Era tempo, in particolare dopo il Comte Ory a Zurigo (che per me è stata una rivelazione), che volevo proporvi una mia personale riflessione sul caso di Cecilia Bartoli.
Me ne sono astenuto finora, perché atterrito dall'idea che avrei scritto un romanzo... e purtroppo così è stato.
Me ne scuso in partenza con chi avrà la voglia di leggere.
Partirei con una considerazione.
Quali sono le caratteristiche di colui che riteniamo essere un "grande interprete".
Di solito tendiamo a rispondere anzitutto la capacità di scavo (quindi la "
profondità").
L'interprete "profondo" è come un palombaro che oltrepassi la superficie del mare per svelarci gli abissi nascosti in un personaggio, che, da soli, non saremmo stati in grado di vedere. Una Callas insomma... Una Moedl.
Il contrario di un grande interprete sarebbe quindi l'artista "superficiale", che resta a pelo dell'acqua.
Proprio per questa sua capacità di andare "sotto" e "oltre", un'altra delle caratteristiche del "grande interprete" sarebbe l'
azioneAttore, in realtà, vuol dire colui che agisce.
Egli è colui che "muove" continuamente ciò che interpreta, in una corsa narrativa, ok, ma anche psicologica, nella quale il pubblico è trascinato.
Ecco perché di solito il cattivo interprete viene qualificato, oltre che come superficiale, anche come "statico" (l'immagine che ci viene in mente è quella del tenore piantato in mezzo al palcoscenico con la mano sul cuore).
Forse però non è sempre vero che gli obbiettivi di un interprete debbano essere - in tutti i casi - la profondità e il dinamismo.
E' possibile secondo voi che ci voglia arte (e magari tantissima arte) anche per essere "superficiali e statici"?
Se ci pensiamo un po', la risposta è sì.
Non è detto infatti che le profondità degli abissi siano sempre meglio (più belle, più interessanti) della superficie del mare.
Ci sono casi in cui i fondali sono bassi e sabbiosi, tanto che la vista di una mare dall'alto risulta molto più emozionante.
Ci sono casi di forme d'arte che si sostanziano proprio nel linguaggio, nella loro dimensione più esteriore.
E in questo caso ci vuole un interprete specializzato nell'esteriorità!
Le opere di Vivaldi ne sono un esempio.
E poi chi l'ha detto che rappresentare la superficie, l'esteriorità sia facile?
Non lo è.
Intanto perché non è mai facile "rappresentare" niente (non esiste una forma d'arte che sia facile).
E poi perché la rappresentazione della superficie ha regole e priorità tutte sue... che bisogna conoscere.
Uno può essere un interprete profondissimo, ma poi non essere in grado (se glielo chiediamo) di darci una splendida rappresentazione della superficie.
Noi amiamo la Moedl (ad esempio) perché - da "profondissima" interprete quale era - ci faceva cogliere gli abissi che si celavano dietro a tanti personaggi. Ma proviamo a immaginarla in personaggi meno "abissali"; forse più elementari (e non di meno sublimi).
Proviamo a sentirla nei Lieder di Brahms o in quelli di Wolff. Non è che forse - in questi autori - le preferiremo altri interpreti?
Anche la "superficie" non è facile da gestire ...artisticamente.
Richiede un estremo controllo sul "linguaggio".
E come diceva Alberich, ci vuole lo stesso genio per rendere arte una natura morta o un grande soggetto storico.
E ci vuol niente per rendere brutti entrambi.
Idem per il dinamismo.
Come non dobbiamo pensare che "superficiale" sia solo l'interprete che "non riesce a essere profondo", così "statico" non è solo l'interprete che "non riesce a essere dinamico".
La stasi, l'assenza di azione, il congelamento del tempo è un risultato altissimo da raggiungere per qualsiasi artista: non meno faticoso e complesso della corsa disperata degli interpreti "dinamici".
Dato che non tutti possono fare tutto, per me è già un grande risultato che un interprete sappia essere o solo "statico" o solo "dinamico".
Oppure che sappia esaltarsi solo nelle rappresentazioni delle superfici o solo nella rappresentazione delle profondità.
Tutt'al più dovrà essere così accorto da non lasciarsi tentare da personaggi "dinamici" (se non lui non lo è) o "profondi" (idem).
