Ok, ...uno di quegli eventi da Storia dell'Opera. Sto parlando della produzione faraonica per cui Londra è in ginocchio da diversi mesi... Mc Vicar (nuova produzione) - Pappano (debutto) - Westbroek (debutto) - Kauffman (debutto) e Antonacci.
Sono felicissimo di essere riuscito a trovare gli IMPOSSIBILI bigliettiper i soci Wanderer (e so che anche altri membri del forum sono riusciti nell'incredibile impresa). E così Operadisc sarà (ancora una volta!) l'unico fra tutti i siti operistici dell'italico Web a poter offrire ai suoi lettori una testimonianza diretta - e non malinconicamente radiofonica - dell'evento. Io ci andrò l'8 luglio (subito dopo aver visto il nuovo Trovatore Minkowski-Cerniakov a Bruxelles).
Soddisfazione? Certo... ...E tuttavia, quando Maugham mi ha consigliato di vedere lo spot pubblicitario dello spettacolo ideato da Holten e messo su Internet, mi sono davvero cascate le braccia! Immagino che l'intento fosse ironico (lo spero almeno) e non di meno mi costa fatica trattenere il conato di vomito....
Guardatelo anche voi e ditemi che ne pensate di questa "nuova veste" HIGH IMPACT della promozione operistica.
MatMarazzi ha scritto:...E tuttavia, quando Maugham mi ha consigliato di vedere lo spot pubblicitario dello spettacolo ideato da Holten e messo su Internet, mi sono davvero cascate le braccia! Immagino che l'intento fosse ironico (lo spero almeno) e non di meno mi costa fatica trattenere il conato di vomito....
Be', il mio intento era ovviamente ironico. Sull'ironia dei marketing manager della ROH... non ci scommetterei. Devo ammettere che Kaufmann negli ultimi tempi si sta trasformando in una star cotonata e plasticosa e ha infilato diverse dichiarazioni da divastro alla stampa tedesca su testate importanti. a) ha detto che non si vergognerebbe di cantare nudo in un allestimento. E un simpatico blogghista inglese ha commentato: "McVicar! Tutta Londra conta su di te!". b) ha confermato che da adesso in poi non riceverà più ammiratori in camerino e nemmno si fermerà per gli autografi all'uscita degli artisti. Troppi batteri. Il tenorissimo ritiene infatti che la causa delle sue frequenti laringiti sia da cercare nelle alitate dei fan adoranti che lo attendono fuori dall'uscio.
Mi unisco ai conati marazziani
WSM
Mae West: We're intellectual opposites. Ivan: What do you mean? Mae West: I'm intellectual and you are the opposite.
Maugham ha scritto:b) ha confermato che da adesso in poi non riceverà più ammiratori in camerino e nemmno si fermerà per gli autografi all'uscita degli artisti. Troppi batteri. Il tenorissimo ritiene infatti che la causa delle sue frequenti laringiti sia da cercare nelle alitate dei fan adoranti che lo attendono fuori dall'uscio.
Mi unisco ai conati marazziani
Ma che conati, tutta invidia: se uno proprio deve prendere dei batteri come metodo non è male... Ci sarò anch'io l'8 luglio: sono molto curioso...
Va be' dai......"la pubblicita' e' l'anima del commercio!". Lo spot incriminato e' stato mandato anche in occasione della diretta al cinema del Rigoletto, sempre dalla ROH, naturalmente, martedi' scorso, 17 aprile. In quella serata ho trovato BEN PEGGIORE l'intervista a Grigolo, mandata nell'intervallo, nella quale ci teneva a sottolineare che lui fa una vita spericolata con numerosi filmati di lui che arriva a tutta velocita' sulla sua mega-moto! Ciao a tutti. Irina
"Qui non si bada a spese!" Questo era il mantra di John Hammond (Attenbourough) il magnate di Jurassic Park che magnificava le meraviglie del suo parco a tema. Una frase del genere potevano benissimo dirla i vertici della ROH durante le cinque e passa ore di questo allestimento monstre. Questi Troiani, scenicamente, sono infatti all'opposto dei teli dipinti. Tutti gli elementi scenici sono costruiti, tridimensionali, pesanti, costosi. Il konzept di fondo potrebbe benissimo, nella sua semplicità buonista, essere lo svolgimento di un tema di maturità nemmeno troppo difficile: "Il colonialismo e suoi nefasti effetti". I Troiani sono infatti un popolo tecnologicamente avanzato (le mura di troia sono costruite con i resti di una civiltà delle macchine si suppone in odore di apocalisse alla Mad Max)
e invece Cartagine è una sorta di paradiso terrestre tutto ecologia, architettura berbera e case a torre, e i cartaginesi sono sereni ingenui, giocosi e ambientalisti.
