marco ha scritto:non vorrei aprire una discussione di quelle che non piacciono al boss
Ci mancherebbe, Marco.
Le discussioni sui cantanti sono una parte rilevantissima dei dibattiti fra appassionati d'opera.
E questo fin dal '600.
Credo che anche il boss ne sia consapevole (e infatti non si tira mai indietro in questi casi).
credo che, oggettivamente, non si può negare un magistero tecnico al canto della D. che oggi non si trova appena girato l'angolo
Le mie perplessità (che ti confesso sono grandissime) sulla Devia dipendono proprio dal fatto che le sue prerogative tecniche-vocali-psicologiche sono applicate male.
Ovviamente secondo me.
E' indubbio che la Cucinotta sia una splendida donna e un'attrice più consapevole di quel che sembra, ma se volesse presentarsi come interprete tragica euripidea mi susciterebbe perplessità.
La Devia ha una vocina gradevole, un bell'uso delle mezzevoci, una discreta coloratura, un sopracuto facile.
Il punto è che per il repertorio che si è messa in testa di fare queste cose non bastano: l'ho sentita nei ruoli Colbran (Donna del Lago), nei ruoli Pasta (Beatrice di Tenda), Meric-Lalande (Borgia) e addirittura nei ruoli Ronzi de Begnis (Maria Stuarda).
Sono ruoli semplicemente enormi: i ruoli Colbran e Pasta sono le due facce (opposte) di un neoclassicmo dai riflessi aulici e satanici. I ruoli Ronzi de Begnis, al contrario, sono l'esplosione torbida e selvaggia di un romanticismo malato (cammaraniano e donizettiano), contaminato e morboso, dove nulla è come sembra e la rivolta dal mondo si fa dissociazione.
Quel che mi irrita della Devia non è solo il fatto che non sa rendere conto di tanta complessità, ma non le interessa nemmeno.
Lei sa che il pubblico (italiano) attenderà pazientemente il filatino e il mi bemolle per ripagarla con applausi frenetici.
E tanto basta.
Mi colpì l'ingenuità della Devia quando dichiarò (in occasione di un Tancredi che aveva fatto a Bologna e a Pesaro) che al ROF, per volontà della direzione, si era astenuta dall'aggiungere sopracuti... e il pubblico era rimasto freddo.
Mentre a Bologna si erano spellati le mani dopo ogni mi bemolle.
Lei lo presentava come un'esigenza del pubblico: è inutile! Vuole gli acuti!
Non si è neanche posta il problema che il pubblico si spellava solo di fronte ai mi bemolle, perchè lei non aveva altro da dargli...
Io ricordo gli applausi frenetici alla Amenaide della Cuberli e persino (Iddio mi aiuti) della Ricciarelli, che i sopracuti non li avevano affatto.
Tu citi i barocchismi della Gruberova, e hai ragione ancora una volta.
Ma almeno la Gruberova il problema se l'è posto.
Quando - con il famoso Devereux del 1990 a Barcellona - decise di consacrarsi a questo repertorio, fu subito consapevole che avrebbe dovuto tirare fuori una nuova parte di sè.
Non bastavano più le agilità e i sopracuti; non bastava atteggiarsi a brava belcantista: doveva trovare altro.
Poteva evitare di contorcere la sua voce in effetti strani, spesso sgradevoli, talvolta fuori-stile.
Poteva evitare di imbruttirsi, agitarsi in scena con febbrile e malsana tensione, esplorare sonorità chiocce e stridenti.
Poteva restare il sopranino dalla voce angelica della arie da concerto di Mozart e delle mille zerbinette.
E invece intuì le responsabilità culturali dei ruoli Colbran, Pasta e Ronzi de Begnis, mausolei sontuosi ed inquietanti del primo romanticismo italiano.
Reagì come poté: si rese conto di non poter essere una grande attrice tragica (come la Callas o la Gencer), nè un algido monumento come la Sutherland.
