Ho visto anche io questa Luisa Miller e vorrei aggiungere la mia opinione alle due interessantissime e molto diverse fin qui postate.
Premetto che mi trovo molto più vicino, almeno per il giudizio sulla recita di ieri sera, a doncarlos.
Dato che Luisa Miller era una delle poche opere verdiane non passate attraverso le forche caudine mutiane (e assente da molto tempo dalla programmazione scaligera) poteva essere un'occasione importante per dimostrare qualcosa.
Ad esempio per dimostrare al pubblico milanese (giustamente scettico, per questo fronte, sulla gestione Lissner) che esiste un Verdi non necessariamente ispirato (ma in peggio) a quello che Muti ha ammanito per vent'anni, come è avvenuto finora.
Ossia un Verdi inturgidito nelle sonorità, nobilitato in solennità sinfonistiche, ripulito (e perché mai dovrebbe?) dall'humus belcantistico-borghese di cui pure è parte e, di conseguenza, banalizzato nei suoi contenuti più rivoluzionari (in senso sociale) e politici (in senso anti-statale).
E aggiungiamo: un Verdi affidato a cantanti rigorosamente poveri di personalità, che si occupino di fare le note e i gesti che si dice loro di fare e nient'altro.
E infine: un Verdi dalle realizzazioni sceniche parrocchiali, rigide, prevedibili, vuote, elementari... perché "la regia è una diavoleria di cui si può e si deve fare a meno".
Questo era il modello del Verdi Mutiano ("Italians do it better", secondo il felice - ? - slogan che per anni imbrattò l'accademia scaligera) e questo è il Verdi oltre al quale la Scala di oggi dovrebbe andare.
Capisco che non sia facile: per superare un modello popolare e autorevole (per altro - questo bisogna riconoscerlo - fondato su un'idea e una conoscenza vera del repertorio verdiano, che Muti obbiettivamente ha) occorrono idee e conoscenze altrettanto vere e profonde, ben maggiori di quelle che - almeno in Verdi - la Scala del dopo-Muti ha finora messo in campo.
E tuttavia proprio Luisa Miller era il titolo giusto per lanciare un nuovo "Verdi made in Scala", considerato che per essa il pubblico Milanese mancava di immediati confronti, e considerati anche i forti contenuti del testo, mutuati da Schiller: è questa l'opera, infatti, in cui Verdi depose le problematiche politiche di tipo "orizzontale" (invasi contro invasori) per esplorare quelle di tipo "verticale" (Stato contro sudditi) che avrebbero nutrito tutta la sua successiva produzione, almeno fino ad Aida.
Alla prova dei conti chi sperava in una svolta è rimasto deluso.
Anche Luisa Miller in versione Lissner è uscita un'ennesima riproposizione del modello Mutiano, salvo l'unico pregio che esso aveva: l'obbiettiva, enorme bravura tecnica di Muti stesso.
Partiamo infatti dal direttore.
Noseda risolve Verdi in sonorità costantemente grandiosizzanti e sontuose: ovviamente senza quel piglio bandistico, quella prevalenza di fiati sugli archi, (guaiiii, direbbe Muti) che almeno ne svelerebbere le radici storico-culturali (e che non a caso Gardiner scatena in Berlioz e Bizet).
Morbidezza ovunque, prevalenza di archi, respiro (e organico) di sensibilità Brahmasiana.
Come a dire "Povero, grande Verdi... lo dobbiamo nobilitare! E per farlo ...occorre farlo assomigliare a ciò che non é: un tedesco sinfonista del tardo ottocento"
Pari pari, come si vede, la formula Mutiana.
Possente nell'ouverture e negli insiemi, Noseda smorza l'organico quando deve accompagnare le voci; per le quali sfodera invece un calligrafismo delicato, prezioso, anch'esso Mutiano.
Come a dire: "vedete? Benché io sia un direttore per grandi sinfonie... so che nell'opera italiana il canto è padrone e io mi metto al suo servizio"
Infine, a livello interpretativo, Noseda resta schiacciato dall'ossessione di amplificare gli opposti (c'è un forte? sarà un fortissimo! C'è un piano? Sarà un pianissimo!) come se il suo discorso teatrale e narrativo si risolvesse nel cozzo e nella sottolineature dei contrasti.