I primi stuprano i secondi. E lo stupro (casomai non fosse chiaro) è rappresentato di un plastico gigantesco e tridimensionale di Cartagine (solo con il costo di quello all'Eno ci fanno un'Aida) che si alza, si abbassa, pirulla, e, alla fine, si spacca in due. Ma questo è niente. L'effetto degli effetti (a dir la verità davvero impressionante) è il cavallo di Troia. Un macchinone gigante alto dieci metri, costruito di rottami, visivamente splendido che sbuffando fuoco e fiamme chiude il primo atto. Si rimane davvero sbalorditi e, mi dispiace per chi vedrà questi Troiani solo in video, nessuna ripresa potrà renderne l'impatto e il senso di minaccia che travolge la platea fino all'ultima fila delle gallerie.
McVicar è furbo. Sa bene che l'effetto cavallone -che tra l'altro si muove senza neanche un cigolio- dopo tre ore e passa di musica il pubblico l'ha già digerito. Bisogna tirare giù un'altra briscola. Ed ecco che nel finale, dopo il suicidio di Didone, arriva un gigantesco guerriero (ancora più grande del cavallo), sempre costruito di rottami che avanza sulle rovine di Cartagine come profetica avanguardia dell' imperialismo di Roma. Anche questo prende fuoco, con sparate di fiamme ancora più alte (in sala ho sentito le vampate di calore-le signore in prima fila erano brasate) e il lavoro si chiude come un'epica alla De Mille o una Gotterdammerung all'Hollywood Bowl. Non mi sono accorto, oltre a questo, di una regia vera e propria, se non il consueto, prevedibile, andirivieni di comparse e coristi e ballerini e mimi che sono di prammatica in un allestimento che vuole essere, prima che un'opera, una celebration del teatro, delle olimpiadi, dell'entertainment londinese che nel 2012 gareggia con New York nel costruire apparati bigger-then-life. Peccato. McVicar sta prendendo una strada che lo porta molto lontano da certi bellissimi allestimenti degli esordi. Qui tutto è fermo, statico, oratoriale. Addirittura nel duetto d'amore la Westbroek e Hymel stanno immobili, guardando Pappano, mentre si accendono le lucine nelle case a torre. L'entrata di Didone, poi, sembra appena abbozzata. Una sovrana berbera (ovviamente bionda, lattea e giunonica come un'islandese) gira carezzando e abbracciando bimbi, sudditi e soldati. E lo fa per circa un quarto d'ora girovagando sul plastico di cui sopra. Mah, io sono rimasto piuttosto perplesso. La direzione d'attori e la maniacalità delle luci erano la carta vincente di McVicar. Qui le luci sono suggestive. Pappano, molto bene. Niente di rivoluzionario, ma narrazione serrata, colori suggestivi, ritmiche implacabili. Il concertato di Lacoonte è da antologia. Antonacci meravigliosa. Non credevo possibile ma il suo personaggio è ancora più analizzato, studiato, sviscerato rispetto a Parigi. Il senso della parola, l'analisi sulla sillaba, sul singolo fonema che diventa espressivo... niente lasciato al caso.
Se si vuole trovare un neo (oltre a qualche stremo acuto stiracchiato) questo è da cercarsi in qualche eccesso scenico (ma qui correo è McVicar) che rende Cassandra una sorta di visionaria posseduta, con tanto di contorcimenti, strabuzzamenti d'occhi... insomma, la gigionata è sfiorata per un pelo, ma riscattata da un magnetismo felino, sinistro stregonesco. All'uscita dopo la prima parte le ovazioni sono da stadio.
Questo magnetismo, ma d'altro tipo, riveste la magnifica Didone delle Westbroek. Un'esplosione di carnalità e fascino, tutta linee morbide, velluto, tenerezza. Sinceramente mi aspettavo che McVicar sapesse -con questo materiale sottomano- lavorare di fino sulla gestualità, l'espressione, mi aspettavo che sapesse togliere il personaggio dalla solita dicotomia Cassandra-tutta-testa Didone-tutta...passione. Non è stato così. Resta però, a mio avviso, la più entusiasmante Didone che attualmente il teatro d'opera ci possa offrire.
