Medea (Cherubini)

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Messaggioda pbagnoli » mar 20 set 2011, 17:52

teo.emme ha scritto:
pbagnoli ha scritto:...ha una sua logica drammatica, fila bene, ha anche una storia esecutiva importante...

Però, Pietro, il Don Carlo è opera scientemente diversa dal Don Carlos: ed è stato Verdi a riprenderla e rivederla. Non si può parlare di scelta di retrovia o di errore... Verdi concepì il Don Carlos nel '66, ma il Don Carlo non è un ripiego o una costrizione (anzi, musicalmente è più evoluto e meditato) ed è ESATTAMENTE quello che Verdi concepì nell'82. Uno può preferire la versione che vuole (anche se è dura rinunciare ai tanti miglioramenti della versione in 4 atti), ma non si può dire che una è "autentica" e l'altra è un "ripiego".

Va bene, Teo: infatti ho scritto che ha una logica drammatica e una storia esecutiva importante: ma non è l'opera concepita originariamente da Verdi.
Mettere in scena un Don Carlo è più "semplice" (absit iniuria verbis) che organizzare un Don Carlos originario.
Del primo ne abbiamo e ne abbiamo avuti a centinaia; del secondo, complessivamente pochi.
Il mio "basta" fa riferimento alla necessità di creare per il primo Don Carlos una prassi esecutiva che possa reggere il confronto con quella della seconda.
Oggi abbiamo in mano gli elementi per poterlo fare bene: credo che sia doveroso farlo.
Tu dici dei miglioramenti della versione in 4 atti: a me, invece, mancano - per dire - la prosodia francese, l'atto di Fontainebleau e tante altre cose che nella più spedita versione in 4 atti vengono eliminate.
Ma adesso non voglio menarla con il Don Carlo(s) altrimenti non ce la caviamo più...
"Dopo morto, tornerò sulla terra come portiere di bordello e non farò entrare nessuno di voi!"
(Arturo Toscanini, ai musicisti della NBC Orchestra)
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Messaggioda teo.emme » mar 20 set 2011, 20:59

Non voglio entrare in argomento Don Carlo/Don Carlos (almeno non ora), però quello che mi permetto di contestare è la definizione "versione originale". Sono due opere diverse, scritte a 20 anni di distanza l'una dall'altra. Si potrebbero definire due versioni originali. La revisione in 4 atti (infatti) non si limita a tagliare un po' di materiale, ma Verdi interviene su ogni battuta e su ogni personaggio. Tu davvero rinunceresti al duetto Posa/Filippo (nella sua forma ultima intendo) per la Peregrina o Fontainebleau? E' argomento complesso, ed è legittimo preferire l'una o l'altra, ma non si può (a mio giudizio) ritenere l'una un ripiego rispetto all'altra. Altrimenti, secondo il ragionamento per cui l'ipotetico "originale" sarebbe sempre da preferire (anche quando i cambiamenti sono fortemente voluti dall'autore), bisognerebbe considerare "autentici" il primo Macbeth, la prima Forza, il primo Simone, mentre le versioni riviste sarebbero solo dei ripieghi (o magari la prima Aida, senza "cieli azzurri"). Secondo me non si può fare uno schema rigido di ciò e non si deve confondere il caso di Médée (e dell'inesistente Medea) con le revisioni verdiane o le diverse redazioni del Boris. Sono d'accordo con Rodrigo, il vero arbitrio è mescolare brani da diverse versioni senza mai adottarne una specifica.
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Messaggioda MatMarazzi » ven 21 ott 2011, 14:12

Bene, dato che finalmente ho visto la videoregistrazione della Medée da Bruxelles, vorrei dire le mia, fermo restando che una visione video non è mai uguale a una da teatro.
Pur premettendo che, sul fronte registico, io devo moltissimo al Mattioli (è lui che mi nominò Jones quando ancora non lo conoscevo; è lui che di recente a Parigi mi ha convinto a tenere gli occhi aperti su Cerniakov, di cui - al momento - non avevo capito l'importanza), devo ammettere che sul caso Warlikowski sono questa volta più vicino a Beckmesser.

Dell'inquietante regista polacco, grande intellettuale e regista di prosa recentemente (e forse un po' frettolosamente) convertito all'opera, conservo alcuni ricordi stupendi: in particolare l'Affare Makropulos e il Kroll Roger.
In particolare mi colpirono i contenuti forti... non nuovi, non rivoluzionari (e in questo, sul poco che so, temo che dovrò condividere l'accusa di sessantottismo mossa da Beck... l'humus ideale è ancora quello!), ma sicuramente forti.
Fortissimi erano anche i contenuti dell'Iphigenie en Tauride, sempre a Parigi. Ma lì, essendo opera più complessa in quanto vincolata a strutture musical-drammaturgiche più rigide e schematiche, il risultato mi è parso assai meno probante.
Gestire i flussi narrativi quasi prosastici dell'ultimo Janacek e (in minor misura) di Szymanoski è assai più semplice, per un regista di prosa, che non le articolazioni specifiche della drammaturgia francese. Idem per l'equivalenza immagine - musica su cui la regia MUSICALE deve fondarsi.
Tutto questo è assai più importante dei contenuti, per me.
Come ho detto tante volte, i contenuti non mi bastano, come non mi basta che un regista abbia lauree in filosofia, se poi le immagini che produce non sviluppano con la musica un rapporto necessitante.

Anche questa Medea mi conferma la sensazione di un dislivello vistosissimo, in Warlikovski, fra la potenza delle idee e tutto sommato la fragilità della tecnica.
Nulla di significativo si è visto (in questo senso) tranne il tentativo (non più nuovo, nè particolarmente ben realizzato) di "sfondare" le porte stagne del pezzo chiuso (incipit ed explicit) facendo entrare i personaggi prima che le arie precedenti siano finite, o facendoli uscire subito dopo... o prolungando l'azione alla fine degli atti, dopo che la musica è cessata. Tutto questo già lo faceva Pountney 15 anni fa e con risultati assai più probanti.
In compenso all'interno dei pezzi chiusi nulla vi era che assecondasse l'evoluzione musicale.
Nonostante l'aspetto così forte e rivoluzionario, i personaggi finivano per disporsi cantando in posizioni estremamente classiche, da tipico duetto d'opera.
Gestualità accademica e cliché melodrammatici riducevano per me non solo il forte impatto dell'idea, ma quel che è peggio la tensione emozionale della musica di Cherubini. L'aria di Neris ad esempio (uno dei momenti più patetici della storia dell'opera, da cui un vero regista musicale potrebbe ricavare moltissimo) si risolveva in una noia sorprendente (meglio Kokkos e la Mingardo a Toulose, allora) e così pure i duetti fra Giasone e Medea, benché gli attori in campo fosse dei fuori classe.

La convenzionalità mimica non è stata l'unica prova - ovviamente per me - del disagio di Warlikowski nel concepire sulla musica le proprie immagini.
Altra prova si coglie nell'ossessività iterativa di alcuni movimenti-simboli nel corso di un pezzo chiuso.
Ad esempio... quando al primo atto, Dircé, Jason, