riapro questo thread perché parlare del Bellini wagnerizzante di Serafin (in altro thread) mi ha fatto venire voglia di insistere su una mia vecchia tesi: quella per cui non è affatto vero che oggi si sarebbe mossi (a differenza del passato) da un esigenza di avvicinamento all'archetipo che eviti le contaminazioni con la contemporeaneità.
Quello che agisce in noi non è affatto l'attrazione al "Modo Giusto"... ma a una specificità di suoni (moderni) che renda conto OGGI delle paticolarità di quella muisca.
Poiché abbiamo capito che le deformazioni in senso romantico non ci aiutano ad amare il repertorio barocco, cerchiamo suoni diversi, nuovi, strani che ce lo rendano più chiaro, più unico, più coinvolgente.
Poi (per darci un tono) possiamo anche ricercare quei suoni nelle prassi antiche, negli strumenti d'epoca, nella ricerca filologica, ma alla fine quello che conta è convincere il pubblico di oggi.
Lo spunto me lo dà proprio il nostro amatissimo Jacobs, direttore nel quale questo sito si è sempre riconosciuto moltissimo: uno dei geni della nostra epoca.
Come sapete, una delle caratteristiche di Jacobs (apoteosi del "famolo strano") è la sua strana tendenza a invertire il rigore ritmico in recitativi e arie.
Praticamente dirige i recitativi (che da sempre sono l'ambito anti-ritmico) con la "battuta alla mano"; e poi - quando si passa alle arie, specie quelle lente - indugia e libera i tempi tanto che alle volte si ha l'impressione di trovarsi di fronte a del free-jazz.
L'effetto è impressionante e direi addirittura balsamico!
Perché uno dei problemi maggiori per il pubblico odierno è proprio l'alternanza meccanica fra recitativi e arie, che spezza la continuità e produce monotonia.
Rendendo più ritmati (e quindi musicali) i recitativi e più fluidi (e quindi meno musicali) le arie, Jacobs crea un'unità e una tensione che rassicura l'ascoltatore: un modo per dirgli di non temere... è finita l'epoca in cui doveva sopportare noiosi recitativi per poi subire altrettante noiose arie...
Quello che ottiene Jacobs è (in questo senso) di avvicinare l'opera barocca a quel disegno di unità drammaturgico-musicale che un certo Wagner avrebbe ottenuto qualche secolino più tardi!
Notevole, eh? Dare del Wagneriano a uno che non si avvicinerebbe a Wagner nemmeno sotto tortura!
In più c'è un'altra cosa da dire.
I recitativi (per come li facciamo normalmente, per come li fa - ad esempio - un Muti) sono "liberi" solo in apparenza.
E' vero che non rispondono al metronomo, però è anche vero che gli interpreti da decenni si sono assestati in un certo "modo" di realizzarli.
Per cui "liberi" non lo sono affatto.
Sono scanditi secondo formule vecchie e stravecchie; sappiamo benissimo dove gli interpeti rallenteranno e dove stringeranno; sappiamo benissimo che andamento avrà una frase... o dove il cembalo potrà inserire un guizzo.
In realtà la presunta "Libertà" dei recitativi è diventata una prigione.
Non so voi ma io detesto il modo di fare i recitativi - specialmente degli italiani (nell'opera buffa) e dei tedeschi (in quella seria).
Ed è per questo che, mentre possiamo stare ore a sentire un attore che recita in un film, dopo tre minuti di recitativo già moriamo di noia.
Bene! Jacobs, forzando alla battuta i recitativi, irrigidendoli nella loro armatura ritmica, costringe i cantanti a uscire dai soliti schemi e a cercare altrove una diversa verità di eloquio. Il risultato (tanto in Mozart, quanto in Cavalli) è esaltante.
Si respira una freschezza e una novità stupefacenti: e si ha persino voglia di ascoltare attentamente quello che i cantanti dicono.
Ok, questo è l'impatto che una scelta così coraggiosa ha sul pubblico di oggi!
Quello che - fino a pochi giorni fa - mi mancava era la giustificazione "teorica" che un simile studioso si sarebbe dato.
Insomma qual'è la base "filologica" di un recitativo a tempo?
Quasi per caso ho sfogliato una sua intervista di sei-sette anni fa.
Ecco cosa dice:
"I miei cantanti devono declamare questi poeti drammatici rispettandone la metrica: essi sono scritti in settenari e endecasillabi, quindi versi (di sette e di otto "piedi")."
E come se non bastasse (quando gli viene chiesto di giustificare la rigidità dei recitativi nelle Nozze) ribadisce:
"E' il libretto a essere versificato in endecasillabi e settenari, io non ci posso fare niente. Mio compito è far cantare quello che è scritto e che troppo spesso ci si dimentica di leggere".
Di fronte a frasi come queste è giusto restare allibiti.
E questo è uno dei più grandi studiosi di letteratura musicale secentesca?
Possibile che non sappia (o finga di non sapere) che l'endecasillabo e il settenario sono i due versi meno rigidi ritmicamente che la letteratura italiano possegga?
E che è proprio per questo che furono scelti per il recitativo?
Non furono scelti quinari o senari o ottonari o decasillabi (tutti versi molto ritmati), bensì endecasillabi e settenari, i quali sfuggono a ogni possibile formula ritmica.
Ed è possibile che Jacobs non sappia che il recitativo, oltre ad aver eletto proprio questi versi, li fa susseguire
senza alcuna concatenazione strofica o rimica PROPRIO per esaltarne la libertà rispetto agli schemi e alle formule della musica?
No, è impossibile....
Io penso che semplicemente faccia il finto tonto...
In lui trionfa (come è giusto) l'interprete, ossia il creatore che usa le partiture del passato per colpire il pubblico del suo tempo.
La filologia gli serve solo nella misura in cui può aiutarlo a scoprire strumenti nuovi e ad affilare le sue armi rivoluzionarie.
Ma quando gli strumenti non ci sono... allora se la inventa.
Salutoni,
Mat