Nel finale ha tirato fuori gli artigli. La scena della morte e dell'abbandono (di fronte a un sipario abbassato, a tu per tu con il pubblico, anche per permettere l'entrata del gigantesco guerriero) sono di quelle che ti ricordi per un bel pezzo. Le si può negare, forse, lo status di regina, l'imponenza di un capo di stato, l'autorevolezza di una sovrana. Ma la Westbroek è mostruosamente femminile, sensuale, tenera, appassionata per coinvolgere anche il più restio degli spettatori.
Dei protagonisti resta Hymel; chiamato a sostenere la prova più ardua. Sostituire il tenorissimo. In pratica è come se, negli anni Ottanta, per sostituire Pavarotti avessero chiamato Raffanti. Secondo me ha scelto la strada peggiore. Fin dall'inizio l'imitazione di Kaufmann è palese. Centri scuriti artificiosamente, tentativi di fiatoni risolti con difficoltà. Nel proseguire dell'opera queste intenzioni sembrano attenuarsi. In compenso Hymel adotta un atteggiamento dimostrativo: sicuro del proprio registro acuto non perde occasione per lanciare qualche acuto a beneficio dei più grossolani tra gli spettatori (orrendo, seppur intonato, il dob del duetto che tutti, anche Lakes, tentano di smorzare e che invece Hymel tiene tipo "pira"). Gli si perdonano però tante cose: il nervosismo della prima e poi l'arduo compito della sostituzione. Resta però evidente la mancanza di una forte personalità, il che rende questo personaggio quasi vampirizzato (c'era anche Enea?) dal carisma formidabile delle due donne. Ora scappo perchè vado di fretta. Bravissimo Ed Lyons (ricordiamoci questo nome) come Hylas. Splendido e struggente Vallon sonore. Edizione integralissimissima (addirittura i da capo nei ballabili). Si entra alle 5 p.m. e si esce alle 10 e 45 Ne riparleremo quando anche altri girovaghi l'avranno visto. WSM
Mae West: We're intellectual opposites. Ivan: What do you mean? Mae West: I'm intellectual and you are the opposite.
Con cosa dovrebbe debuttare Pappano, al Teatro alla Retroguardia di Milano, che arriva sempre buon ultimo dove tutti gli altri sono già arrivati da anni?
vivelaboheme ha scritto:Con cosa dovrebbe debuttare Pappano, al Teatro alla Retroguardia di Milano, che arriva sempre buon ultimo dove tutti gli altri sono già arrivati da anni?
marco vizzardelli
cioe? WSM
Mae West: We're intellectual opposites. Ivan: What do you mean? Mae West: I'm intellectual and you are the opposite.
Io ho visto lo spettacolo di domenica pomeriggio, e concordo in larga parte con quanto scritto da Maugham. Il discorso mi sembra abbastanza semplice: se lo si valuta sulla base di quello che questo allestimento avrebbe potuto essere (stando agli elementi coinvolti), è stata una parziale delusione; questi Troyens non credo entreranno nella storia, come invece era legittimo aspettarsi leggendo a suo tempo la locandina. Se però si tralascia questa premessa, è stato un gran bello spettacolo che, in fin dei conti, ha adempiuto il suo compito: la ROH voleva mettersi in vetrina con qualcosa di grandioso, celebrativo e fastoso, e quello ha fatto…
La parte musicale è stata di gran lunga quella più interessante: strepitoso innanzi tutto Pappano, sul quale (in quest’opera) avevo qualche perplessità. Temevo qualcosa di genericamente sontuoso, marmoreo, ben fatto ma superficiale, una specie di restaurazione post-Gardiner, e invece si è avuta una lettura accesissima, ricchissima di contrasti e, soprattutto, suonata benissimo (immagino lunghissime prove per ottenere dall’orchestra un virtuosismo simile…). Eravamo in effetti agli antipodi di Gardiner, ma con risultati altrettanto esaltanti; se il primo si volgeva all’indietro, facendo dei Troyens il culmine e la summa di una lunghissima tradizione di opéra francese, Pappano li immerge invece completamente nel loro tempo: si capiva benissimo, ascoltando quest’esecuzione, quanti punti in comune (malgrado le antipatie e le dichiarazioni formali) Wagner avesse con il più vecchio collega francese. Certi bruschissimi scarti armonici, il modo di condurre alcune linee melodiche: certo, i fini erano diametralmente opposti, ma alcuni strumenti lo erano molto meno… Del resto, questo è uno degli aspetti più emozionanti di ogni lettura dei Troyens: si tratta, credo, dell’unico esempio di capolavoro sommo della storia dell’opera che ci è giunto del tutto privo di qualsiasi tradizione esecutiva. Persino Minkowsky, alle prese col Trovatore, ha dovuto venire in qualche modo a patti con quanto stava dietro di lui. Coi Troyens ciascun direttore è completamente libero, e lo si percepisce ad ogni nuova esecuzione…
Il cast era dominato dalle due donne, che hanno fornito due letture musicalmente paradigmatiche, cui solo la mancanza di una vera idea registica ha impedito di esserlo anche scenicamente. E anche Hymel, forse perché passate le tensioni della prima, ha fornito una prova più che soddisfacente: certo, se la vera personalità non c’è, non la si può inventare, ma vocalmente parlando è stato un Enée sicuro e stilisticamente in linea col personaggio.