La Bartoli è una grande interprete. La sua è una personalità artistica enorme.
Io poi la trovo di un'intelligenza fuori dal comune.
Amo la sua curiosità insaziabile, la sua incredibile capacità di persuasione, il carisma che sprigiona, l'entusiasmo della ricerca che instancabilmente esercita sulla storia della musica e su se stessa, sulle possibilità della voce, sui confini dell'espressione canore.
Detto questo però NON E' E NON SARA' MAI un'interprete profonda, nè un'interprete dinamica.
Lì credo che non c'entri l'intelligenza che uno ha.
E tantomeno l'impegno che uno può metterci.
E' una forma, un'articolazione del proprio pensiero... che c'è o non c'è.
La sua superficialità interpretativa è evidente qualsiasi cosa canti. Che sia un grande ruolo barocco, che sia un'arietta da concerto, sempre alla superficie resta.
E ci mette tutto l'impegno poverina: anche in scena cerca la collaborazione con registi forti, si impegna moltissimo.
Mette a frutto un'espressività estrema; ogni anno affina l'esperienza; sovraccarica l'espressione, ma non c'è niente da fare: negli abissi di un personaggio non saprà mai scendere. L'individuazione della ragioni "profonde", invisibili, che muovono Cleopatra, come Semele, come Fiordiligi, come Amina le sono precluse. Potrà comprendere come nessun altra la ...buccia dei frutti che addenta, ma al nocciolo non ci arriva.
Deve essersene accorta lei stessa (abbiamo detto che è una donna di grandissima intelligenza).
E questo spiega (in parte) la stranezza del suo repertorio, la cura maniacale con cui seleziona i suoi pochi personaggi operistici, cercando di tenersi il più possibile distante da quelli in cui ...troppi e troppo grandi sono gli esempi di "interpretazioni più profonde" di quanto lei non potrebbe mai fare.
In compenso si è concentrata sul Barocco, avvedendosi che in questo repertorio la "superficie" è parte notevole della sostanza artistica, assai più che nell'opera romantica o novecentesca.
Ed è per la stessa ragione che ha sempre preferito il concertismo al teatro.
O il CD monografico all’incisione di un'opera intera!
Ora però io mi chiedo: il suo caso è solo quello di una che non può essere "profonda" o è anche quello di una favolosa, fuori dal comune pittrice delle superfici?
Mi pare che la seconda ipotesi sia quella giusta.
Il mondo intero (che la adora) le ha riconosciuto questa capacità... di comprendere ed esaltare l'involucro delle cose come nessun'altra, facendone forme di arte spesso elevatissima.
Non è un caso che lei (che, ripeto, è donna intelligentissima) ha messo al centro della sua arte proprio quell'aspetto che è il principale di ogni "superficie", ossia il LINGUAGGIO.
Quello che la Bartoli ha fatto per il "linguaggio canoro" del nostro tempo è incalcolabile.
Col tempo potremo misurare che razza di contributo epocale ella abbia rappresentato: già adesso possiamo misurare in generazioni intere le cantanti che lo sono debitrici!
Nessuna come lei ha esplorato, scandagliato, sviluppato le possibilità del vocalismo classico e del colorismo moderno, fondendoli insieme ed inventando suoni, sperimentando effetti, portando il virtuosismo e l'espressività vocale a livelli inauditi.
E' stata lei a dimostrare che vocalismo all'italiana e colorismo sono compatibili: che si può spogliare la propria voce di armonici, sviluppare i più complessi vocabolari di aperture e cromatismi pur mantenendo agilità ed estensione mirabolanti.
A Bagnoli lo assicuro in prima persona (avendo sentito spesso la Bartoli dal vivo): non uno degli effetti Bartoli va perso.
Non c'è un'alchimia coloristica che non arrivi.
Poi, è chiaro, dipenderà anche dal tipo di teatro e di acustica, o dal tipo di supporto orchestrale (e questo vale per tutti i coloristi: anche la Von Otter in certe occasioni si sente poco).
Molti soffrono (e giustamente) della sperequazione fra incredibili possibilità espressive della Bartoli (tipiche di una geniale pittrice di superfici) e e pochezza di ...concetti effettivamente espressi (tipico dell'interprete che in profondità non riesce ad andare).
