Molto semplice. La trasperenza assoluta delle voci interne del tessuto orchestrale. Cosa che, per esempio, non era l'obiettivo primario di direttori come Knappertsbusch, che io per altro ammiro molto, o Furtwaengler. E che è invece un obiettivo fondamentale per direttori come Karajan, Abbado, Boulez e, appunto, Thielemann, pur con tutte le ovvie differenze tra di loro. E forse non è un caso che la lettera firmata da un gruppo di importanti musicisti in favore della permanenza di Thielemann a Monaco, in occasione della crisi diventata poi definitiva fra il direttore e la sua orchestra dei Muenchener Philharmoniker, mostrasse fra i suoi firmatari, a sorpresa di molti ma non di chi Thielemann lo conosceva bene, Pierre Boulez. Marco Ninci
Ninci ha scritto:E forse non è un caso che la lettera firmata da un gruppo di importanti musicisti in favore della permanenza di Thielemann a Monaco, in occasione della crisi diventata poi definitiva fra il direttore e la sua orchestra dei Muenchener Philharmoniker, mostrasse fra i suoi firmatari, a sorpresa di molti ma non di chi Thielemann lo conosceva bene, Pierre Boulez. Marco Ninci
Scusa Ninci! Fammi capire... Quindi il fatto che Boulez abbia firmato una lettera a favore di Thielemann significherebbe che tecnicamente sono imparentati? C'è qualcosa che non mi torna! Allora, stante la reciproca e spesso attestata stima fra loro, Muti e Sinopoli dirigevano allo stesso modo? DAvvero credimi Ninci! Abbado e Boulez sono agli antipodi da Thielemann. E questo non vuol dire che siano migliori o peggiori, ma certamente agli antipodi. Salutoni, Mat
PS: per Herny... Per trovare un mio giudizio sul direttore "da guerre stellari" in Strauss, ti rimando a quanto scrissi sulla Frau ohne Schatten da Saliburgo!
MatMarazzi ha scritto:Che sono 'ste civetterie? Tu a teatro ci vai sempre e non è affatto vero che sei molto buono! Amo pensare che tu lo sia stato in questa occasione, tanto per soddisfare i miei pregiudizi su scelte scriteriate (Magee), tradizionalmente assurde (Botha), periferiche (Pankratova) e facilone (Strukmann)!
Maledetto...civetterie?
Ricapitolando: quello che ho scritto io non si discosta molto da quanto scritto da Beck e Maugham, anzi, mi pare abbastanza coincidente. Le differenze di gradazione mi pare dipendano da due cose: aspettative e metro di valutazione. Se Maugham mi paragona quello che s'è sentito con quello che la sua idea di Frau oggi, beh, il giochino si rompe. Se Beck si aspettava il meglio sulla piazza, il giochino si rompe uguale, innegabilmente.
Io mi aspettavo nulla, forse meno di nulla. Stiamo parlando della SCALA nel 2012 a metà febbraio alle prese con un'opera praticamente ineseguibile, che richiede almeno 5 fuoriclasse (più il direttore).
Invece sono uscito dal teatro felicissimo e mi sono divertito tantissimo. E questa per me è di gran lunga la cosa più importante, che mi pare abbiano condiviso anche gli altri due.
La Magee è la Magee, non è diventata qualcun'altra. Però mi aspettavo molto di meno...rispetto ad altre volte si è impegnata a dar senso a quello che faceva ed è arrivata alla fine bene, tra l'altro restando sul palco praticamente tutta la serata. La Pankratova non la conoscevo, e, tutto sommato (visto che non c'era l'Herlitzius ) ha portato a casa la pagnotta, non ci ha deliziato con chissà che interpretazione rivoluzionaria (anzi), pertinenza tecnica, finezze varie, ma io mi sono accontentato di sentire una voce della madonna. Botha...uguale. E' un signor cantante, la cui interpretazione magari non passerà agli annali, ma chissene.
E' ovvio che tutto questo non sarebbe bastato, se non ci fosse stato un direttore così. Io non ricordo molte direzioni più esaltanti. Ci fosse stato il previsto Bychkov, chissà...avrei scritto cose diverse.
Comunque, a parte le sfumature, mi pare che qui abbiamo scritto tutti la stessa cosa. Condivido molto quanto ha scritto Beck sull'opera in sè. Riflettevo che in questi ultimi mesi ho visto due regie meravigliose: Don Giovanni di Aix (in DVD) e Don Giovanni di Carsen. Forse non è un caso
Un appunto: possibile che dopo aver messo insieme un cast così, si inciampi clamorosamente sul falco?
Certo che sono agli antipodi. Ma convergono nel fatto di essere molto attenti alla trasparenza del tessuto orchestrale. Tutto qui. Il fatto della lettera è solo una possibile indicazione, nulla di più. Ma neppure nulla di meno. E questo l'avevo già detto. Il fatto poi che Thielemann, diversamente da quanto si crede, mostri una forte dipendenza dalla lezione di Karajan non fa che accrescere forza al mio argomento. Marco Ninci
Alberich ha scritto:Io mi aspettavo nulla, forse meno di nulla. Stiamo parlando della SCALA nel 2012 a metà febbraio alle prese con un'opera praticamente ineseguibile, che richiede almeno 5 fuoriclasse (più il direttore).
