Riccardo ha scritto:Secondo quanto affermi tu, un musicologo potrebbe a pieno titolo appena appena occuparsi di certa musica rinascimentale e forse di certa musica contemporanea le quali trovano le loro ragioni compositive e di tradizione quasi esclusivamente in una dimensione testuale; mentre un esperto di arti performative dovrebbe studiare tutto il resto,
No, attenzione Ric.
Una partitura di Rossini, una tragedia di Eschilo sono sempre letteratura, anche se nate in funzione o al servizio di eventuali esecuzioni.
Ed è in quanto tali (ossia in quanto testo letterari) che necessitano di essere comunque studiate e decifrate da studiosi di lettere (in questi casi grecisti e musicologi).
Quindi non farmi dire che il musicologo dovrebbe occuparsi solo di quella musica (rinascimentale o contemporanea) la cui scrittura non è stata pensata per l'esecuzione, perché non è così.
Il musicologo deve occuparsi di tutto ciò che è scrittura musicale, perché la scrittura musicale (funzionale o no a un'esecuzione musicale) è sempre e comunque una forma d'arte e una forma di comunicazione meritevole di studio.
Resta il fatto che se voglio, nel mio giornale, che i lettori capiscano qualcosa del nuovo allestimento a Londra delle Coefore nell'allestimento di Jones, non chiamerò un esimio grecista.
E, se ho sale in zucca, non chiamerò nemmeno un musicologo se voglio che i miei lettori capiscano qualcosa del nuovo allestimento a Aix di Elektra diretto da Salonen e con la regia di Chereau.
(un esperto di arti performative) privo di cognizioni testuali non avrebbe accesso completo alla materia (capire e argomentare il perché la Meier canti bene Ortrud e male Leonore senza poter leggere i testi delle opere è dura - non parliamo del caso in cui si debba fare una previsione).
Ecco siamo arrivati al punto cardine del nostro disaccordo!
Finalmente hai posto il problema nero su bianco.
Infatti siamo concordi nella necessità di competenze specifiche per l'esperto di performing arts.
Solo che tu affermi che esse DEBBANO fiorire su competenze musicologiche (che anche tu dunque, e non solo io, colleghi alla decifrazione dello spartito).
Io invece affermo che non è affatto così.
E se vuoi te ne do' la più semplice delle prove.
Prendi te stesso: immaginati seduto a un concerto.
Ti si presenta un tenore (immaginatelo disastroso) in un brano sconosciutissimo del primo '800, di cui non hai mai letto lo spartito.
Pensi di non essere in grado di giudicare la sua performance?
Secondo me, lo sei eccome. Secondo me scuoti la testa e borbotti... proprio come farebbe qualunque esperto di canto anche se non ha mai aperto uno spartito in vita sua.
Non credo che diresti: "fermi tutti! Sospendiamo il giudizio finché non ho letto lo spartito! Solo allora potremo esprimere un giudizio!"
Il "cantare male" del povero tenore potrà infatti essere da te valutato SOLO ED ESCLUSIVAMENTE in base a quell'insieme di convenzioni SONORE che i fruitori associano al canto lirico e alle sue numerose declinazioni.
Lo spartito non c'entra nulla e non ti aiuterà affatto in questo tipo di indagine.
Leggendo lo spartito potrai unicamente stabilire una minore o maggiore "fedeltà" (in termini di durata o di intervalli), ma anche in questo caso la minore o maggiore fedeltà nella "transcodificazione" che l'esecutore opera dal linguaggio scritto a quello sonoro sono basate su convenzioni che variano nel tempo, affidate alla pratica esecutiva e per le quali lo spartito non ti aiuterà assolutamente.
Un effetto di Blake magari non sarebbe stato giudicato fedele o appropriato ai tempi di Rossini. Negli anni '90 lo era.
E anche per questi aspetti la lettura dello spartito non serve a nulla.
Ne è prova proprio l'esempio di Waltraut Meier in Fidelio.
Tu affermi che, senza la lettura dello spartito, non è possibile valutare il livello di appropriatezza a Beethoven.
E sbagli! Perché non c'è nulla nella partitura di Beethoven che ti possa indicare se un certo sol della Meier è più "appropriato" (per il pubblico di oggi) di quello di una Jurinac. Anche questo aspetto dipende dalle convenzioni di ascolto.
