HELSINKI 2012
Ventidue anni...
Dall'ultima volta che ho visto il Pélleas et Melisande.
Era il 1990, quando vidi il mio secondo (e finora ultimo) Pélleas nel bellissimo contesto del Festival di Loches, in Francia, all'ombra di uno dei più celebri e suggestivi castelli della Loira.
Fu uno spettacolo abbastanza "normale" (nel cast, a parte il giovanissimo Bernard Bontoux nella parte di Arkel e la danese Inge Dreisig come Melisande, svettava un giovane baritono che, all'epoca, sembrava una promessa: Gilles Ramade), ma l'unica cosa che mi è rimasta in mente è l'incredibile corrisondenza della musica di Debussy con la brezza estiva e notturna di quei boschi e la suggestione dell'antico castello.
L'anno prima avevo visto il Pélleas a Firenze, in uno degli spettacoli più belli, assolutamente, sconfinatamente belli della mia vita.
Dirigeva il giovanissimo Esa Pekka Salonen, allora trentaduenne.
Io non l'avevo mai sentito nominare, ma ebbi allora la sensazione di un tipo di direttore che corrispondeva esattamente a quello che cercavo e non trovavo.
Fatto sta che decisi di memorizzare quel difficile nome... che poi sarebbe diventato popolarissimo.
Nel cast cantavano Ileana Cotrubas (nell'unico caso in cui la sentii dal vivo), Victor Braun (che mi fece un impressione stupenda in Golaud), la giovane Stutzman, e il vecchio Arkel (per me storico) di Paolo Washington, che conoscevo per tanti dischi di venti-trent'anni prima.
Purtroppo a ridosso di entrambi gli spettacoli mi erano capitate spiacevoli disavventure, tanto che avevo deciso che l'opera - nonostante il grande fascino - mi portasse sfortuna!
E pertanto avrei rinunciato al Pelleas.
Di solito non sono tipo da tener fede ai miei propositi: in questo caso, stranamente, ci sono riuscito.
Per ventidue anni non ho più nè ascoltato, nè visto un Pelleas: ero arrivato persino al punto di non nominarlo!
I miei amici, dovendo far riferimento all'opera, si erano abituati a dire "quell'opera" oppure "il capolavoro di Debussy"...
Pochi giorni fa ho vinto le mie reticenze. E nello splendido teatro di Helsinki ho potuto misurare quanto mi fosse mancata - per tutto questo tempo - quella musica incantatoria, quella drammaturgia evanescente, quelle atmosfere da fiaba medievale, il paradiso sonoro di "Mes long cheveux".
E dire che non si è trattato di una recita sensazionale: onesta, interessante, ma tutto sommato normale.
Il trionfatore è stato il direttore: Mikko Frank.
Questo esserino ridicolo di 33 anni, che io conoscevo appena per nome, è il direttore artistico del teatro di Helsinki.
La sua impresentabilità fisica smentisce chi ritiene che oggi l'aspetto sia più importante della sostanza artistica: è tappo, grasso e con la faccia caricaturale.
Eppure vi assicuro che è un direttore strabiliante, di cui vi consiglio di ricordare il nome.
Come tutti i direttori finlandesi (anche il succitato Salonen) e baltici, Frank ha una vocazione particolare per trasformare le trasparenze orchestrali in cangianti atmosfere sonore da climi nordici e mezze-tinte marine.
Il controllo sugli equilibri orchestrali (e non stiamo parlando di un'orchestra grandiosa) è completo.
Con grande senso architettonico Frank domina tanto il prevalente sussurro dei primi atti quanto l'esplosione emotiva del quarto e quinto, il tutto con un controllo ritmico cristallino.
Nel complesso, una delle direzioni più felici ed emozionanti che abbia sentito quest'anno.
E un nome da tenere a mente...
Molto meno interessante (e c'era da aspettarselo) lo spettacolo nuovo di Marco Arturo Marelli.
Speravo che almeno (essendo un buono scenografo) evitasse di fingersi regista, di tentare nuove avventure interpretative, e si limitasse a rappresentare il suggestivo maniero affacciato sull'oceano, disperso nei boschi e nella Storia, evocato da Maeterlink.
Niente di tutto questo, ovviamente.
Marelli deve dimostrare di essere ...un vero regista anche lui, e così colloca la vicenda in epoca bellica, come se i protagonisti fossero resistenti parigini rifugiatisi in un grosso magazzino affacciato sul mare, quindi con acqua onnipresente, barche e fucili nascosti.
Naturalmente poi tutto finisce lì...
Un po' come tanti registucoli nostrani, che pensano che "ricontestualizzare" significhi commissionare una scenografia e basta.
Per il resto lo spettacolo si svolgeva con eleganza, discreta capacità narrativa, nessuna caduta di gusto, ma pochissime idee e un senso di noia che (con interpreti tanto espressivi e una direzione così evocativa e struggente) si sarebbe potuto facilmente evitare.
