pbagnoli ha scritto:Tra l'altro sono molto contento di quello che dici sulla Matthaus-Passio, uno dei miei topic: ti chiederei cortesemente di aprire un thread a parte nella sede apposita del forum per spiegarci in cosa la lettura di Minkovski di questo capolavoro è stata entusiasmante. Io finora ho solo la sua Messa in si minore, ed è da sballo
Con un po’ di ritardo, provo a rispondere. Come quasi sempre mi accade con Minkowski, la prima reazione è uno spiazzante senso di sorpresa. In questo caso, duplice.
Sul versante esecutivo, Minkowski prosegue qui sulla strada iniziata con l’incisione della Messa: dal punto di vista vocale, rigorose parti reali, ossia quattro solisti a comporre il primo coro, altri quattro a formare il secondo, più quattro “ripienisti” che intervengono nei corali e nei cori che chiudono ciascuna delle due parti dell’oratorio. Se il metodo era noto, sentirlo applicato qui mi ha sorpreso: la Salle Pleyel non è propriamente una bomboniera, e il gioco è rischioso. Come detto parlando della Messa, non sostengo affatto che questo sia necessariamente il metodo giusto, però su una cosa Minkowski ha ragione: nei brani corali il rapporto uno a uno fra voci e strumenti consente una trasparenza ed un equilibrio che l’uso di un coro non consente. A patto, ovviamente, di avere a disposizione dei fuoriclasse (non è roba di tutti i giorni trovarsi gente come Nathalie Stutzmann a fare da corista…).
Tuttavia è sul piano interpretativo che le sorprese erano maggiori. Il recupero di una prassi esecutiva filologicamente corretta ha comportato ovvie conseguenze anche sull’approccio interpretativo: i drammi cosmici di Furtwengler e Klemperer si sono via via (dai pioneristici tentativi di Harnoncourt e soci alle più moderne soluzioni di compromesso tipo Chailly e Rattle) sfumati ed umanizzati virando verso l’elegia, la meditazione, il raccoglimento. Francamente, ero convinto che Minkowski e i suoi “quattro gatti” non avrebbero potuto che continuare su questa strada. Invece, fin dall’attacco del primo coro, se non fosse stato per il suono indiscutibilmente “moderno”, si sarebbe potuto credere di essere tornati indietro di 50 anni: un senso di tragedia incombente, la voce di un’umanità disperata e senza speranza, cose che non mi capitava più di sentire, in quest’opera, da parecchio tempo. Tutto, del resto, era improntato ad una teatralità fortissima, fatta di contrasti a volte brutali: bastava sentire il modo in cui l’organo che forniva la base armonica per gli interventi dell’evangelista interrompeva con violenza le arie più meditative, quasi a strappare il pubblico da un’oasi di pace per ributtarlo nel gorgo della storia. Se dovessi trovare un parallelo figurativo, non potrei che ricorrere a Caravaggio: tutto era un continuo alternarsi di squarci di luce e momenti di tenebra fittissima. Anche il coro finale, che la moderna prassi esecutiva aveva condotto verso una specie di ninna-nanna in cui già si percepisce la certezza della resurrezione, qui suonava come lo sgomento fissare un uomo dentro una tomba, e basta: della speranza di resurrezione, nessuna traccia. Alla fine, si rimaneva non con un’impressione di serenità e fiducia, ma con un senso di smarrimento che non mi capitava di percepire se non ricorrendo alle vecchie incisioni a.h. (avanti Harnoncourt).
Del resto, è proprio questo che mi sorprende sempre in Minkowski e che me lo fa ritenere uno dei più originali e spiazzanti direttori della nostra epoca: la capacità che ha di piegare la ricerca filologica anche più estrema alla necessità di ottenere un fine espressivo diretto ed evidente, si tratti di Handel, Bach o Offenbach. Grandissimo.
Saluti,
Beck