Be', ineseguibile mi sembra una parola grossa. La Frau è ormai repertorio e negli ultimi anni la si è vista (relativamente, lo ammetto) abbastanza spesso. E' ineseguibile se la si allestisce -come avviene nove volte su dieci- senza criterio. Dai l'Imperatrice a un soprano drammatico, il Kaiser a un tenore wagneriano, la Nutrice a contraltoni stomacali tipo la Soffel, la moglie di Barak a sopranoni-oni-oni dal declamato a mitraglia e Barak a Olandesi e Sachs sul viale del tramonto. Allora certo, tutto diventa difficile. Ineseguibile. Guarda che mettere la Magee in quella parte è un errore di cast clamoroso quanto mettere Florez a fare Siegmund. E' che ormai siamo assuefatti a sentire voci sbagliate in ruoli sbagliati; e allora diamo la colpa al ruolo killer. Per la Varady e la Rysanek l?imperatrice era un ruolo perfettamente affrontabile. Tosto, d'accordo, ma non inaffrontabile.
Invece sono uscito dal teatro felicissimo e mi sono divertito tantissimo. E questa per me è di gran lunga la cosa più importante, che mi pare abbiano condiviso anche gli altri due.
Siamo d'accordo. Anch'io; la felicità e il divertimento però non escludono che possa criticare quello che mi rende felice e mi diverte. Ho visto recentemente una Turandot a Bologna. Ti dirò, mi sono più divertito quella sera (forse ero meno stanco) che ai Racconti di Carsen alla Scala. Però questo non toglie che gli spettacoli siano imparagonabili.
La Pankratova non la conoscevo, e, tutto sommato (visto che non c'era l'Herlitzius ) ha portato a casa la pagnotta, non ci ha deliziato con chissà che interpretazione rivoluzionaria (anzi), pertinenza tecnica, finezze varie, ma io mi sono accontentato di sentire una voce della madonna.
E' vero, a volte le dimensioni contano...
Botha...uguale. E' un signor cantante, la cui interpretazione magari non passerà agli annali, ma chissene.
A me invece chissene molto. Anche la Fleming è una "signora cantante" eppure abbiamo discusso a lungo della sua Marescialla. Se fosse come dici tu non avrebbe nemmeno senso discutere su qualcosa... perchè, tanto, chissene...
Un appunto: possibile che dopo aver messo insieme un cast così, si inciampi clamorosamente sul falco?
Infatti. L'unica cosa che si chiede al falco è che sia un prodigio di ritmica. Basta. E dal momento che -così mi hanno detto- è stata "fuori" tutte le sere deduco che anche questo sia una scelta fatta a tentoni....
Ciao WSM
Mae West: We're intellectual opposites. Ivan: What do you mean? Mae West: I'm intellectual and you are the opposite.
Nello spettacolo di Claus Guth vi sono molti animali cornuti. Potrebbero anche essere una simbolica riproduzione in palcoscenico della piccola colonia di capre che popola le prime del Teatro alla Scala e che, alla prima di questa Donna Senz’Ombra (di cui ho assistito alla replica di ieri sera) aveva “buato” proprio la vera eccellenza di questa produzione: la messa in scena dello stesso Guth. Che è intelligente, “nella musica” istante per istante, assolutamente coerente nella trasposizione in chiave “psicanalitica” della fiaba (che ci sta tutta), tecnicamente splendida nell’uso delle luci e dei (parchi) colori. Si può, al più, rilevare una certa esasperazione “didascalica” nel voler spiegare tutto, “dire” tutto (vedasi, per l’appunto, un certo eccesso di animali cornuti, o la discutibile “visibilità” concessa a Keikobad). Ma siamo su un piano di assoluta intelligenza e stimolantissima lettura del testo. Certo non è uno spettacolo per capre. La compagnia di canto vede tre ottimi elementi: Michaela Schuster, autorevole nutrice, e la coppia Barak, Falk Struckmann e la formidabile Elena Pankratova (ma tutti i “famigliari” del tintore sono efficacissimi). Un gradino sotto l’imperatrice di Elena Magee: a freddo, nel primo atto, tende a stonare. Poi si assesta su una prova di buona intensità con una certa, persistente, tendenza all’urlo. Botha (imperatore) è inguardabile, accettabile vocalmente pur con timbro talora belante.