Resta lo spettacolo di McVicar: mi è parso interessante negli atti troiani, che per sicurezza narrativa e prodigi tecnici mi sembra un buon esempio di quello che potrebbe essere una messinscena tradizionale realizzata con mezzi moderni; decisamente più rinunciatari gli atti cartaginesi: belli a vedersi, ben condotti, scorrevoli, però siamo sempre dalla parte della messinscena più che della regia vera e propria. E, a voler essere onesti, se un duetto d’amore del genere, con i due seduti a terra in stile picnic e gli occhi al pubblico, lo avesse realizzato Pizzi, staremmo qui a scaricargli addosso vagoni di… ironia…
In sintesi, complessivamente un gran bello spettacolo che però ha mancato il suo appuntamento con la storia… Peccato ma pazienza: va bene anche così…
Non ci posso ancora credere che c'ero anch'io.....Lo giudico un bello spettacolo. Piu' che la regia, in effetti colpisce la scenografia, veramente bellissima. Il cavallo di Troia davvero spettacolare e 1000 punti assegnati per il fatto che i movimenti erano fluidi, naturali e silenziosissimi. Purtroppo in passato ho assistito a spettacoli dove i carri-ponte e i marchingegni facevano un tale baccano da far venire da piangere. Io di solito, sono un'entusiasta per natura, ed essendo abituata a spettacoli in piccoli teatri di provincia, ho trovato la parte musicale davvero fenomenale. Era la prima volta per me che sentivo la Signora Antonacci "dal vivo" e mi ha totalmente conquistata, bravissimo anche il suo compagno, Capitanucci. Credo di aver capito tutta la simbologia che stava dietro alla diversa presentazione delle due civilta' e anche del "trono" di Didone (o forse era il suo cuore......) prima concreto, con i piedi per terra, poi elevato al cielo nell'estasi d'amor, ed infine spezzato in due. Il difetto piu' grande di questo spettacolo era l'enorme buco lasciato dal Signor Kaufmann. Mancava proprio il tenore con il piglio dell'eroe, e francamente mancava anche l'amante appassionato. Comunque.....e' andata cosi'- SIGH. Altro difettuccio. A me personalmente il brano finale di Didone davanti ad un grigio telo nudo e crudo e' parso quasi un buco, quasi mancasse qualcosa. Cosa sarebbe stata dietro di lei la proiezione di quelle bellissime onde di mare con una nave che se ne andava in lontananza? Ringrazio e saluto tutti i gentilissimi compagni di viaggio! Irina
Anche io c'ero! E, anzi, mi scuso del ritardo con cui vi sottopongo anche le mie considerazioni.
Premetto che, oltre alla gioia di assistere a un evento operistico di questa portata, ho avuto il gran piacere di ritrovare amici preziosi e amanti dell'Opera. Per esempio l'amico Beck e soprattutto la nostra Irina-Dollarius, simpaticissima e bellissima Kaufmaniana di Operadics, che vedevo per la prima volta dal vivo, insieme al principe consorte, l'altrettanto simpatico Enzo! Davvero l'Opera è un'arte "sociale"! la fruizione è bella, ma non quanto la condivisione.