E anche questo è esattamente un lascito del Verdi di Muti.
In tutto parrebbe essere tornati al ventennio, dunque, tranne che per un aspetto.
Col vero Muti non c'era possibilità alcuna di sentire i pasticci, gli attacchi dubbi, i piccoli squilibri fra le sezioni che si sono sentiti ieri alla Scala. Non che Noseda sia un disastro, intendiamoci, ma questo non toglie che - oltre a seguire una tradizione che vorremmo disperatamente veder superata - non dispone nemmeno del genio della concertazione che Muti invece ha.
Passiamo alla regia, sulla quale stenderei un velo pietoso.
Che Martone c'entri col teatro d'Opera come i cavoli a merenda, mi fu noto fin dal rovinoso
Così fan Tutte che vidi a Ferrara.
Il successivo
Ballo in Maschera al Covent Garden (ancora con Alvarez) si guadagnò ai miei occhi il titolo - ancora imbattuto - di "allestimento operistico più cretino di tutta la mia vita".
Questa Luisa Miller non mi è parsa altrettanto schifosa, ma certamente ancorata al Verdi "pizzi-deflo-savary-kokkos" del tristo ventennio.
Ho già detto, in varie occasioni, quanto detesti le regie "a simboloni", come se ne vedevano nelle periferie degli anni '80...
Allora molti registi come Pizzi pensavano che piazzare al centro della scena un simbolo "grosso così" (ad esempio un lettone nunziale fra i larici, che da bianco diventa rosso... capito il simbolo???
) permettesse loro di nascondercisi dietro e occultarvi la propria incapacità tecnica, la povertà di soluzioni e di idee.
Era una scappatoia molto praticata specialmente da quegli scenografi che venivano elevati a registi (per risparmiare un cachet) e che si ritrovavano di fronte a tre ore di matriale sonoro, narrativo, drammaturgico che non avevano idea di come gestire...
Il "simbolone in mezzo al palco" sembrava cavarli di impaccio (e per anni è andata bene).
La nostra critica e il nostro pubblico di allora si concetravano sul "simbolone", senza accorgersi che dietro non ci fosse uno straccio di regia!
... ad esempio questa Luisa di Martone sarebbe stata ricordata per anni (e da qualcuno rimpianta) come quella del "letto fra i larici"...
Martone, non avendo idea di cosa sia una regia d'opera, ricorre allo stesso stratagemma, ma... vent'anni dopo... quando nemmeno alla recita scolastica di fine anno qualcuno lo addotterebbe!
Tanto che oggi non imbroglia più nessuno.
Nessun lettone può più occultare la mancanza di idee, la povertà di visione, il dilettantismo tecnico di cui Martone fa, ancora una volta, prova.
Anche la recitazione è di quelle che oggi si vedono solo nelle serate di Operetta dei circolini lirici: nei concertati stanno tutti impalati come a una prova all'italiana; nella sua calabetta il soprano resta inginocchiato a terra muovendo a ritmo le mani giunte; nel loro duetto il tenore e il soprano assumono la tipica "posizione Opera" (lei rivolta al pubblico e lui dietro che la tiene per le spalle) che avevo visto l'ultima volta nel 1985 all'Arena di Verona (Attila con la Chiara e Lucchetti).
E non parliamo della Barcellona, costretta anche lei (come oggi tutti i registi dilettanti fanno con le povere "rivali") a aggredire il palco con modi da vamp, vestito da seduttrice e effetto da Jessica Rabbit (possiamo immaginare, considerando l'innata sensaulità della donna, il risultato!
E dove mettiamo i soliti strafalcioni contenutistici rispetto al libretto o alla logica stessa?
Esempio.
Federica entra nel palazzo ducale del futuro suocero e che fa? Ovvio: saluta uno per uno tutti i cortigiani (e ci vuole un po', perché sono distribuiti nel solito visto e stra-visto coro "parlamentare") senza degnare di uno sguardo il padrone di casa e il futuro sposo, che aspettano pazientemente il loro turno.
