Vorrei condividere con voi alcune riflessioni su questa meravigliosa artista, una delle maggiori di oggi.
Partirei dalla considerazione che ci sono certe carriere che, nello splendore della gioventù, non rivelano le vere potenzialità degli artisti.
E' come se, prima dei quarant'anni, essi avessero accettato non di ...essere qualcuno, ma semplicemente di rispondere nel modo migliore possibile a ciò di cui gli altri (i teatri, i direttori, il pubblico) hanno bisogno in quel momento.
E così accettano di essere inappuntabili e "generici", perfette risposte a "esigenze" di repertorio, continuatori di tradizioni aperte da altri.
A quarant'anni, però, i panni di un'etichetta diventano stretti: voce e aspetto mutano, si appannano.
In quel momento le strade possibili sono due: o accettare una progressiva inadeguatezza alla confortevole etichetta (che prima o poi li farà uscire dal repertorio), oppure gettare via i vestiti tanto a lungo indossati da perfetti modelli e cercare uno stile davvero proprio.
Io vado matto per gli artisti che, sui quaranta, sono capaci di fare la seconda scelta.
I primi segni della ...passata gioventù non sono per loro l'avvisaglia deprimente di un inevitabile calo, ma al contrario l'occasione di una liberazione, la via per raggiungere la loro pienezza umana e artistica.
Questo è ciò che, dal marzo del 2010, è successo alla quarantaduenne Marlis Petersen, uscita da un bozzolo di impeccabilità e professionalità, che le aveva conferito il successo, la stima internazionale, ma non la realizzazione di un progetto d'artista.
Solo ora, dopo la quarantina, la Petersen è divenuta in un paio d'anni una delle artiste più sconcertanti e geniali del già ricco e variegato panorama canoro che in questo fortunatissimo presente si staglia davanti ai nostri occhi.
Tipica "coloratura" tedesca, la Petersen (nata nel 68) era partita da ragazza come una prima della classe.
Bella voce acuta e scintillante (come la sorellina cadetta, Diana Damrau, più giovane di tre anni), facile nei pianissimi, nei sopracuti e nelle agilità.
Raffinata liederista e solista di cantate, messe, passioni e oratori barocchi e classici, la nostra si è distinta (ovviamente) in tutti i ruoli per i quali i tedeschi ricercano voci come la sua, fin dai tempi della Streich e, prima ancora, della Schumann, fino alla Ivogun.
I ruoli di una Schaefer per intendersi e oggi di una Damrau.
Quindi Kostanze, Susanna, Zerbinetta, Sophie, ma anche Adele, Blondchen, Gretel, Gilda e persino Zdenka e Susanna, per finire - più recentemente - in Pamina.
A questo repertorio - essendo in fondo artista dei nostri tempi - la giovane Petersen ha affiancato un'assidua frequentazione del Barocco "filologico", sia pure nella meno estremistica e più accademica variante "tedesca": è infatti preziosa collaboratrice dei Koopman, Pinnock, Rilling e persino di René Jacobs.
Se in questa veste fosse continuata alla svolta dei quarant'anni, difficilmente la sua carriera si sarebbe potuta mantenere a certi livelli ancora per molti anni.
Invece nel 2010 qualcosa si è come chiarito e proprio mentre la sua voce andava acquisendo, a lato dell'antica purezza, certe sonorità più dure, più taglienti...
Col senno di poi, possiamo ritrovare i sintomi della Petersen di oggi nelle sue Lulu giovanili .
All'epoca non ci facemmo caso: è normale che una Coloratura tedesca avesse successo in Lulu.
Ne' ci sorprendemmo troppo che si fosse costruita una fama (a lato dei "soliti ruoli") nelle creazioni contemporanee.
Infatti il primo ruolo che ha creato - Aphrodite nella Phedra di Henze - era piuttosto astratto e accademico, tanto che qualsiasi Kostanze avrebbe potuto affrontarlo.
Quando però, nel 2010 , si sparse la notizia che il grande vecchio dei compositori tedeschi (Aribert Reimann) avrebbe fatto creare a lei - sull'illustre palcoscenico di Vienna- la sua ultima opera dedicata alla Medea di Euripide, credo che tutti rimasero sconcertati.