Detto questo, provo ad aggiungere la mia opinione, specie laddove diverge un po' dalle tesi già esposte. Dissento da Beck quando dubita che questi Troyens possano essere definiti storici! Lo sono stati, altroché.... Se dovessimo stilare una lista delle produzioni determinanti di quest'opera e saltassimo questi di Londra, commetteremmo il più grave errore storiografico.
La direzione è stata storica (per giunta su una partitura pressoché integrale). La resa interpretativa (in particolare le due primedonne) è stata più che storica: con la Antonacci e la Westbroek siamo ai vertici -o giù di lì- delle rispettive parti da almeno un secolo a questa parte. La regia non sarà stata "rivoluzionaria" (ma ne siamo sicuri?) in compenso, a mio parere, storica sì: non soltanto una delle più evidenti riuscite di Mc Vicar, ma anche la più avvincente produzione dei Troyens che io abbia visto. Mille volte meglio di quell'orrore di Kokkos, a Parigi con Gardiner, o di Vick, a Monaco con Mehta; non parliamo del Met e di Milano!
Proprio da Mc Vicar partirei.
Contro di lui, Maugham muove una critica giusta e condivisibile. Non è il regista dei "grandi pensieri". E questo è un peccato, perché Les Troyens, in teoria, si presterebbero a grandi pensieri. Ma una regia per essere grande non ha necessità di pensieri grandi, nuovi e rivoluzionari... Altrimenti ogni grande pensatore sarebbe pure un grande regista! In realtà ...già il fatto di "funzionare" come un ingranaggio perfetto, di sprigionare emozioni al contatto con la musica, di sviluppare la verità di personaggi spesso prigionieri dei loro pepli ...sono già grandi risultati.
Mc Vicar, lo sappiamo, non è un Jones e nemmeno un Guth; non è un intellettuale alla Pountney o Bondy, non un provocatore titanico alla Sellars, non un rivoluzionario vero e trascinatore come Carsen. In compenso (e questo lo distingue, per esempio, da uno Zeffirelli o dai non-registi della "tradizione") conosce l'arte di far scaturire l'immagine dala musica, di tenere alta la tensione narrativa e di elaborare le retro-psicologie dei personaggi, facendone creature vive. Ma più di tutti (più dello stesso Jones, più di Guth, più di Bondy e Sallars) possiede un segreto: il segreto del "gesto" e della sua immediatezza emotiva. Lavora con gli attori, sulla mimica, sull'infinitesimo dettaglio della postura con una sensibilità più da regista cinematografico che teatrale, trasformando anche i personaggi più verbosi e stuatuari in un fermento di umanità e naturalezza.
Se talvolta fallisce è proprio quando non trova gli attori in grado di seguirlo o non ha il tempo (o la voglia) di lavorare per bene con loro. Gli è capitato con Trovatore o Anna Bolena e soprattutto con quella terribile Clemenza di Tito che vidi a Aix due anni fa.
Dai suoi Troyens pertanto non mi aspettavo sconcertanti ribaltamenti politico-culturali, che infatti non ci sono stati. Unico merito contenutistico l'avero scovato un parallelismo fra le due parti dell'opera, nell'invocazione della guerra. I due mostri (cioè il cavallo di Troia e il gigante di ferro che incombe alla fine sul rogo di Didone) sono entrambi costruiti di armi, cannoni, fucili...
In questa regia, la furiosa corsa alla guerra - come lascito della civiltà occidentale e tragica aspirazione all'auto-distruzione - conclude entrambe le semi-opere di cui i Troiani sono composti. Ammetto che non è certo un'idea complessa, così come non lo è la localizzazione asburgica da rivoluzione industriale della prima parte o da villaggio nord-africano della seconda, ma - ripeto - non è questo che cercavo. Cercavo piuttosto dei Troyens che non fossero noiosi, slegati, incongrui e alle volti grotteschi come, il più delle volte, capita di vedere. E questi Troyens non lo erano.
Semplicistici, ok, Holliwodiani, ok, ...in stile colossal ad "alto budget", alla James Cameron , è vero... ma nè noiosi, nè slegati, nè grotteschi. Anzi, al contrario: erano funzionali e appassionanti proprio grazie a ciò che, come abbiamo detto, è la migliore prerogativa di Mc Vicar: la sua capacità di sciogliere i personaggi dai loro pepli e renderli umani, palpitanti, veri sulla gestualità modernissima.