Già... bisognava sfruttare il coretto con qualcosa...
Oppure - ancora più divertente - il povero Miller che, alla fine del primo atto, viene trascinato fuori scena in catene... davanti agli occhi sgomenti della figlia.
Secondo il libretto non dovrebbe essere arrestato a quel punto, ma va bene! Licenza registica!
Ma allora come si spiega che l'atto successivo inizi con le coriste che si affannano a raccontare a una Luisa incredula e sconvolta l'arresto dell'uomo?
E' forte la tentazione di alzarsi e gridarle dalla platea "scema!!! L'hai visto cinque minuti fa che lo portavano via!!".
Sul cast bastano poche parole.
Per mia fortuna non c'era Alvarez!
In compenso un certo Pretti - di bella presenza e dagli acuti facili - si è dato da fare per non sfigurare.
C'è riuscito, ma gli manca ancora molto per essere un buon Rodolfo.
La Mosuc ha le note della parte (più o meno...), ma non il carisma, né l'autorità, considerando che sul suo personaggio l'opera si impernia.
In tanti momenti (come sempre quando non si dispone di sufficiente personalità) l'opera si slenta... in particolare al terzo atto.
La Barcellona è stata bravissima vocalmente e musicalmente (ho avuto la sensazione che abbia salvato il quartetto a cappella del secondo atto).
La parola cammaraniana (e verdiana) con lei risalta benissimo.
Il personaggio ovviamente non c'era, ma non è colpa sua.
Sui bassi non so che dire...
Se all'ufficio casting della Scala usassero la logica, Youn sarebbe douto essere Walter e Kowaliow Wurm.
Infatti:
1) Walter è il basso principale, mentre Wurm è un comprimario. Ed essendo Youn una star internazionale (molto più di Kowaljow) la parte principale sarebbe dovuta essere sua.
2) Wurm ha una scrittura da comprimario, appunto: interviene solo nei duetti, non ha un'aria sua, e il suo canto è cattivo e aspro, tanto da potersi adattare a un declamatore (come Kowaljow); al contrario Walter ha una grande aria che solo un basso morbidissimo e vocalista (come Youn) può valorizzare.
In questo modo invece abbiamo avuto un Wurm (Youn) troppo morbidoso, vellutato, privo di enfasi e spessore; e un Walter (Kowaljow) dal canto declamatorio aspro e spezzato, rigido come legno, in palesissimi difficoltà nella sua aria.
3) la questione psicologica. Wurm - come dice il nome - è cattivissimo; Walter invece è un padre del tipo Monforte, Rigoletto, Germont... di quelli che soffrono, amano e se sbagliano è per eccesso di amore. L'espressività introversa, carezzevole, dolcissima di Youn avrebbe dato per altro senso al personaggio, che invece è stato risolto da Kowaljow come il solito gerarca senza cuore....
Ah dimenticavo: ovviamente Youn - in qualità di Wurm - zoppicava e si trascinava dietro un bastone (oggi i registi in gamba presentano sempre i cattivi come handicappati: è la società a renderli così... non l'avevate capito?).
Resta il caso di Nucci.
Dio mi perdoni... non so se mi riavrò mai per aver scritto una cosa simile... ma...
bè ok! Nucci è stato il migliore in campo.
Sarà che rovesciando sul personaggio tutta la sua abituale rozzezza, la legnosità urlona del suo canto, la fissità arida della sua presenza scenica, gli ha conferito una verità completamente nuova.
In Schiller, Miller non era il buon pater familias bucolico che ne ha fatto Cammarano (con gran disperazione di Verdi); era un personaggio sinistro, ambiguo, con venature quasi comiche e grottesche.
Involontariamente Nucci ci ha restituito proprio questo: e il suo canto possentemente declamatorio, la rigidità terrigna delle sue espressioni ...per una volta hanno fatto il miracolo!
Alla fine... il buon vecchio Nucci si è rivelato il più incisivo Miller che ricordi e l'unica ragione per cui valesse la pena sentire questa Luisa.
Salutoni e scusate la solita prolissità-
Mat