Infatti ti potrei presentare centinaia di frequentatori d'opera NON MUSICOLOGI che potrebbero affermare la non appropriatezza dei suoi suoni al Fidelio anche senza aver mai letto uno spartito.
Mentre faticherei (e faticheresti anche tu) a trovare una manciata di musicologi in grado di distinguere un suono della Meier da uno della Jurinac e di spiegare perché il primo (secondo le attuali convenzioni) può essere giudicato meno appropriato del secondo.
In tutti i casi persino la minore o maggiore fedeltà allo spartito non è un criterio di valutazione canora.
Sono d'accordo (visto che le nostre convenzioni oggi lo richiedono) che è meglio un cantante fedele di uno infedele.
Ma se quello fedele canta male (secondo le convenzioni del Canto e non della musica scritta) la sua fedeltà non lo salverà.
Il Casta Diva della Callas, in fa, è comunque migliore di quello della Aliberti in sol.
E per comprendere la superiorità del primo sul secondo lo spartito non serve assolutamente a niente.
Idem per la recitazione.
Per capire se Salvo Randone è più bravo di Cochi Ponzoni in uno stesso monologo di Shakespeare, non ti serve leggere, analizzare, decifrare (letterariamente) quel monologo.
Il pubblico lo coglie in base alle convenzioni proprie della Recitazione, del Teatro.
Ho già raccontato di quel corso in quattro serate che tenni anni fa sul colorismo della Callas.
Alla prima lezione, per un'ora di fila, ho semplicemente fatto sentire un brano cantato da lei ("In questa Reggia" del 54).
Nessuno spartito è stato tirato fuori, perché non ci sarebbe servito affatto.
Abbiamo dissezionato l'esecuzione della Callas, tornando indietro mille volte nella registrazione e ragionando insieme su ogni sfumatura cromatica, su ogni sottolineatura di consonanti, distinguendo i suoni coperti e quelli aperti, i suoni forti e quelli piano, misurando la pulsazione ritmica dell'esecuzione e mettendo in evidenza ogni indugio, ogni allargamento e ogni licenza rispetto a quella pulsazione (e anche la percezione del ritmo non è affatto legata alla lettura dello spartito: chiunque sappia ballare percepisce il ritmo senza aver mai letto uno spartito).
E' stata una super-analisi eppure non solo lo spartito di Turandot non è mai stato tirato fuori, ma soprattutto non sarebbe servito a nulla.
Certo... se invece dell'arte della Callas avessimo dovuto parlare dell'arte compositiva di Puccini, allora lo spartito sarebbe stato necessario e un'indagine di tipo musicologico sarebbe stata necessaria.
Nessuno nega l'importanza della musicologia nella decifrazione della musica scritta.
Ma qui si parla di Musica reale (arte dei suoni) che si rivolge solo agli ascoltatori e non ai lettori.
E quindi si torna alla questione sacrosanta posta da Mattioli.
Com'è che i maggiori contributi critici alla ricerca sull'interpretazione operistica siano sempre venuti da persone che hanno un'enorme pratica di ascolto diretto e mai da musicologi?
In conclusione Ric.
Lo studio delle performing arts (fra cui la Musica e il Canto, ma anche la Danza, il Teatro e, perché no?, una partita di calcio) non richiedono affatto come condizione per una analisi la conoscenza del pre- o post-testo letterario ad esse eventualmente associato.
Questo perché si tratta di codici completamente diversi.
E anche quando un esecutore interpreta una partitura scritta (o un dramma scritto, nel caso dell'attore) opera un processo di transcodificazione che sostituisce i segni precedenti (scritti) con altri, totalmente nuovi, totalmente diversi.
Il critico di questi nuovi segni dovrà conoscere e giudicare le peculiarità di quei nuovi segni, punto e basta.
Poi se, per caso, conosce anche i codici di partenza meglio.
Può essere utile, ma non è affatto necessario.
Così come può essere utile che un musicologo sappia fare lavoretti idraulici in casa.
Eppure, quando ho bisogno di un idraulico, non mi interessa che abbia una laurea in musicologia (probabilmente ottenuta senza aver mai sentito una nota di Wagner)
Salutoni,
Mat