Qui il "gesto" Mcvicariano c'era tutto: avvolto alla musica, liberato da ogni rigidità melodrammatica (come già in Rigoletto, Giulio Cesare, Incoronazione di Poppea e altri capolavori del regista). Un gesto che si sposava miracolosamente a quello sonoro di Pappano... che, a sua volta, non è un direttore da "grandi pensieri", ma che "sente" in ogni vibrazione della musica l'impulso di un'umanità semplice e diretta, che si agita e respira come in un film. Pappano e Mc Vicar si sono rivelati il team ideale per les Troyens. E' questa la ragione per cui mi sono sentito coinvolto l'altra sera assai più che a Parigi con Gardiner. Gardiner è un gigante e la sua lettura definitiva. Ma era solo. Nè l'immagine visiva, nè la sensibilità degli interpreti (Antonacci esclusa) gli veniva dietro.
Mi piacerebbe ricordare alcuni momenti particolarmente esaltanti di questa produzione. Ad esempio l'ingresso al primo atto dei reali di Troia (qui trasformati in un Cecco Beppe sordo e tremulo, affiancato a una matura ma ancora radiosa Sissi di Baviera, sorta di Ava Gardner). L'elaborazione della gestualità dava a ogni personaggio (comprese le principesse che circondano i genitori) una sua verità immediata e il tutto talmente costruito sulla musica da lasciare allibiti. Finalmente ho visto valorizzata (fino alla commozione) la pantomima di Andromaca, preceduto da uno stupido ballo di bambini che non aveva altro scopo che di preparare (per contrasto) l'apparizione dolcissima della vedova e dell'orfano. come ha già detto Irina, l'ingresso del cavallo (il suo incedere lentissimamente sui ritmi della marcia troiana, il suo incombere grandioso sul palco creando un climax che fa esplodere la musica) è un altro dei momenti indimenticabili dello spettacolo. Potrei citare tanti altri esempi, ma in realtà non è su queste intuizioni che si può ritrovare il meglio della regia. Bensì sulla continuità di un'umanizzazione attraverso il gesto che - scusate se mi ripeto - invera i personaggi e le situazioni creando un legame difficile da descrivere col pubblico e le sue emozioni.
Non è sull'originalità del contesto che si impone Didone (lei che gioca e persino balla col suo amato popolo, i cui rappresentanti ammiccano con lei, la portano a spalla, le mostrano i bicipiti). E' che l'immagine di questa regina "che è una di noi", una specie di compagna di liceo, di sorella maggiore, si traduce in una mimica di una scioltezza e freschezza degna della Holliwood degli anni '90. L'innamoramento con Enea, la fiamma che li avvolge si traduce in una costruzione di sguardi, di tenerezze, di complessità di espressioni che ben di rado si può vedere all'opera. L'immagine di lei che, durante i balli del quarto atto, si accoccola sul petto del suo uomo, mantenendo uno sguardo che, pur nell'appagamento fisico, lascia passare ombre di inspiegabile tristezza (il tutto in diabolica sintonia con la musica) è uno di quei dettagli che da soli ti fanno una regia. Persino l'inattesa svolta della regina a una collera spettacolare, al quinto atto, dopo che l'abbiamo vista così fragile, cedevole, ragazzina... è costruito con una tale sagacia di mezzi e sensibilità psicologica che non si può non credere. Quando la Westbroek finalmente alza la testa e lascia trionfare la sua forza, la sua grandezza, tanto da caricare la sorella come un toro...
Non sono d'accordo con Irina, che avrebbe preferito vedere - durante il grande monologo di Didone abbandonata - uno sfondo marino e magari una nave in lontanza. Infatti a quel punto il problema non è più Enea o il mare che lo allontana, ma il deserto che è rimasto nel cuore di Didone. Le sue drammatiche parole, infatti, non sono rivolte all'amato che fugge, ma alla propria fine, a ciò che lascerà, alle macerie della sua antica felicità. Il suo addio non è rivolto a Enea, ma alla "fière Cité", la Cartagine che lei stessa aveva costruito e delle cui sorti ormai non riesce più a interessarsi; ai bei Cieli d'Africa e alle notti che un tempo riempivano la sua vita e che ora non hanno più alcun significato. Il grigio del fondale che l'avvolge descrive splendidamente l'apatia di un'anima che non riesce più a palpitare di vita: e la sua uscita di scena - sulla musica - dopo aver sussurrato "ma carrière est finie" con un colore di voce grigio quanto il fondale, è uno di quei momenti che restano nella memoria.