Imbarazzante (e purtroppo non è la prima volta, ultimamente) l’attuale condizione di quel che era un punto di forza del Teatro alla Scala: il coro. Impreciso, sciatto, le voci femminili stranamente “ballanti” (anche questo verificato più volte, ultimamente). Non potendosi ascrivere il problema all’ottimo Casoni, che c’era prima e c’era adesso, verrebbe da pensare che il tutto abbia a che fare con problematiche extra-musicali. Ma siamo alle solite. Come un’orchestra è lì per suonare, un coro è lì per cantare…
Marc Albrecht ha l’indubbio merito di porre la musica in perfetta sintonia con l’allestimento. Il blanc-et-noir dell’orchestra, il fraseggio asciutto, la scansione spietata rispondono perfettamente allo spettacolo di Guth. Sicchè si ha la sensazione di un lodevole “tutt’uno” fra scena e musica. Peraltro, non è del tutto chiaro se il blanc-et-noir sia proprio una scelta, o un limite: l’orchestra di Albrecht non ha un colore al di fuori del bianco e del nero e di un certo grigiastro che ne è la fusione. Il suono è quasi perennemente aspro e vetroso. Albrecht appare, qui, fondamentalmente, un uomo d’ordine, non il miracolo che una insistita claque (era stata segnalata alla prima, c’è ancora) posizionata in galleria, più gli orchestrali che battono i piedini con gioia, vorrebbero far passare come tale. Fra l’altro, la conduzione dei cantanti e delle scene d’assieme non è altrettanto ordinata che quella della “linea” orchestrale. C’è un momento felicissimo nel primo atto (la discesa in terra) ma i grandi “assieme” nel second’atto nel finale, a parte la veemenza sonora che può fare “effetto” sul pubblico, sono piuttosto confusi. Vorremmo risentirlo altrove: qui appare un buon direttore (fra quanti passati da queste parti di recente, diciamo un gradino sopra un Letonja, due bei gradini sotto un Philip Jordan:il Cavaliere “di” Jordan era ben altro Strauss, ben altro interprete, ben altro suono, ben altri colori!). Albrecht ha un gesto pulito e un “modo” gradevole. Chi si accontenta, gode…
Vorremmo riserntirlo altrove, e con un’altra orchestra. Perché, pur essendo uomo d’ordine, non riesce a governare il fracasso di un’orchestra come al solito divista in fette e tronconi. Ci sono gli archi e (con il limite, qui, di una persistente “vetrosità”, forse voluta forse no) lavorano bene. Ci sono, ottime, percussioni e arpe. Ho dubbi (anche qui: è voluto?) sul suono aspro dei legni in questa Donna. Non c’è amalgama complessivo, è l’orchestra consegnata da un direttore (più o meno) stabile che l’ha lasciata “a fette”, è come se i vari reparti si sovrapponessero. Molto di questo è dovuto agli ottoni. Quel che alla replica di ieri sera, nel secondo atto soprattutto, si è ascoltato in particolare dai corni, è improponibile in un teatro che aspiri all’eccellenza (ammesso che vi aspiri). Mentre ascoltavo alcuni momenti di baccano scaligero, mi è tornata, improvvisamente, alla mente, la scena della “rissa” dei recenti Maestri Cantori dell’Opera Zurigo, nella favolosa esecuzione dell’orchestra locale sotto la bacchetta di Daniele Gatti. E ho capito una volta di più che, in musica – come nello sport e in tutte le cose della vita – esiste la serie A (Zurigo, in questo caso), la B…. e anche la C e la D!
Maugham ha scritto:A me invece chissene molto. Anche la Fleming è una "signora cantante" eppure abbiamo discusso a lungo della sua Marescialla. Se fosse come dici tu non avrebbe nemmeno senso discutere su qualcosa... perchè, tanto, chissene...
Caro mio, guarda che mi difendevo solo dall'accusa di essere una civettuola Si può parlare di tutto, solo mi premeva sottolineare che quando vado a teatro non mi aspetto il meglio che ci sia al mondo secondo i miei criteri e valuto lo spettacolo di conseguenza. Questo, per essere una routine di metà febbraio, non è stato niente male...
Stavo rileggendo la serie degli interventi su Thielemann, direttore in realtà meno "classificabile" di quel che si pensi ad un primo ascolto. Vi siete chiesti come mai, l'imprevedibile e - alla carta - "improbabile" incontro con Maurizio Pollini (che in teoria ha pochissimo da spartire con Thielemann) si sia tradotto in una bellissima intesa nell'esecuzione (e magnifica incisione) del Primo Concerto di Brahms? E' come se due personalità che , in teoria, non s'immaginerebbero più differenti tra loro, si siano "venute incontro", dando vita ad un Primo di Brahms che non credo abbia molti riscontri, nella storia dell'esecuzione di questo concerto. Un Pollini liricissimo e un Thielemann che rinuncia alla immagine convenzionale di epigono d'una tradizione. E l'esito è perfettamente compiuto, la "miscela" funziona.
Normalmente, anch'io non amo molto Thielemann (non quello rispondente alla succitata "immagine convenzionale": a quel punto, ascolto Klemperer per un verso, Scherchen per un altro, Furtwangler per un altro ancora... ed è tutta un'altra cosa!). Da quel poco che ho ascoltato della sua recente integrale delle Sinfonie di Beethoven, ne faccio volentieri a meno. Ricordo, dal vivo, una sua Seconda sinfonia di Schumann francamente irritante. Gestualmente mi irrita vieppiù. E senza voler scendere a luoghi comuni sul personaggio, la "poetica" che sembra esprimere nel suo far musica mi lascia almeno perplesso. Però, gli riconosco in più di un'occasione (Parsifal, questo Primo di Brahms, la sua spettacolosa incisione dei Carmina Burana, piacciano o meno) di avermi spiazzato con letture di alto livello
Ho visto anche io la Frau (recita del 24 marzo) e a mia volta devo registrare, con una certa tristezza, un ridimensionamento rispetto alle grandi attese... a proposito di Guth. Intendiamoci: hanno ragione Vizzardelli e Martino nel rilevare che, rispetto agli standard italiani (penso all'ultima depressiva Frau di kokkos a Firenze) questo è uno spettacolo sensazionale. Lo è... Ma perché dobbiamo per forza rifarci agli standard nazionali (che sappiamo essere molto bassi)? Perchè non confrontare questo Guth a quello di altri spettacoli (i Messia, i Don Giovanni, i Tristani, le Ariadne) infinitamente più probanti e riusciti? Quando alcuni anni fa (in sorpendente anticipo su Lissner) invocammo l'arrivo di Guth alla Scala e (ancora più sorprendente) proprio con un titolo hoffmansthal-strauss, speravamo in qualcosa di veramente grandioso, tanto da vincere ogni reticenza del pubblico nostrano. Non credo che questo sia davvero successo!