Per ovviare a questo problema occorrerebbe evitare che la Bartoli si cimentasse con autori per i quali noi ...non ci accontentiamo della superfice, ...ma sentiamo la mancanza degli abissi.
Così è Steffani... non solo perché lo accostiamo a Monteverdi e Cavalli (che amiamo più per la loro profondità che per l'involucro), ma anche per tutto l'impegno incautamente profuso da lei stessa a presentarlo come un compositore più profondo e inquietante dell'apparenza.
Con Vivaldi questo problema non si poneva.
Se potessimo ascoltare la Bartoli solo in autori dove non ci aspettiamo ...calate negli abissi, potremmo esaltarci di ciò che solo lei può dare: rappresentazioni semplicemente sublimi delle superfici.
Idem per quanto riguarda l'aspetto del dinamismo interpretativo.
Qualcuno potrebbe obbiettare che una Bartoli può essere definitiva in tutti i modi, tranne "statica".
Una che si agita come lei, che alle volte in scena sembra una pazza, che esaspera tutto, che sottolinea tutto, che accumula smorfie ed effetti di tutti i tipi, che vorrebbe esprimere sempre troppo... magari fosse un po' più statica!
Dobbiamo intenderci su cosa intendiamo per staticità espressiva.
In realtà l'esagitazione della Bartoli (talvolta caricaturale) è una conseguenza delle sue scarse o nulle capacità di dinamismo teatrale (interpretativo, cioé psicologico e poetico).
Nè i suoi personaggi, nè i suoi concerti (e in questo senso nemmeno la sua carriera) presentano evoluzione.
Semplicemente perché non ne è capace.
L'ossessione della contrapposizione, del contrasto estremizzato, della frammentazione isterica, non è altro che la più prevedibile delle reazioni dell'interprete che non sa e non può evocare un vero movimento, una vera evoluzione.
Avvedendosi lei stessa del proprio limite tenta di porvi rimedio moltiplicando gli effetti al fine di simulare il dinamismo, come se l'accumulo e la stratificazione degli effetti potessero sopperire alla mancanza di movimento.
Ma anche in questo caso... siamo sicuri che questa mancanza di "movimento" espressivo, questa "staticità" sia sempre e comunque un difetto?
Si, lo è... quando - come nei casi suddetti - la Bartoli finge di ignorare questo suo limite e cerca di supplire in qualche modo alla sua mancanza di dinamica interpretativa.
Quando invece la "stasi" (la mancanza di azione) diventa un obbiettivo da perseguire, un progetto ARTISTICO, allora la Bartoli è grandiosa.
Chiunque abbia visto anche solo un suo concerto dal vivo sa cosa intendo.
Ma anche molti dei suoi CD (in particolare quello di Gluck e quello di Vivaldi) ne danno ampiamente conto.
Pochissime cantanti al mondo sono in grado di bloccare letteralmente il tempo come lei.
In bocca a lei, un'aria barocca di venti minuti (non necessariamente virtuosa) è capace di sospendere l'ascoltatore in una dimensione irreale; l'uditorio si ammutolisce, pendendo dalle sue labbra; lo scorrere del tempo si relativizza, è come se intorno si pietrificasse.
Ci si perde, letteralmente, nel suo canto.
Nulla succede e nulla potrebbe succedere, perché a quel punto la "stasi", la più totale immobilità è diventata arte.
Non conosco molti interpreti (anche profondissimi e dinamicissimi) che potrebbero ottenere un risultato simile.
Ecco che "esasperazione della superficie" e "staticità" possono diventare non più solo oggetto di critica (come è giusto in molti casi), ma le ragioni stesse che fanno della Bartoli una delle maggiori "interpreti" di tutti i tempi.
Basta solo trovare personaggi e contesti musicali che si nutrano di queste caratteristiche.
In questo senso, il Comte Ory a Zurigo mi ha rivelato tante cose.
Lei fu meravigliosa (teatralmente e poeticamente!).
Mai l'avevo sentita così perfetta come nel ruolo della Comtesse de Formoutiers.
Mi sono chiesto come mai...
In fondo non ha fatto cose diverse dal solito.