Ma Didone non è l'unico personaggio che si avvantaggia del gesto mcvicariano. Anche sua sorella Anna, ad esempio, diventa qualcosa di completamente diverso da ciò che abbiamo sempre visto. Non è più la solita confidente pontificante: con Mc Vicar è una giovane donna, bella e orgogliosa, che palpita delle stesse passioni della sorella, e addiritura gioca e scherza col vecchio Narbal (il sacerdote che a sua volta Berlioz ci ha imposto saggio e solenne e che Mc Vicar rende fragile e sensibile come un nonno d'altri tempi). Non parliamo della gestualità meravigliosa del bravissimo Ed Lyon, nel brevissimo spazio della canzone frigia, che qui diventa la vedetta di una nave, mollemente adagiato nella coffa appesa, perso nell'orizzonte e che si lascia cullare là in alto, abbandonato come un bambino a una strana, tormentosa nostalgia ("pensando alla sua patria, che non vedrà mai più")
Il capolavoro di Mc Vicar però è stato nel personaggio di Cassandra. La Antonacci depone completamente i modi da sontuosa tragedienne (tutta di bianco vestita) che ancora dominavano la sua prestazione (già magnifica) a Parigi. Al loro posto assume i tratti di una popolanità selvaggia, disperata, da strega mediterranea, con tratti di volta in volta animaleschi (tribali, epilettici) e altri infantili, da bambina infelice, che regredisce all'infanzia come fuga patologica dall'orrore. Quando entra in scena al suo ultimo quadro, nel tempio di Cibele, balla e volteggia come una bambina felice, nell'annunciare la fuga di Enea, e quando le altre donne le chiedono "Et Chorèbe"? il suo volto assume un espressione imbronciata, come se quella domanda non c'entrasse nulla... E con finto di distacco (a sua volta teneramente infantile) replica secca "Il est mort". Ci sono dettagli del gesto di Cassandra (tipica di certe pazze "buone", per cui la negazione è sopravvivenza, alternate a ruggiti da sibilla, che protende al pubblico la mani sui cui palmi sono disegnati occhi) che conferscono, ancora una volta, una verità rivoluzionaria al personaggio.
E' su questa umanizzazione dei personaggi, tramite il gesto, questa tensione continua nel rapporto con le articolazioni della musica, che va individuata la rivoluzione dei Troyens di Mc Vicar. La rivoluzione e la storicità. La sua assoluta "non convezionalità", malgrado le apparenze. E qui che la sua arte va giudicata, non nel pensiero grande, non nell'idea, non nella provocazione o nella rilettura sconcertante, ma nella capacità di far uscire i personaggi dal loro marmo, fonderli alla sensibilità contemporanea, e con essi rendere palpitanti cinque ore di narrazione musicale.
E' vero che il gioco (come al solito) non gli è riuscito con tutti i personaggi. Come al solito, il limite di Mc vicar è quello di poter imporre il suo "gesto" solo a chi ha le capacità di tradurlo. La Antonacci e la Westbroek sono state sublimi; non sto esagerando SUBLIMI. Le loro interpretazioni sono da porre fra le maggiori di tutti i tempi (e basterebbe questo a rendere "storici" questi Troyens! I cantanti contano pure qualcosa nella storicità di un evento musicale). Oltre a seguire perfettamente il disegno di Mc Vicar, la Antonacci ha dato fondo alle sue ultime conquiste in termini di "colorismo". Scava, spoglia, denuda la sua voce in effetti che oppongo l'ampiezza del legato al sussurro più afono e penetrante; nel 2003 con Gardiner (e io c'ero) non era arrivata a tanto. Alla perfezione le manca solo una nota: quell'apocalittico si naturale che dovrebbe chiudere il duetto con Chorèbe e che, con la Antonacci di oggi, non è più all'appuntamento. Per il resto non ricordo una Cassandre al suo livello.
