Cari Ric e Vit,
premetto che non ho visto dal vivo questo Lohengrin e nemmeno lo vedrò: il 27, quando i Wanderer entreranno, io me ne andrò a cena.
E' stata una rinuncia faticosa, ma voi capite... ho già visto Kaufmann due volte in quest'opera (diciamo una e mezzo: a Monaco e a Bayreuth). La Herlitzius l'ho già sentita dal vivo mille volte, anche in Ortrud (sempre a Bayreuth); ho già sentito dal vivo in Elsa sia la Dash, sia la Harteros.
Ok, restano Guth e Baremboim, ma devo dire che il secondo lo sento in Wagner da almeno 10 anni (e quando dieci anni fa dicevo che era vecchio e maestoso... tutti mi irridevano: ora sono tutti d'accordo)
e Guth non mi ha esaltato...
Ho visto lo spettacolo integralmente (nella registrazione) solo da pochi giorni.
Nel frattempo mi sono divertito moltissimo a leggere le centinaia di recensioni e di commenti che girano sul web, su blog, siti che si vogliono "giornalistici", siti di testate reali, fora, ecc...
Mi sono persino divertito sul fatto che, per la smania di dire la propria, tutti si siano scoperti esperti di Guth, di regia "moderna", di "psicanalisi" (che per una volta non c'entrava nulla), ecc...
E poi c'è chi crede che il "marketing" nell'opera non funzioni!
Basta un po' di polverone mediatico e la corsa a farsi sentire nei bailamme generale diventa ossessiva.
Se però si fa una ricerca sulla trilogia "dapontiana" di Guth a Salisburgo, sull'Ariadne auf Naxos o sul Messiah, sull'Ariane et Barbebleu, sull'Iphigenie, o sul Tristano a Zurigo, sul Parsifal e sul Tannhauser (spettacoli tutti molto più pregnanti e rivelatori del suo talento) ecco che i vari "opinionisti" e "tuttologi" del Web italiano... calano miseramente.
Per certuni di questi titoli... restiamo solo noi!
Idem per gli altri interpreti: non dico un Kaufmann o un Baremboim (che la Scala ha reso molto "popolari" anche in Italia), ma persino una Herlitzius, un Pape, una Dash!!!, sono trasformati dal circo del 7 dicembre in ...vicini di casa! Artisti su cui ognuno dice la sua, come se non avesse fatto altro che ascoltarli...
A me tutto questo fa piacere! E' la dimostrazione (anche se un po' patetica nelle sue esternazioni) di come sia possibile, con la pubblicistica, agire sull'interesse della gente e rendere l'opera - o per lo meno certi spettacoli - un fenomeno "nazional-popolare".
Personalmente devo dire che Claus Guht, come per la Donna senz'ombra dello scorso anno, mi ha lasciato un po' perplesso.
Non che sia un brutto spettacolo, questo Lohengrin, (come non lo era la Frau), ma certo... quando anni fa auspicammo un suo arrivo in grande stile alla Scala - anticipando esattamente le scelte di Lissner in un momento in cui praticamente nessuno in Italia sapeva chi fosse - non si aspettavamo che il nostro pubblico lo ...intimidisse al punto da fargli perdere le sue migliori prerogative.
Come già scrissi al tempo della Frau, Guth è forse l'unico regista tedesco che oggi sappia imprimere all'immagine teatrale il dinamismo vorticoso del "montaggio" contemporaneo. Il suo Don Giovanni, come il suo Messiah, "impattavano" in modo poderoso, con la spregiudicatezza (ad esempio) dell'uso degli spazi, continuamente cangianti, che davano la sensazione di una sequenza filmica.
Maugham ci ha raccontato del suo Tristano dai mille spazi, che si inframettevano fra loro in un gioco di specchi di narrazione e coscienza degni dell'ultimo Scorsese.
Le ricontestualizzazioni (altro punto forte di Guth) richiamavano la contemporeaneità, con tagli e proiezioni di immediata riconoscibilità, spesso sconcertanti (i ragazzi del Don Giovanni che saltabeccano, si spogliano, si fanno le pere... Elvira che aspetta l'autobus di notte... i protagonisti del Messiah durante un funerale, che corrono tra una toilette e un rinfresco dell'hotel) ma di formidabile presa sull'immaginario dello spettatore attuale.
Non so quali preoccupazioni, quali timidezze possono aver spinto un Guth a rinunciare a tutto questo, e a rifugiarsi - in Italia - per ben due volte in una regia improntata a staticità-maestosità e gravità di simboli che ci riporta un po' indietro... verso un modo di fare regia "alla tedesca" ma allo stesso tempo edulcorata e semplificata...
Ok, l'idea era bella, bellissima.
Un allargamento a vastissime dimensioni del tema del "senza nome".
Maugham mi ha fatto notare che nel programma di sala Guth fa menzione di Kaspar Hauser, una figura "mitologica" della storia germanica, un uomo (reale, ma senza identità) che appare a Norimberga, privo di un passato, privo di conoscenze, privo di memoria.
