto nei confronti del pubblico. Non sappiamo, quanto al periodo delle prove, dove stesse la ragione, fra orchestra e 2°direttore, nella “scomparsa” del D’Espinosa (che, a quanto abbiamo visto nei concerti alla Verdi, ha talento ma un gesto, è vero, non proprio “facile”). E ci resta, ripetiamo, un serio dubbio sull’autentico feeling Gergiev-Verdi. Ma un direttore di tal prestigio, carriera e frequentazioni dovrebbe – crediamo – “sentire” il dovere d’esser pari a se stesso (prove, e cura), nel momento in cui assume la responsabilità di un Macbeth in un teatro nel quale il nome di Giuseppe Verdi significa molto. I nemici di Lissner troveranno, in questo Macbeth, nuovi motivi d’accusa. Chi qui scrive, invece, ricorda, a Parigi per un Lohengrin, il mancato arrivo in aereo del Maestro Valery Gergiev annunciato da Gerard Mortier dieci minuti prima dell’inizio dell’opera… Sarà pure un genio (stasera, alla Scala, no!), ma che pazienza, ci vuole!
marco vizzardelli