Chi si sarebbe immaginato che questa discendente della Schaefer, pura, graziosa, cristallina, che ancora quell'anno aveva cantato Pamina e Sophie, potesse prestare fisico e voce alla figlia delle tenebre della Classicità, evocatrice di atavici orrori?
Eppure fu un trionfo sensazionale.
Da quest'opera - oggi in DVD - è uscita la cantante che a più di quarant'anni ci ha finalmente rivelato la sua verità.
Reimann non sarà un compositore geniale come credono i tedeschi, però conosce i segreti della vocalità.
Sa che il canto acuto e virtuoso può anche esprimere delirio, rabbia, satanismo più di quanto possano fare i vocioni .
Già la parte di Regania, nel suo Lear, era stata affidata a una voce acuta e brillante, capace di usare il guizzo atletico, l'intervallo spericolato e il ritmo esplosivo per descrivere furore psichiatrico.
...Proprio come, tanti anni prima, avevano fatto Donizetti e Verdi con le loro folli e disperate eroine.
L'importante è che il canto "virtuoso" e acuto sia mosso, come una sciabola, da un temperamento fortissimo, quello appunto che la Petersen, menade della pazzia contemporanea, ha dimostrato di avere.
Subito dopo, il pubblico del Met ha reagito con incredulità alla sua Ofelia, dapprima deluso del forfait della diva annunciata, poi galvanizzato da un'interprete tellurica.
Con un vero colpo di genio, il Festival di Aix en Provence ha poi interpellato la "nuova" Petersen come Anna del favoloso e scadaloso Don Giovanni di Cerniakov.
Una Donna Anna che, nella ri-narrazione del regista, diventa una quarantenne etilica, sofisticata, instabile e ossigenata.
Graz le offrì quindi l'occasione di riprendere la collaborazione con il regista tedesco Peter Konwitschny, simbolo di tutto ciò che gli avversari delle "regie moderne" detestano, indisponente provocatore, difensore dell'euro-trash più pazzoide e assatanato, ispiratore di furori popolari (secondo me spesso legittimi).
Con lui la Petersen di oggi si è inventata una delle più corrose e violente Violette del nostro tempo.
Se riuscite a sopportare lo strazio del tenore, sentitela nel "Follie, follie"
Pochi mesi fa, Bruxelles le ha affidato il compito di reinventarsi la Regina di Navarra, Margherita di Valois, nella produzione degli Ugonotti diretti da Minkowsky.
Bandito per sempre (nel suo canto tagliente, carico di ardore e sarcasmo) il languore monumentale della Sutherland.
Bandita la sovrana da salotto, dai modi sontuosi e dalle vaghe ironie.
Al loro posto si staglia alla Monnaie l'immagine di una regina folle e grandiosa, che balla da sola alla luce della luna, quasi violenta il povero Raoul e si aggira infine per Parigi, tutta sporca di sangue, fra i cadaveri e le macerie del suo sogno politico.
Una raffigurazione immensa, a cui - come per il Don Giovanni di Aix - ho avuto la fortuna di assistere.
Cosa ci riserva per il futuro la nuova Petersen?
Intanto a Vienna (opportunamente col regista dell'Esorcista...) debutterà nelle tre donne di Hoffmann, a fianco di Kurt Streit.
Io la vedo soprattutto come Giuletta.
Fra i sogni, che speriamo qualcuno raccolga, ci sono quei personaggi tragici sette-ottocenteschi scritti per vocalità acute e virtuose come la sua, ma che (in modo idiota, non mi stanco di ripetrlo) il Novecento ha voluto affidare ai sopranoni corti e pesanti, che non solo ne hanno massacrato la scrittura, ma (quel che è peggio) trasformato la forza in ponderosità, la reattività saettante in gravosità pachidermica.
Mi riferisco, per esempio, a Elettra dell'Idomeno, alla Leonore di Beethoven (lo disse anche Bagnolo), alla Medea di Cherubini (lo disse anche Mattioli) e gli altri pazzeschi ruoli scritti per la Scio; ma io ci metto persino i personaggi verdiani scritti per Barbieri-Nini (Gulnara, I Due Foscari, Macbeth).
Se qualcuno le affidasse questi ruoli, sarebbe finalmente dimostrato che la furia omicida e la follia si possono sprigionare dalla leggerezza e dallo scintillio (con la giusta personalità), ben più che dai decibels.
Se volete un consiglio, tenetela d'occhio.
Salutoni,
Mat