Splendido concerto, lunedì sera alla Scala, di Daniel Harding e Orchestra Filarmonica. Con la piena adesione stilistica dell'ottimo violinista Frank Peter Zimmerman, Harding ha dapprima dipinto il Concerto di Beethoven, tutto giocato sui chiaroscuri, nelle dinamiche, nelle tinte, nell'espressione. Ne ha colto benissimo l'ambiguità di fondo (è giocoso? mah, pare e non pare. E' lirico? Forse, o forse no) che ne costituisce il fascino. Fraseggio mobilissimo, giochi dinamici e continui rimandi fra solista e orchestra hanno costruito un'esecuzione notevolissima (lode particolare al primo fagotto, e ai legni in genere).
E Harding è stato magistrale nella lettura fremente, danzante e lirica, della Sinfonia Dal Nuovo Mondo. Aveva dichiarato di volerne privilegiare il "coté" boemo e così ha fatto: la danza e la malinconia. Anche qui, fraseggio mobilissimo, il colore cristallino che è la "firma" di Harding, e un continuo trascolorare dalla malinconia (memorabili orchestra e direttore nel Largo) ad un'apparente esultanza. "Apparente", come quel finale nel quale la Sinfonia, allorché sembra risolversi nel trionfo della piena orchstra, ripiega improvvisamente su quella nota conclusiva "morente", che Harding ha tenuto lunghissima, nel silenzio totale della sala che (evviva!) ha perfettamente colto l'intenzione, osservando la pausa di silenzio dovuta ad una esecuzione eccezionale.
Un concerto tutto giocato, con grande intelligenza, sul concetto di "ambiguità" espressiva.
Ogni apparizione del direttore inglese (era stato così con Cavalleria e Pagliacci) è, per l'ascoltatore, un esercizio dell'anima e dell'intelletto. In più. il gesto di Harding è fra i più belli , e ... non è un gesto unico: il direttore inglese arriva addirittura a modificare la propria gestualità secondo il fine esperssivo che si prefigge, credo sia dote di pochissimi. L'orchestra ne è visibilmente avvinta, il pubblico anche.
marco vizzardelli