Era sempre lei, con i suoi virtuosismi strepitosi e "a caffettiera", la gestualità eccessiva, il suo aspetto (come ho scritto in sede di recensione) "un po’ casalingo e un po’ gran Diva".
Allora cosa mi spiegate questo risultato fantastico, rivelatorio, che ha cancellato dalla mia memoria tutte le sue Cleopatre, Semele e Donne Elvire.
Evidentemente l'unica spiegazione sta nella natura e nella funzione di quel preciso personaggio (un ruolo Cinti Damoureau), che poteva sviluppare sinergie rivelatore con le caratteristiche della Bartoli.
Io sono anni che rifletto sulla drammaturgia di Scribe e sulle caratteristiche del Grand Opéra.
Putroppo però non ero mai arrivato a capire il senso dei ruoli scritti per la Cinti-Damoureau: Mathilde del Guglielmo Tell, Elvira della Muta di Portici, Isabelle del Robert le Diable, e gli altri diecimila da lei creati.
Non capivo come fosse possibile che le cronache parlassero di una "forte personalità" eppure che i ruoli creati da lei fossero tutti così... amorfi, convenzionali, tutti fatti con lo stampino: brave e virtuose aristocratiche innamorate?
Eppure Scribe era uno che, in termini di psicologie profondissime, ci andava giù pesante...
Come mai queste eroine (che spesso compaiono nel secondo atto o alla fine del primo) sono così inerti e inamidate?
E dire che, da almeno un secolo, tutta la drammaturgia francese si fondava più sulle donne che sugli uomini...
Anche senza risalire a Gluck e Rameau, pensiamo ai personaggi Scio per Cherubini al Theatre Feydeau!
O ai personaggi Branchu di Spontini...
Le donne sono sempre state le assolute protagoniste dell'opera in Francia.
E allora com'è che proprio quel genio di Scribe riserva loro trattamenti tanto psicologicamente statici?
Ho persino pensato che la Cinti fosse semplicemente una produttrice di belle notine, senza alcuna personalità, è che Scribe (costretto a sistemarla nei Grand Opéra, in quanto primadonna dell''Academie) le riservasse uno spazio secondario, quasi da orpello coreografico.
Eppure la tesi non mi convinceva.
Intanto perché Scribe ha spesso dichiarato la sua folle ammirazione per la Cinti.
E poi perché ho troppo stima di lui (e per il pubblico francese) per pensare che personaggi tanto inerti potesse trovare spazio in una forma drammaturgica tanto meditata e perfetta come il Grand Opéra.
E infine, ripeto, perché le cronache parlano della Cinti come di una personalità scenica fortissima...
Bene.
Vedere entrare la Bartoli nel Comte Ory a Zurigo è stato sufficiente a chiarirmi tutto.
Come in molti Grand-Opéra, il personaggio Cinti entra molto tardi: praticamente alla fine del primo atto.
Fino a quel punto il pubblico aveva subito le giravolte più pazze, estreme, estravaganti del protagonista: Ory.
La tensione si era accumulata all'inverosimile: il dinamismo estremo (psicologico, morale, narrativo) incarnato dal tenore stava giusto cominciando a stancare.
Il pubblico cominciava a sentire il peso dell'opera e forse qualcuno sperava in una pausa.
A quel punto... tutto si è fermato.
Il suono di un clacson, una vecchia Dyane entra in scena; la Bartoli (occhiali scuri e fazzoletto in testa) scende dall'auto.
E' come un macigno che piomba sull'opera e ne blocca completamente la corsa.
Il pubblico, stremato dal tenore, si riprende, risveglia tutta l'attenzione, pende letteralmente dalla Diva che come un buco nero ne calamita ogni resistenza.
Non è solo per il volteggiare dei virtuosismi e lo smisurato carisma che la Bartoli, come la Cinti, può raccogliere su di sè, bloccandola, tutta la tensione della narrazione, rigenerando il pubblico.
Tutto ciò avviene per la specifica capacità della cantante di rappresentare l'anti-azione teatrale e musicale.
E' a quel punto che ho finalmente capito cosa sono i ruoli Cinti e che senso hanno nel Grand-Opéra di Scribe
Il Grand-Opéra è un meccanismo enorme.
