da beckmesser » mar 20 set 2011, 19:03
Chi ha fatto studi universitari sa bene che in ogni materia esiste un testo di riferimento, quello da cui non si può prescindere e a cui spesso si torna, che consente quasi sempre di avere una risposta ai dubbi che ogni tanto sorgono. Bene, se esistesse una facoltà di “regia operistica”, credo che il Trittico di Jones potrebbe essere adottato come “Manuale pratico di drammaturgia operistica applicata” di riferimento. Sembra davvero che, nell’affrontare i tre tasselli, Jones abbia voluto dare un esempio paradigmatico delle tecniche con cui un regista può affrontare un testo operistico e, se io fossi il curatore dell’opera, la suddividerei così:
“PARTE PRIMA – Il Tabarro, o della messinscena.”
Col Tabarro il testo viene preso esattamente per quello che è: nessuna ricontestualizzazione né temporale né drammaturgica, tutto è come deve essere, e lo si capisce fin dall’apertura del sipario. C’è la zatterona di sbieco che arriva al proscenio, accostata da un lato alla sponda che ha un piccolo marciapiede su cui si alzano palazzine con finestre; gli operai in canottiera e bretelle portano i loro bravi sacchi e Michele fissa il tramonto. Anche nel seguito tutto, o quasi, è esattamente come il libretto prescrive che debba essere ma, e qui sta la differenza con quanto si vede spesso, è tutto semplicemente perfetto. Un gioco costante di controscene, movimenti calibrati al millesimo, costante attenzione al più infinitesimo dettaglio e, soprattutto, la capacità di valorizzare al meglio ogni singolo momento. Un solo esempio: il modo con cui, in “È ben altro il mio sogno”, viene usata la botola che attraversa tutta la zattera e che separa i due amanti, concretizzando fisicamente l’impossiblità di toccarsi che invece la musica implicherebbe. Poi, alla fine, arriva la zampata del genio. Il finale è abbastanza problematico, con quel cadavere da tenere nascosto per dieci minuti e poi scodellare da sotto il tabarro. Eppure, è difficile cambiarlo, per i riferimenti del testo e per la situazione. Alla fine del loro duetto, Michele aveva trascinato Giorgetta a terra e aveva avvolti entrambi nel tabarro, stretta dalla quale la donna si era ritratta per ritirarsi in coperta, lasciando il marito coricato e avvolto. Dopo l’omicidio, il cadavere di Luigi cade nella stessa posizione e Michele, sentendo la voce della moglie, lo copre col tabarro e si nasconde. Giorgetta crede che si tratti ancora del marito coricato e instaura un inquietante “terzetto” fra lei, Michele che risponde da nascosto, e il cadavere di Luigi, che Giorgetta crede essere il marito. Quando Michele si mostra, Giorgetta capisce e cerca di fuggire ma, trattenuta, in una lotta che riprende quella di poco prima con Luigi, Michele le guida la mano e la costringe a scoprire il cadavere. Una piccola modifica, ma che consente di ricreare un clima di suspense e tensione che la versione tradizionale ormai ha perso… Grande.
“PARTE SECONDA – Gianni Schicchi, o della ricontestualizzazione temporale.”
Anche nello Schicchi la drammaturgia del testo è mantenuta, ma Jones sposta l’ambientazione temporale ai nostri giorni (o meglio, a qualche decennio fa). Questo consente una varietà ed una naturalezza di movimenti impensabili con costumi medievali e, soprattutto, consente la fusione di tutta una serie di tecniche e linguaggi che rendono la narrazione irresistibile: momenti quasi da musical, tempi comici quasi cinematografici, ecc. Eppure la ricontestualizzazione temporale non è solo un escamotage tecnico: al di là della tecnica narrativa, quei costumi a noi contemporanei (il vestitino di pessimo gusto di Nella, lo scontro fra Schicchi-proletario e Donati-borghesi, ecc.) ci ricordano che, al di là della farsa, quelle piccole personcine mostruose che giocano con un cadavere potremmo essere noi, alle prese con le meschinerie scatenate dalla prospettiva di un po’ di soldi in eredità… Splendido…
“PARTE TERZA – Suor Angelica, o della ricontestualizzazione totale.”