Vediamo un po'... C'è una tecnica, ormai convenzionale, di registi d'opera che io chiamo "contro-finale". Sarà ormai abusata, ma a me continua a piacere moltissimo. Dato che il termine è inventato da me, sarà meglio che cerchi di spiegarlo... La vicenda di un'opera tende a un certo tipo di finale: allegro, triste, catartico, ecc... Il regista (specie quello che destruttura la vicenda) punta con la stessa forza al finale, ma al momento di rivelarlo... BOOM... ce ne mette un altro, ugualmente potente ma diametralmente opposto a quello che ci aspettiamo! Può essere opposto a livello narrativo, etico, persino ...simbolico, ma in tutti i casi spiazzante! E' un po' l'aprosdoketon registico! Un colpo di scena che non ti sconvolge di per sè, ma perché il pubblico (e il regista lo sa) crede ormai di sapere come l'opera dovrebbe andare a finire, è preparato, conosce la storia: si aspetta una cosa e si ritrova invece infilzato da un colpo di scena che lo lascia con gli occhi sbarrati e l'emozione alle stelle. Al cinema è molto, molto applicato da decennni: pensate a Shutter Island, Slevin, The Others, ma anche Baby Jane e qualsiasi altro. Certo... al cinema è più facile (e anche in letteratura) perché lì la storia te la costruisci tu! Ma scatenare un controfinale in un'opera, su una storia già scritta e incatenata ai tempi e alle atmosfere della musica, è assai più complesso.
Io amo follemente questa tecnica proprio per questo: perchè, all'opera, rappresenta una fenomenale prova di virtuosismo! Perchè esso funzioni, occorre disporre tutte le pedine al posto giusto fin dal primo atto... occorre portare per mano il pubblico in una storia, sfruttarne le conoscenze pregresse, lasciargli credere di essere sulla strada giusta... e solo alla fine tirare giù il poker! Secondo, perchè in questo modo... anche a noi appassionati d'opera viene concesso il privilegio che ha il lettore di un romanzo o lo spettatore di un film: quello di non sapere come andrà a finire! Non è uno scherzo! Il fatto che conosciamo così bene le opere e che, se non le conosciamo, tutti si affannano a raccontarcele prima... ci toglie il grande piacere della sopresa, dell'essere veramente coinvolti da ciò che sta succedendo. Bene: il contro-finale di un regista in gamba ci offre proprio questa emozione che, solitamente, all'opera ci è negata. E vi assicuro che, per esempio, con Jones... tu non puoi mai immaginare cosa capiterà cinque minuti dopo, anche se conosci l'opera a memoria (ho appena visto la sua Rusalka... ve ne parlerò).
Ci sono esempi di contro-finali registici che, vi assicuro, mi hanno commosso fino alle lacrime. Uno dei più impressionanti fu quello che Pina Bausch si inventò per il Castello di Barbablu di Bartok (diretto da Boulez, anno 1998). Per tutta l'opera avevamo partecipato al disperato tentativo di Judith di violare gli orribili segreti del Duca, di liberare lui e se stessa dalle porte, di far entrare la luce nel castello. E solo alla fine abbiamo capito che, in quella regia, le cose stavano all'opposto; i terribili muri li aveva eretti lei uno per uno.
Un altro caso grandioso di contro-finale me lo offrì Carsen nel 2003 a Parigi, per la prima di Rusalka a Parigi. Nel suo allestimento il finale di morte (Rusalka che torna alle onde, trascinandosi dietro il principe) diventava il più luminoso e giubilante finale di vita... La giovane trovava il coraggio di ...uccidere la bamina che era in lei, quella bambina che non voleva permettere alla donna di nascere, di darsi al suo uomo, di sacrificare i suoi sogni e affetti infantili all'ancestrale, sanguinoso e sublime rituale del sesso. Invece di morire nelle acque, la Fleming e Larin si abbracciavano finalmente nel letto della loro luna di miele; un uomo e una donna padroni dei loro sentimenti. E la voce disperata dello Spirito del Lago (in questa regia il padre di lei) che dovrebbe chiudere l'opera? Con Carsen era l'ultimo richiamo dell'infanzia, che lei zittisce chiudendo la porta della stanza!
Ma il più choccante, grandioso contro-finale della mia vita è dovuto a Bondy, che quando è in forma è davvero un genio. L'opera era il Giro di Vite di Britten a Aix (ben diretto, per altro, da Harding e con una fantasmagorica Delunsch). L'istitutrice sta lottando per liberare il bambino Miles dallo spettro immondo che lo perseguita: quel Peter Quint, giardiniere, morto l'anno prima, che - prima di morire - aveva insozzato l'anima candida del bambino con la sua volgarità, la sua fisicità sordida e che (così pare) continua a insozzarlo apparendogli dopo morto. Tutti sappiamo che James (ma anche Britten) hanno lasciato nel dubbio il significato del fantasma, facendoci intuire (anzi nel caso di Britten in modo inequivocabile) che esso non esiste: lo spettro di Quint sarebbe il frutto dell'instabilità mentale della governante stessa: lo spettro potrebbe non essere altro (e con Britten ...non è altro) che il parto della sua fantasia repressa, del suo bisogno di attribuire a "qualcos'altro", qualcosa di "esterno" i comportamenti sconvenienti del bambino, come se in un bambino non potesse davvero albergare il male. Il moralismo della governante sarebbe talmente patologico, lei avrebbe un tale terrore del "male" da non ammetterebbe che esso fa parte della natura dell'uomo (e quindi anche di Miles) e debba quindi inventarsi mostri da accusare di tutto e da combattere. Tutti ci aspettavamo quindi che Bondy a questo ci portasse: che ci rivelasse quel che già sapevamo... che lo spettro di Peter Quint non fosse altro che un'invenzione della Governante... come tanti registi hanno fatto. Ed è qui che Bondy ci ha preso in contro-piede. Ok... è vero l'Istitutrice si inventa Quint... Ma perché? No... non perché ha paura del male, non perché lo voglia negare... Ma perché il male è lei! Ricordo ancora i brividi lungo la schiena, quando al finale dell'opera (nel terribile duello a tre ..fra lei, il bambino e lo spettro) la Delunsch cominciò a lanciare al piccolo Miles sguardi lascivi, corrotti, ammiccanti, aprendosi il corsetto, liberando i capelli... L'eroina inflessibile e moralistica, quasi vittoriana, che la Delunsch aveva incarnato fino a quel punto, cedeva davanti al mostro che era dentro di lei: il fantasma, più reale che mai, della pedofilia, che lei reprimeva e negava (solo al finale l'abbiamo capito) dandogli un nome: Peter Quint. Di rado ho trovato tanto sconvolgente un contro-finale operistico.