Cresciuto in una cella, senza contatti con altri esseri umani, senza la possibilità di parlare, di leggere, di interloquire con anima viva, costui si è ritrovato sbalzato in un mondo di cui non conosceva nulla (nemmeno la tridimensionalità: l'unico panorama da lui visto era dalla finestra della sua cella). Praticamente un guscio senza nulla dentro... a cui la collettività ha cercato di dare una forma, perché gli uomini non sono in grado di immaginare altri uomini senza "ipotizzare" un senso dietro di loro (un'idea, una visione, un cumulo di memorie).
L'uomo "nudo" viene così "vestito" da tutti quelli con cui entra in contatto, che in esso applicano le "proprie" categorie.
Applicare gli elementi di questo "mito" (la carcassa umana senza contenuto) a "Lohengrin" (l'eroe senza nome) è un'idea bellissima.
Non sono d'accordo, quindi, con Pietro, secondo cui Lohengrin sarebbe una proiezione di Elsa.
Meno ancora con quelli che affermano che in realtà Lohengrin - nella regia di Guth - è Gottfried.
é entrambe le cose ma è anche altro!
E' tutto! E' l'essere senza identità che l'interlocutore riveste dei propri sogni, delle proprie paure, dei propri rimorsi.
Quando gli si conferisce un'identità, questo Kasper Hauser "nasce" (da una posizione fetale, con fremiti e scatti corporei, che molti hanno confuso con epilessia... mentre volevano evocare la fatica di diventare reali).
Per Elsa è il fratello salvatore, il fratellino annegato mentre giocava con lei nel lago, l'oggetto di un trauma che l'ha condannata a un'eterna infanzia.
Lei lo riveste di questa identità ma Guth ci fa capire benissimo che così non è: Lohengrin non è Gottfried.
Alla fine del primo atto, Lohengrin è seduto al tavolo del potere, Elsa è seduta al suo fianco, e nella parte opposta si accomoda...il fantasma (mezzo ragazzo-mezzo cigno) del fratello morto.
Elsa si alza e lo fissa atterrita: in fondo in fondo, ha capito. Lo sa anche lei che questo "Kasper Hauser" venuto a salvarla, non è il fratello (il cui spettro continua a ossessionarla).
E' qualcuno senza identità a cui lei ha imposto quella che le faceva più comodo.
Anche per Telramund e Ortrud quel nuovo venuto ha un significato... ma un significato ben diverso.
Loro non vedono in lui (come Elsa) il bambino redivivo... perché - a differenza sua - loro sanno fin troppo bene che Gottfried non potrà più tornare.
E lo sanno perché (nella regia di Guth) è evidente che furono loro a ucciderlo.
Per loro quel "senza nome" è piuttosto l'immagine del giudizio divino, l'incarnazione della punizione, la personificazione del loro rimorso (e questo spiega perchè, nel secondo atto, Lohengrin torna a "nascere" per loro, come era "nato" nell'atto precedente, spettro delle loro angosce).
Ma anche il popolo (in mezzo al quale Lohengrin nasce, e non da una proiezione di Elsa) riveste il suo "Kasper Hauser" dell'identità che preferisce: garante di giustizia, messaggero ultraterreno, pacificatore, "leader" politico.
Il re, alla ricerca di un guerriero, lo vestirà a sua volta di medaglie e altri propri simboli.
E Lohengrin in tutto questo?
Lui non è nessuno; o meglio non è nessuno finché qualcuno non gli conferisce un'identità fittizia, non lo ricopre delle vesti di un'identità altrui. Allora... solo allora Kasper Hauser può esserci.
L'importante è non interrogarsi mai... Non cercare di andare a fondo... Limitarsi all'apparenza.
Perché con la verità, con la resurrezione degli antichi fantasmi (che rivendicano la loro esistenza come il fratellino al finale), Lohengrin è condannato a tornare nel suo "non essere".
Come mi ha fatto notare Irina al telefono (la kaufmaniana doc di Operadisc) l'idea si dilatava all'inverosimile proprio grazie al fatto che Kaufmann ne era il protagonista: ossia il "divo" più inequivocabilmente "divo" del nostro tempo.
Se c'è un emblema umano di questo "rivestimento operato dagli altri", di questo Zelig dell'entertainment culturale, è proprio il rapporto fra il pubblico e la "star", a cui quasi rifiutiamo un'umanità propria, perché la sua immagine conta di più.
Con un altro tenore (non importa se più bravo o meno bravo, ma meno "star") il gioco non sarebbe riuscito altrettanto bene.
L'idea, come dicevo, è bellissima. E la psicanalisi (spettro evocato dai tanti "parolai" del Web) non c'entrava nulla.
Ma in pratica è stata resa con strumenti nei quali non riconosco Claus Guth.
Il gioco di spazi sovrapposti e sincronici si congelava in strutture buie e in simbolismi vecchi. La recitazione (pensate cos'era Schrott nel Don Giovanni o la Netrebko nelle Nozze) ritornava a una gestualità conformista e melodrammatica.
Il tutto lento, pesante, professorale, orrendamente tedesco...
Mi spiace per Guth... ma non è per le sue idee (anche se bellissime, come in questo caso) che lo abbiamo amato.
Ma per la forza moderna e gioiosa del suo teatro.
Sul cast, condivido tutto quello che avete scritto (anche se a me, mi spiace Vit, Pape è piaciuto moltissimo).
Salutoni,
Mat