Con l’Angelica si arriva alla tecnica più difficile, roba da quinto anno: l’ambientazione temporale viene anche in questo caso spostata ai nostri giorni e la drammaturgia del testo viene significativamente ripensata. Roba difficile perché, mentre nel caso di semplice ricontestualizzazione temporale quello che si rischia è al massimo qualche anacronismo, qui bisogna che ogni elemento della nuova drammaturgia si armonizzi con il testo (letterario e musicale) dato. Per prima cosa bisogna convincere il pubblico che la nuova ambientazione non è una semplice boutade, ma anzi che fornisce un valore aggiunto. Qui lo si capisce in dieci secondi: all’aprirsi del sipario ci si trova nella corsia di un ospedale. Superata la sorpresa, si guarda meglio e si resta sbigottiti: non è un semplice ospedale, è un reparto pediatrico; i letti sono occupati da bambini. Diavolo di un Jones: la storia di una maternità negata viene ambientata in un ospedale pediatrico; Angelica, con il suo trauma, è stata costretta per sette anni a vivere in mezzo a bambini; si capisce subito che non è una boutade: le implicazioni sono devastanti…
Le prime scene di carattere sono gestite ovviamente benissimo ma, per una volta, non servono solo a fare ambiente, dato che quelle divagazioni servono a portare alla luce un particolare essenziale: tutte le suore si occupano dei bambini (che, incredibile, sono anch’essi caratterizzati uno a uno…), li curano, ci giocano, li accudiscono. Tutte tranne una: Angelica se ne tiene alla larga, pensa solo a preparare medicine. Solo uno dei piccoli malati sembra avere instaurato un rapporto con lei: un bambino biondino, malaticcio, avrà circa 7 anni (guarda un po’…), ma giusto un accenno. Poi arriva la Zia Principessa. Dopo il momento di sollievo causato dal sentire “Il principe Gualtiero vostro padre” e quel che segue in modo semplice e diretto, anziché provenire da insondabili profondità uterine come avviene di solito, si comincia a notare qualcosa di strano: la zia cammina rasente ai muri, si tiene lontana, fugge ad ogni accenno della nipote di avvicinarsi. È lei che ha paura, che teme quella ragazza, che è stata costretta a venire per risolvere la faccenda della donazione. Giuro non l’avevo mai notato, ma in effetti è vero: anche nella musica la Zia Principessa gioca in rimessa, ed è Angelica che intima (“Ispiratevi a questo luogo santo”), accusa (“Sorella di mia madre, voi siete inesorabile”), minaccia (“Un altro istante di questo silenzio e vi dannate per l’eternità”); mentre la Zia balbetta (“Che dite? E che pensate?”), si difende (“Vostra madre invocate quasi contro di me!”), divaga (“Nei silenzi di quei raccoglimenti”)… Davvero, impostata in quest’ottica questa scena assume implicazioni assai più emozionanti che il solito scontro fra la zia-magiafuoco e Angelica-calimero…
Dopo un “Senza mamma” che veramente funge da giro di vite verso il processo di rimozione che si attua nell’ultima scena (e il feeling fra la Jaho e Pappano è formidabile, con un tempo assai spedito e il tintinnare finale di celesta arpa che sembra un carillon impazzito), il finale. Siamo onesti: chi non ha riso almeno una volta nel leggere dell’apparizione della Madonna che porta il bimbo morto alla madre moribonda? Certo, la musica salva molto, ma in teatro resta il problema di come diavolo mettere in scena sta roba… Qui, nella corsia dell’ospedale in penombra, con i bambini e due suore addormentate, Angelica rientra in scena, si siede al suo banchetto, estrae da un flacone una fila di pastiglie, con un contagocce ci versa sopra una goccia di qualcosa (si suppone un veleno) e comincia ad inghiottirle una a una, cantando e muovendosi con fare straniato. Nel momento di lucidità in cui realizza il suo gesto, le sue grida svegliano le due suore, che spaventate cominciano ad entrare ed uscire dalla corsia, ogni volta portando con se altre suore, sempre più spaventate da questa ragazza che urla di suicidio, dannazione e figli morti. Nel montare del parossismo e della confusione (ovviamente finta: tutto è calibrato al millesimo sul crescendo orchestrale) ci si accorge che il bambino biondo malaticcio si è svegliato ed è sceso dal letto. Angelica, vedendolo, ha uno shock e, finalmente libera dalle sue inibizioni e dai suoi sensi di colpa, si lancia ad abbracciarlo. Una delle altre suore, preoccupata probabilmente per il bambino, si getta su di loro e glielo strappa di fra le braccia. Rivivendo quel gesto che già sette anni prima le aveva cambiato la vita (più ancora che per il veleno), Angelica si accascia morta su una sedia di spalle al pubblico, con le braccia spalancate in una specie di abbraccio con qualcosa che le è sempre stato negato.
Grandioso esempio di come una ricontestualizzazione può aiutare (nel pieno rispetto di ogni infinitesimo dettaglio del testo) a scoprire aspetti impensati di un’opera che, finora, mi era sempre sembrata quantomeno problematica…
Dal punto di vista musicale, il cast presentava un’indubbia prevalenza delle donne. La Westborek è di gran lunga la migliore Giorgetta che abbia mai sentito, così come fantastica è la zia Principessa della Larsson, finalmente un vero personaggio e non una distributrice di decibel vocali… La Laho è al limite vocalmente, ma il limite non viene varcato, e certe fragilità vocali contribuiscono finalmente al ritratto di una vera ragazza, la giovinezza essendo un carattere essenziale del personaggio. Fra gli uomini, Antonenko se la cava assai bene, ma personalmente sono un filo allergico ad una voce così morchiosa e ad un approccio così “proclamatorio”… Purtroppo c’erano i buchi di Michele e Schicchi, cui Gallo è vistosamente impari. L’approccio a Miche è interessante e la prima metà fa ben sperare, ma quando la tessitura comincia a farsi tosta i dolori arrivano e, se le note proprio non ci sono, c’è poco da fare… Come Schicchi è vocalmente meglio, ma delude molto come interprete: molto farsesco e sopra le righe, fa il solito Gianni Schicchi, che stride dannatamente con il meccanismo a orologeria di Jones.
A guidare il tutto Pappano, che è diretto che trovo sempre bravissimo ma raramente epocale, che mi sembra sempre pattini un po’ sulla superficie di quel che esegue. In Puccini (e nel Trittico in particolare. Come già la registrazione EMI aveva mostrato) non ce n’è però per nessuno: una lettura stupenda, tesa senza essere sopra le righe, ricchissima di dettagli senza essere calligrafica. Basterebbe il modo con cui stacca il Misterioso in 6/8 di “O luigi! Luigi!” nel Tabarro per laurearlo pucciniano sommo…
Un grande spettacolo, che però va assolutamente visto: una registrazione solo audio direbbe assai poco. Speriamo ne facciano un dvd: sarebbe un delitto se non ne restasse traccia.
Saluti,
Beck
P.S.: sorry per la lenzuolata, ma è uno spettacolo troppo complesso da condensare in poche righe, e anche così temo che ne sia passato ben poco…