Torniamo a Guth. Da lui un contro-finale proprio non me l'aspettavo. Di solito non è tipo per queste tecniche, come in genere non lo sono i tedeschi: loro sono espositivi, didattici, rigidi come legno... A loro interessa esporre i loro Konzept, senza "abbassarsi" a questi espedienti da cinematografia americana! A loro non interessa che il pubblico si diverta e si emozioni! L'importante è che "capisca" le grandi verità che hanno in serbo! E così Guth, che pure è talmente bravo da farci dimenticare spesso le sue origini tedesche, di solti progredisce nella riscrittura narrativa e poetica con pacatezza, linearità da saggista, senza coup de theatre e senza ribaltamenti. Eppure, questa volta, ci ha provato. Il terzo atto della sua Frau mi ha messo di fronte a uno dei più imprevedibili e devo dire impressionanti contro-finali mai visti a teatro.
Come un esperto contro-finalista Guth ci ha imbrogliati per bene. Ci ha condotti (con molta abilità) a credere a una storia. E questa storia l'ha talmente ben raccontata che tutti (come dice Maugham) l'hanno capita benissimo! Persino il pubblico scaligero che (come dice Vizzardelli) non è avezzo a stramberie registice... Persino la Moreni (la cattiveria, che pure sottoscrivo, non è mia, ma sempre di Maugham)! Tutto era ben raccontato, chiaro, perfettamente intellegibile...
In pratica c'è una donna malata, mentalmente malata, delirante in un letto d'ospedale. Prima che inizi la musica (negli attimi di silenzio che precedono l'esplosione del tema di Keikobad) lei è a letto, circondata da un marito affranto, un medico e un'infermiera. Questo è l'unico momento dell'opera in cui vediamo la realtà così com'è. Ma appena inizia la musica, con un fulmineo cambio di luce, i personaggi reali spariscono, e lei (la pazza) ci trascina nella sua realtà distorta, onirica e delirante. I personaggi "reali" vengono deformati dalla sua mente e ci vengono presentati non come sono, ma come lei li rielabora. Il medico (Geisterbote) ricompare con ali mefistofeliche sulla tunica bianca. idem per l'infermiera. Il marito riappare ma ora assai meno "borghese", armato di una lancia dal significato ben chiaro. Vi sono poi anche personaggi "immaginari", non corrispondenti a quelli reali (siamo pur sempre nella testa di una pazza). Il più importante è un uomo anziano, ingobbito dagli anni, appesantito dalla fatica. Si tratta di un personaggio della memoria, tanto che lei non ne ricorda le fatezze. La sua testa è infatti sostituita dalla maschera di animale cornuto: anche questa idea rientra nella logica di Guht di farci capire subito la storia che vuole raccontarci. Infatti tutti sanno che la gazzella è una metafora dell'Imperatrice (il travestimento assunto quando l'Imperatore la conquistò). Ovvio quindi che il gazzellone vecchio (in quanto padre della gazzella) rappresenti il padre della malata! Se Guth avesse rappresentato un normale vecchietto, non sarebbe stato altrettanto evidente che voleva alludere al padre di lei!
Naturalmente nei suoi deliri la Kaiserin mette in scena anceh se stessa! E non solo appare direttamente (la Magee), ma raddoppiata, anzi... triplicata. Infatti, quando in scena è il marito, la Kaiserin si sdoppia: diventa il falcone. Quando agisce il padre, lei diventa gazzella. Ciò è evidente dal fatto che, sia nel caso della gazzella, sia in quello del falco... se anche la testa è coperta dalla maschera , il vestito è comunque femminile, la gonna plissettata, il colore dell'abito è grigio e opalescente come la vestaglia della malata. Insomma (a meno che non vogliamo scandalizzarci come una signora vicino a me, che si chiedeva perché un falco dovesse indossare la gonna e scarpine col tacco) è ovvio che Guth vuole farci capire che questi "animali" sono raffigurazioni che l'imperatrice fa di se stessa: la "se stessa" che combatte per l'amore del marito (il falco) e la se stessa che non vuole staccarsi dal padre (la gazzella). E' proprio questo "sdoppiamento" che ci permetterà di immaginare la radice della sua malattia; ossia il trauma che ha provocato il suo cedimento mentale, la sua fuga dalla realtà.