Quanto alla Westbroek, superata la prima mezz'ora (quando il suo canto declamatorio e "non coloristico" sembra non riuscire a reggere il confronto con i mille timbri della Antonacci), comincia a sprigionare un'opulenza sonora addirittura fecondante, da sesso allo stato puro, ma senza mai assumere pose sensuali o esotiche. Fragrante come una ragazzina che scopre il suo corpo, tiepida e accogliente come una mamma, la Westbroek avvolge il pubblico di una femminilità mai vista in un teatro d'opera. Vocalmente la parte, dal baricentro mezzosopranile e dal melodismo avvolgente, esalta ogni angolo della sua voce, dall'acuto trionfale ai gravi sontuosi, alle filature estenuate del duetto e dell'addio. Se non fosse per la rara e indimenticabile prestazione di Waltraut Meier (a Monaco nel 2001), la Westbroek si aggiudicherebbe il titolo della maggiore Didone che ho visto a teatro. E comunque ...anche con la Meier se la gioca da pari a pari.
Eccone un assaggio nel finale.
Oltre a loro, altri personaggi sono emersi come rinati dal lavoro mcvicariano. Ho già citato la splendida Anna di Hanna Hipp e il favoloso Narbal di Brindley Sherratt, antico basso inglese che sentivo per la prima volta e che mi ha semplicemente sconvolto. Anche un vecchio monumento come Robert Lloyd trae partito dalle regia umanizzante di Mc Vicar e ricava un gioiello dal suo tremolante e tenero Priamo.
Con altri personaggi la ciambella non è riuscita col buco. Specialmente con gli eroi. Il Chorèbe di Fabio Capitanucci (a differenza di Irina) a me non è piaciuto affatto. Intanto è del tutto incapace di riempire il "gesto" mcvicariano, e, sforzandosi, ha recitato malissimo, occhio sempre fisso su Pappano. Il suo canto poi, tipicamente greve e muscolare, da baritono declamatore all'italiana, è un disastro di monotonia a fianco di quel mostro dai mille colori che è l'Antonacci. So anche io che il cantante ha dei numeri, ma con questa produzione e questa musica non c'entrava nulla.
Quanto a Bryan Himel, gli si deve riconoscere di avere esattamente la voce e la tecnica per questo repertorio. Vocalmente è stato un Enea di fronte al quale ..giù il cappello, ma questo non l'ha salvato dall'essere povero di carisma, di intuito, di presenza. Le note ci sono tutte ed eccezionalmente belle (compresi certi do dardeggianti, da far vibrare il covent garden); di certo Kaufmann non sarebbe stato altrettanto impressionante vocalmente e idoneo tecnicamente. Inoltre si sforza (come Capitanucci, e con risultati più seri) di seguire Mc Vicar in una mimica sciolta, umana, anti-eroica... Non di meno l'attore e il musicista sono talmente poco interessanti che l'opera ne esce squilibrata. Concordo con Irina che il vuoto lasciato da Kaufmann si è sentito eccome.
Ciao Matteo!!!Che bei complimenti che mi fai....non posso evitare di ringraziarti e di confermare che la condivisione e' davvero gran cosa, piacevolissima esperienza. Questo e' il motivo per cui adoro fare le code per i biglietti al botteghino (anche se magari me ne lamento....). Si fanno davvero delle belle chiacchierate con persone interessantissime. Speriamo ci siano altre occasioni!!! Un grazie di cuore da Irina ed il principe consorte.
E fu così che la coproduzione sbarcò alla Scala. Questo il cast Conductor: Antonio Pappano StagingDavid McVicar
Enée: Gregory Kunde Chorèbe: Fabio Capitanucci Panthée: Alexandre Duhamel Narbal: Giacomo Prestia Iopas: Shalva Mukeria Ascagne: Paola Gardina Cassandre: Anna Caterina Antonacci Didon: Daniela Barcellona Anna: Maria Radner Hylas: Paolo Fanale Priam: Mario Luperi Un chef Grec: Ernesto Panariello L’ombre d’Hector: Deyan Vatchkov Hèlénus: Oreste Cosimo 1er soldat Troyen: Guillermo Esteban Bussolini 2eme soldat Troyen: Alberto Rota Un soldat: Luciano Andreoli Le Dieu Mercure: Emidio Guidotti HécubaElena Zili
Che aspettarsi? Rispetto all'originale, il cast è abbastanza stravolto. Andrò l'8 aprile, anche se non garantisco di resistere tutte e 5 le ore (sarò di ritorno da un viaggio mortale). Inizia comodamente alle 17:30...
Io andrò il 12. Secondo me possiamo contare sull'Antonacci e Pappano. Certo che un tentativo di chiamare la Westbroek per gli atti cartaginesi si poteva fare.