E allora si inventò qualcosa di nuovo, esplorando il lato paranoico e grottesco della sua personalità e facendo della sua fragilità e scarsa femminilità un poderoso strumento emotivo.
Possiamo anche dire che non ci piace, possiamo dire che è fuori-stile, possiamo dire che vocalmente questi ruoli le pesano, e sarà tutto vero.
Ma quando l'ho sentita (a Vienna nel 2001) nel Roberto Devereux ho avuto il brivido di un coinvolgimento grandioso, di intuizioni allucinanti, dove ogni parola, ogni gesto, ogni agilità era funzionale a una frenesia morbosa e scomposta, fino a quella cabaletta finale - sola, al centro del palcoscenico - dove, lanciando il mi bemolle, si toglieva la parrucca e la corona per restare con una misera testa grigia e semi-calva.
Con la Gruberova (non solo in Devereux, ma anche nella Stuarda, nella Semiramide, nella Beatrice, nella Norma) ho avuto la sensazione della mostruosità, della grandezza, della complessità di questi personaggi.
Certo a modo suo... che può piacere o no.
Con la Devia non c'è nemmeno questo. Nemmeno la voglia di interrogarsi su che razza di personaggi si è messa in testa di cantare...
Il fatto, Marco, è che io amo follemente questo repertorio.
E soffro quando lo vedo così malmenato.
Quando portai i Wanderer (mea culpa) a vedere la Stuarda della Devia a Roma, il commento unanime fu: "lei è bravissima... certo che l'opera è una noia mortale!"
Una noia mortale??? Maria Stuarda?
Una delle più angosciose e claustrofobiche tragedie dell'inconscio che il Romanticismo italiano abbia concepito???
E no... amici miei.
E' la Devia che è una noia mortale... non Maria Stuarda.
per me le riserve sono soprattutto vocali per la sagomatura della sua vocalità che rimane quella di un coloratura
E' possibile, anzi sicuramente hai ragione, ma io non muovo alle Devia riserve dal punto di vista vocale.
Anzi, anche nei ruoli più gravi (e quindi meno adatti) ha comunque un controllo vocale ammirevole.
Per me non è questo il problema.
E poi anche la Sills era un soprano acuto, anche la Gruberova.
Eppure c'è un abisso, secondo me.
di lei mi incanta la spontaneità, la naturalezza e la semplicità del suo canto
Di tutto il tuo post questo è l'unico punto che non condivido.
Su tutto il resto ti dò ragione, anche se i giudizi di merito non collimano.
In questo caso però non capisco proprio dove trovi spontaneità e naturalezza.
A me pare inamidata e artefatta anche dal punto di vista vocale: anche nei ruoli di coloratura (che dovrebbero essere più consoni) non c'è un solo suono, un solo accento che mi sembri vero.
E' tutto laccato, prevedibile, artefatto.
Basta una nota della Dessay negli stessi personaggi per essere avvolti da ondate di vita e di spontaneità. Con la Devia ho invece sempre la sensazione di essere a una lezione di canto.
Quando l'ho sentita le prime volte (ormai negli anni '80, la ricordo nei Puritani a Bologna) mi pareva una studentessa, di quelle tanto bravine, che studiano molto e sono sempre le prime della classe.
Ora mi pare una maestrina...
Se andassi in una tenzone musicale come si facevano ai tempi dei trovatori, mi spellerei le mani di fronte al vocalismo della Devia, specie considerando la longevità; però se vado a teatro per provare i fremiti di orrore che la musica di Donizetti e i versi di Cammarano comunicano, per respirare l'odore di chiuso e di stantio delle loro prigioni, per rabbrividire di fronte alla paura della morte e agli abissi dell'anima... allora la Devia mi pare semplicemente una iattura, una calamità da cui fuggire a gambe tese!
E' evidente che, alla faccia del boss, sto parlando di mie sensazioni e non di dati di fatto oggettivi.
Un salutone,
Matteo