Alla base di tutto c'è l'incapacità di far convivere il suo duplice ruolo: figlia e moglie. Lo spettro del padre (qui il caprone) sembra infatti invocare l'amore di lei, cerca il suo aiuto, sembra gridare la sua fragilità... eppure la tratta con freddezza, non risponde agli abbracci di lei; insomma non le perdona di averlo abbandonato per l'amore del Kaiser. Il Kaiser, dal canto suo, la vorrebbe strappare alla sua infanzia, al suo essere bambina, ai suoi affetti più antichi e ancestrali. L'uno e l'altro - trascinandone la mente di qua e di là - l'hanno ferita (il falcone esibisce la sua ferita singuinante e così pure la gazzella). E lei non è capace di scegliere: sdoppia l'identità e si rifugia nella sua alienazione.
Il contrasto in lei tra marito e padre (e tra falcone e gazzella) si manifesta con grande chiarezza nel monologo degli incubi del secondo atto. Lei è a letto e osserva con terrore il marito che penetra fra le rocce del settimo monte della Luna (che poi scopriremo essere la zona “mentale” in cui lei potrebbe scegliere se restare bambina o diventare donna). L'altra lei stessa – come falcone – indica la strada al Kaiser: lo spinge a entrare nella zona più segreta della sua mente. La Magee, avvinghiata alle lenzuola del letto, osserva la scena con terrore: non vorrebbe che il marito penetrasse là dentro, come forzando l’inconscio di lei, per costringerla a prendere una decisione. Si chiude gli occhi, vorrebbe non guardare... Ma dietro al suo letto c’è il padre (il caprone) che le prende la testa, gliela tiene ferma e l’obbliga a fissare il marito che va dove non dovrebbe andare... “Guarda bene cosa sta facendo il tuo caro amante! Guarda cosa tenta di fare! Tenta di costringerti a liberarti di me... del tuo mondo... di te stessa”.
Insomma è chiaro che alla base del cedimento della Kaiserin c’è la sua impossibilità a collocare se stessa. Una parte di lei invoca il padre e il mondo di certezze che rischia di perdere (la gazzella, il cui pelo è accarezzato dalle mani del padre); dall’altra c’è la voglia che qualcuno uccida la gazzella (il Kaiser), che le pianti una lancia nella schiena, che la scuoi e ne apra la pelle da cui lei – finalmente donna – potrà uscire. L’ombra con Guth ha un’importanza assai minore che nel libretto. Il suo valore simbolico è quello (molto evidente, date le premesse) di un ritorno della Kaiserin nella realtà. Quando sarà riuscita a lasciarsi alle spalle il mondo irreale di spettri (che lei stessa si è creata), allora sarà di nuovo nel reale, dove le persone vere esistono, proiettano ombra.
Fin qui ero piuttosto irritato... le similitudini con la Rusalka di Carsen erano flagranti. e mi seccava dover spendere dei soldi per una regia vagamente plagiaria... Il fatto è che non avevo capito che Guth mi stava prendendo in giro... stava solo preparando il suo contro-finale col botto!
Torniamo alla regia. Nell’impasse provocato da questa incapacità di scegliere si innesta un altro personaggio, il più bello di tutta la regia. L’infermiera. Nella realtà l’infermiera è la figura più importante per la malata: è donna, quindi non rappresenta la minaccia paterna o maritale. E’ infermiera, quindi le è sempre vicina, pronta ad accorrere al suo letto col sorriso rassicurante. E’ amica, è angelo custode, è quasi una madre. Normale che, nel delirio, essi diventi la sola amica della Kaiserin, colei che può e vuole aiutarla, anche se si presenta con ali da pipistrello e comportamenti da diavolessa, connessi al ruolo “medico” che infatti nella realtà essa ricopre (come il Geisterbote).
Il compito della nutrice è quello di aiutarla, magari evocando un'ipotesi di realtà... una raffigurazione di com'è la vita vera, fuori dalla pazzia, dove la gente esiste davvero. E pertanto – sempre nella testa dell’Imperatrice – ella visualizza una proiezione della sua vita matrimoniale ...una volta che sarà guarita. La moglie di Barak è quindi l’immagine - che l’Imperatrice si inventa – di se stessa nella vita reale (e Guth ce lo fa capire in tutti i modi, facendole vestire in modo identico e facendole muovere in modo speculare). Barak – che non tinge un bel niente, ma in compenso scuoia una gazzella che la Kaiserin stessa gli porge – è suo marito, quando potrà amarlo da donna reale. Il letto della malattia diventa, in questo sogno, il letto matrimoniale.
"Vuoi la vita reale? Fuori dal delirio? Fuori dalla pazzia? Vuoi liberarti dello spettro di tuo padre e amare tuo marito?" Le chiede la nutrice. "Allora prendi il posto del tuo “doppio” immaginario; sostituisciti a lei! entra nel suo matrimonio e strappale l’ombra". Fin qui tutto sembra filare nel verso giusto (la guarigione) ma proprio quando il “doppio” (la moglie di Barak) rinuncia all'ombra e le offre la possibilità di “uscire”, la Kaiserin si ferma. Rifiuta l’ombra. Se ci pensate era prevedibile... Una sogno è un sogno... ma non è così che si guarisce! Non è inventandosi una propria copia e fingere di prendere il suo posto, che ci si può liberare dei propri spettri. L’imperatrice sa che per guarire deve assumersi le sue responsabilità, penetrare nel segreto di sé stessa, fra quelle rocce (il settimo monte della luna) dove stanno le sue più riposte, inconfessabili motivazioni: quel luogo in cui la Nutrice ha paura di spingersi. Solo lì (“Vater bist du’s”) tutto può essere risolto: solo lì la Kaiserin potrà affontare i suoi tormenti e sconfiggere suo padre e il marito insieme. Solo lì dentro - da sola - può sperare di guarire.