Le sue proporzioni immense richiedono, paradossalmente, molto più equilibrio architettonico di un'opera di più modeste dimensioni.
E' più facile che crolli una cattedrale (se non costruita su contrappesi perfetti) che non una casetta,
Questo Scribe lo sa perfettamente.
Ora, al centro delle sue opere c'è un fortissimo elemento dinamico, ossia il ruolo scritto per Adolphe Nourrit: il tenore.
I personaggi immaginati per lui (Masaniello, Robert di Normandia, Arnold, Raoul, Helazar, ovviamente il Comte Ory) sono i motori delle rispettive opere: e non solo perché agiscono, prorompo, non si fermano mai, ma anche per la loro instabilità psicologica, emotiva e morale.
Rappresentano il movimento non solo della narrazione, ma anche della lacerazione propria nelle nuove poetiche del Romanticismo: essi infatti sono sempre costantemente in bilico fra bene e male, fra giusto e sbagliato, fra dovere e volontà.
E' evidente che il tenore-Nourrit non potrebbe da solo sostenere il peso di un edificio enorme come il Grand-Opéra....
Un'opera di più ridotte dimensioni può anche gravare su un solo personaggio (pensate ai ruoli Ronzi de Begnis con Cammarano).
Ma non un Grand-Opéra. Troppo grande...
Tutta la struttura finirebbe per schiantarsi sotto la corsa del protagonista ipercinetico.
C'è bisogno di un bilanciamento: una forza centripeta che equilibri la devastante pressione centrifuga dei ruoli Nourrit.
Ed ecco il personaggio di Laura Cinti Damoureau.
Guai se l'interprete fosse "dinamica" a sua volta: la violenza del tenore si moltiplicherebbe in lei.
Se chiamiamo una Callas nel Guillaume Tell facciamo franare tutto.
Guai se l'interprete fosse "profonda". L'oasi di conformità morale ed etica che questi personaggi incarnano deve proprio competere con gli abissi di orrore e di paura in cui il tenore annaspa (e ci fa annaspare).
La sua funzione "Cinti" è tutt'altra: è e deve essere come un magnete gigantesco che attrae il pubblico (stremato all'inseguimento del tenore), blocca la corsa degli eventi, inchioda la narrazione a un punto fermo, raffreddo il clima surriscaldato in monumenti etici antichi, aristocratici e secolari.
Insomma, la Cinti è l'anti-Nourrit.
Se Nourrit è la spinta dinamica, la Cinti è l'ancoraggio statico e l'interprete deve essere non meno grande di lui, non meno forte e non meno espressiva; anche se la sua espressività, la sua grandezza dovrà essere di segno opposto.
Dovrà avere la forza titanica di afferrare un treno in corsa e di bloccarlo col proprio micidiale carisma.
Appena entra in scena, è come se la telecamera lasciasse le profondità degli abissi e salisse in superficie, placandosi (nella sublime "stasi" di un "Selva Opaca") sul movimento ipnotico, rassicurante ed eternamente ripetitivo delle onde.
Per tutto questo ci vogliono personalità enormi.
E quello che la Bartoli mi ha fatto capire è che ci vuole genio non solo per evocare il movimento, ma anche per cristallizzarlo.
Anzi, forse è più facile, per uno scrittore, buttare giù una narrazione fatta solo di colpi di scena, che non tenere desta l'attenzione del lettore su dieci pagine di descrizione...
L'anno dopo la Bartoli ha affrontato, sempre a Zurigo, un altro ruolo rossiniano: Desdemona dell'Otello.
Ha fatto le stesse cose, stessa recitazione, stesso canto, stesso virtuosismo, stesso carisma.
Eppure è stato un clamoroso buco nell'acqua.
Cosa c'era di diverso.
Semplicemente la funzione drammaturgica di un ruolo Colbran, che non ha nulla a che fare con quella di un ruolo Cinti.
Voi direte quel che volete; ma secondo me è solo dalla Bartoli che possiamo attenderci (ora come ora) un Robert le Diable, un Guglielmo Tell e una Muta di Portici con gli stessi equilibri perfetti di quelli a cui Scribe aveva pensato.
Scusate la lenzuolata,
Mat