Unica idea carina e originale si è avuta al finale.
Quando, al cappezzale di Melisande, entrano le "servitrici", qui in realtà entravano sei donne,con fare minaccioso e vestite in modo che per nulla evocava delle serve. Queste donne si avvicinavano, guadando l'acqua della scena, alla barca in cui Melisande era deposta come su una bara.
Quindi hanno cominciato a trascinare e spingere la barca sull'acqua e a portarsela via, mentre Melisande si alzava in piedi come a un estremo commiato.
L'immagine era molto bella... ma il significato non l'avevo capito subito.
Me l'ha spiegato un'amica e socia Wanderer (Debora) che è diventata una raffinatissima esegeta di regie!
Debora era con noi, l'anno scorso, a Barcellona per vedere "Ariane et Barbe-Bleu" di Dukas, con la regia di Guth, e su libretto dello stesso Maeterlink.
Fra le mogli che Barbablu teneva segregate nel proprio palazzo, ce n'è una dal nome familiare... Mélisande.
Ariane, l'ultima coraggiosa e meravigliosa moglie, fa di tutto per liberarle, ma quando loro si trovano spalancata la porta della libertà, e Ariane le implora di fuggire (La lune et les étoiles éclairent toutes les routes. La forêt et la mer nous appellent de loin et l'aurore se penche aux voûtes de l'azur, pour nous montrer un monde inondé d'espérance) le donne scelgono di restare col loro aguzzino, perché in fondo hanno tanto bisogno di lui, quanto lui di loro...
Dato che Ariane è stata scritta dopo Pélleas, è chiaro che - dal punto di vista della storia di Melisande - non può che trattarsi di un "prequel".
Le donne che appaiono alla morte di Melisande, nello spettacolo di Marelli, e ne conducono via la barca, non sono quindi altro che le ...altre mogli, che vengono a riprendersela, e a riportarla nel luogo che le spetta!
Molto suggestivo...
Veniamo al cast, un cast da grandi occasioni (come si conviene a una nuova produzione).
Due veterani e un grande debutto!
Tra i veterani, sia la Kirchschlager, sia Le Roux hanno lievemente superato il periodo d'oro dei loro Melisande e Golaud.
Entrambi sono bravissimi, a tratti toccanti. Le Roux poi riesce a unire in modo estremamente singolare una fragilità a tratti persino effeminata con eruzioni rabbiose e sconcertanti.
Qualche piccola tensione vocale compromette talvolta la perfezione delle loro interpretazioni.
Nella mia recita, ahimé, non cantava in Genevieve una delle dive locali: Lilli Paasikivi (che credo ora sia divenuta anche responsabile casting del teatro).
In compenso Sari Nordqvist, che non avevo mai sentito nominare, ha esibito vocalità solida e valida presenza scenica.
Un plauso particolare all'Arkel di Jyrki Korhonen, che si conferma, nonostante gli anni, uno dei grandi bassi nordici del presente.
Tengo per ultimo il caso del Pelleas di Topi Lehtipuu, che ascoltavo dal vivo per la quarta volta (dopo i Troyens a Parigi con Gardiner, la Matthaus-Passion con Rattle e il Così fan tutte di Guth a Salisburgo).
Lehtipuu è una delle "star" di oggi, oltre che la star della Finlandia.
Tenore raffinatissimo e seducente, erede diretto del "colorismo inglese" (ci si potrebbe aspettare da lui qualche magnifico britten), musicista intellettuale ma anche attore-mattatore sensazionale, Lethipuu è diventato uno dei più richiesti cantanti di Barocco, un liederista dall'espressività moderna, sussurrata, interiorizzata.
In teoria semplicemente perfetto per Pelleas.
E infatti, se dovessimo giudicare la sua prestazione solo dal punto di vista visivo, dovremmo considerarlo uno dei migliori Pelleas della storia.
Una recitazione così esplosiva, fantasiosa, dinamica, moderna non si vede tutti i giorni.
Si può persino dire che ha tenuto (come attore) sulle spalle tutto lo spettacolo.
Peccato che... non si sentisse!
Io non capisco bene cosa possa essere successo, infatti nella vastissima cavea della Grossesfestspielhaus si sentiva benissimo, così come allo Chatelet.
Che stesse male?
Che fosse sfavorito dalla scenografia aperta e della discutibile acustica del teatro? (però gli altri cantanti si sentivano...)
Che fosse a disagio con la tessitura baritonale del ruolo?
Non so... il fatto è che l'arte vocale di Lethipuu l'avrò colta sì e no per pochi minuti in tutta l'opera, quando cioè l'orchestra taceva o lui cantava al proscenio.
In queste condizioni sono costretto a manifestare una certa delusione: mi riservo di aggiornare il giudizio quando, fra pochi mesi, risentirò Lethipuu al Palais Garnier, quale protagonista della prima e più incredibile opera di Rameau: Hippolyte et Aricie.
Salutoni,
Mat