Bene. Fin qui è tutto chiaro, sempice e lineare. La storia è perfettamente intellegibile e infatti tutti l’hanno capita. Ora il pubblico – che conosce il libretto - sa che stiamo marciando verso la più positiva delle soluzioni – è pronto all'inevitabile finale: la guarigione dell’Imperatrice! Ci attende la vittoria sul padre (Keikobad, in questo caso il caprone) e l’accettazione del ruolo di donna e dunque la felicità del suo futuro matrimoniale. Ed è qui che Guht piazza il suo spettacolare contro-finale.
L’imperatrice, abbiamo detto, è alla resa dei conti. E' pronta a prendere una decisione... Il Geisterbote (che vi ricordo essere il suo MEDICO) entra con una ...medicina in un bicchiere! Quella sì che è l’acqua della vita! Infatti il significato di una medicina, porta da un medico, è talmente chiaro da non lasciare adito a dubbi. L'atto del bere quella medicina avrebbe indicato la ....volontà di guarire! Ma l’imperatrice rifiuta la medicina, anzi la rovescia in terra...
Poco dopo, quando la musica (nel baccano grandioso che Albrecht scatena in orchestra) dovrebbe descrivere l’apparizione del Kaiser semi-pietrificato, noi vediamo in scena un’apparizione ugualmente sconvolgente. Di lato appare un letto... il suo letto! Il letto della kaiserin malata, prigioniera della sua pazzia. E sul letto c’è lei, un’altra lei... con la sua camicia da notte, ma con la maschera della gazzella. Non ci sono più personificazioni fantastiche, personaggi bizzarri inventati dalla fantasia. Non ci sono più uomini e donne con le ali di pipistrello, mariti con la lancia e padri con le corna... Ora la Kaiserin ha davanti a sè l’unico vero spettro. E anche noi possiamo renderci conto che tutti gli altri (il padre... il marito... le corna... i falchi...) non erano che diversivi. Fino a quel punto Guth ci aveva fatto credere che il problema fossero loro... queste strane, ossessive creature che le ingombravano la mente. Ma la verità è ora davanti ai nostri occhi. L'unico verso spettro per la malata è l'immagine di sè stessa: la consapevolezza della propria pazzia! La sua paura di uscirne e di affacciarsi alla vita! Solo ora capiamo che la sua prigione, la prigione della sua alienazione, è la propria volontà di restare pazza! La propria determinazione a non guarire!
Immenso e spaventoso risuona questa volta il suo “Ich will nicht”. Che vuole dire: “non voglio la medicina! Non voglio rinunciare ai miei caproni, i miei falchi e i miei fantasmi! Non voglio liberarmi del mondo irreale di cui sono prigioniera! Non voglio uscire da questo tunnel d’orrore! Non voglio” ...La Magee si infila a questo punto la maschera della gazzella...
Altro che finale rasserenante e giubilatorio! Altro che salvezza e ricomposizione. E’ la pazza che rifiuta anche solo di tentare di uscire dalla sua pazzia, perché non ha la forza di confrontarsi alla realtà, ne ha troppa paura. L’unica differenza è che ora lei (e noi con lei) ne è consapevole. Ora sa che sarà lei a dettare le condizioni ai propri incubi: l'aver scelto di non guarire la rende padrona dei suoi deliric. Infatti esce vincente da un ridicolo processo in cui convergono tutti i suoi spettri! Il padre si accascia da una parte! I suoi figli non sono altro che “gazzellini” come lei! I personaggi si dispongono infine come su una barca di cui lei è al timone e che lei (come l’ha creata) farà sparire in una finta tempesta. Insomma, è rimasta una povera pazza come era all'inizio, incapace di esistere nella realtà! ...Ma almeno ora nella sua prigione non ha più paura.
Le ultime battute dell’opera sono risolte in maniera bellissima e poeticissima. Torniamo alla realtà e lei è di nuovo nella sua stanza. Vi si muove appunto come una matta, con strani tic, mentre intorno a lei un caleidoscopio di colori ci conferma un rapporto definitivamente straniante con la realtà. A fianco del letto, c'è ormai solo la sua unica e vera amica, l'infermiera, che le rivolge un sorriso dolcissimo, materno. Quel sorriso dice tutto. “Ci abbiamo provato, bambina mia! Abbiamo cercato di farti uscire dal tuo incubo! Abbiamo cercato di portarti di nuovo alla realtà! Non ci siamo riusciti! Non ce l'hai permesso... Ma in tutti i casi, non ti lascio sola”.
Come contro-finale non c’è davvero male. Anzi, un capolavoro del genere. Guth è riuscito a farci vivere una storia, a farcela capire perfettamente e poi a sconvolgerci quando ormai ci pareva di essere arrivati alla fine. E' una di quelle cose che, finora, alla Scala si sono viste di rado... E allora perché non ci ha sedotto (a parte tutto) come altre cose di Guth?
Secondo me le ragioni sono due. Questo allestimento non ha dato al regista la possibilità di sfoderare il suo maggiore asso nella manica, quello con cui di solito strega immediatamente il pubblico: l’enorme fascinazione dei contesti. Nessun regista può, come Guth, creare contesti tanto geniali! La forza del contesto e l’incredibile sagacia con cui riesce a incastrargli dentro una storia, sono la principale ragione del suo successo. Al solo apparire della pineta da spiaggia estiva del Don Giovanni a Salisburgo la battaglia era già vinta. Il pubblico forse non ricorderà quel Don Giovanni per l'anticipazione della morte del personaggio (che pure ne era il perno concettale) ma per il fantastico impatto di una simile contestualizzazione. Idem per il palazzo-albergo (dalle stanze grigie e dalle moquettes sbiadite) in cui si svolge il funerale del Messia! Idem per il bar dell’Ariadne auf Naxos o per la villa "wagneriana" del Tristano. In questa Frau – per forza di cose – il contesto era tutt’altro che affascinante e tutt'altro che originale. Una camera d’ospedale e un mondo di fantasia sono contestualizzazioni viste e stra-viste e, quel che è peggio, tutt'altro che suggestive. Nonostante un dispiego tecnologico da grandi occasioni e una scenografia obbiettivamente impressionante, l’impossibilità di Guth di far leva su un'ambietnazione delle sue (di quelle che ti fanno sentire dentro la storia come mai ti era successo) ha ridotto la voglia del pubblico di seguirlo (come per il Don Giovanni e per il Messiah) nelle sue più complesse riflessioni.
L’altro limite era il cast. Guth non è un direttore di attori paragonabile a un Jones e a un Carsen. Se dispone di fuori-classe allora è capace di scatenarli: senza Guth, Erwin Schrott non avrebbe inventato un Leporello tanto geniale; ma io credo che nemmeno Guth, senza Schrott, avrebbe potuto farlo. Idem per Maltman in Don Giovanni, la Stemme in Isolde, Boesch nel Messia. L’altra sera alla Scala di fuoriclasse non ce n’era nemmeno uno (con l’eccezione della Schuster, non geniale, ok, ma almeno carismatica e in grado di proiettare un personaggio). La Magee (ha ragione Alberich) si è impegnata moltissimo ed è vero che ha cantato meglio qui che in altre occasioni. Rimaneva tuttavia disperatamente inferiore alle esigenze vocali del ruolo e disperatamente povera in termini di carisma. Anche peggio la Pankratova: ora... capisco che, avendo visto dal vivo in questa parte sia la Jones, sia la Herlitzius (le più incredibili Faerberin dai tempi della Borkh) rischio di aspettarmi troppo... eppure mi chiedo come sia possibile che un regista del livello di Guth possa permettere una recitazione tanto dozzinale in un simile ruolo! In Strukmann (abbastanza rovinoso anche vocalmente) non è possibile riconoscere l’interprete affascinante e vigoroso di una quindicina di anni fa. Quanto a Botha... credo che in vita mia non sentirò più un imperatore tanto impresentabile. Musicalmente dilettantesco (il povero Albrecht - quando appariva Botha - si faceva lentissimo e squadrato come a un saggio di terza media e nonostante questo Botha riusciva a smammolare il ritmo), scenicamente degno di un museo degli orrori, vocalmente solido ai centri ma (come volevasi dimostrare) strozzato e ululante sugli acuti... insomma una composizione raccapricciante. Paradossalmente il migliore in campo (esclusa la Schuster) è risultato Youn... che in questi ruoli importanti ma non protagonistici (come nell’Araldo del Lohengrin in cui lo sentii a Bayreuth) fa la sua porca, porchissima figura.
Ehm... direi che ho scritto un po’ tanto... Chiedo scusa a quanti sono arrivati fin qui! E attendo repliche...
Mamma mia, Matteo: non è un commento, è un trattato di tecnica registica. Queste sono cose che si possono trovare proprio solo sul nostro sito, in Italia, e solo quando scrivi tu...
"Dopo morto, tornerò sulla terra come portiere di bordello e non farò entrare nessuno di voi!" (Arturo Toscanini, ai musicisti della NBC Orchestra)
Davvero un testo molto interessante su un'opera che sto a poco a poco conoscendo. Tra l'altro ne ho acquistate 2 edizioni con la Rysanek quale Imperatrice: la prima del '54 e la seconda del '55. Ma sto cercando il libretto bilingue....
Luca ha scritto:Davvero un testo molto interessante su un'opera che sto a poco a poco conoscendo. Tra l'altro ne ho acquistate 2 edizioni con la Rysanek quale Imperatrice: la prima del '54 e la seconda del '55. Ma sto cercando il libretto bilingue....
Alberich ha scritto:Attendo qualche cenno in più sul direttore... Poi ti dico la mia, da civettuola quale sono.
Be' caspita... molto bene direi. Per radio (avevo sentito il primo atto) mi ero fatto un'idea diversa che dal vivo: quella sensazione di "analiticità" di cui parlavamo e che mi era parsa di cogliere per radio, è venuta meno dal vivo. Anzi, la sensazione è stata opposta: di una direzione molto tedesca, molto compatta e anche piuttosto "emotiva" (però i temi - hanno ragione tutti quelli che l'hanno osservato - erano distillati e nettissimi, con un senso geometrico degli equilibri). La tensione narrativa è risultata grandiosa; la qualità del suono (a parte qualche insistito scrocco dei corni) sorprendentissima. A me è parso lui il vero protagonista di questa Frau! Ora attendo la tua (che non sei affatto civettuolo! si stava scherzando).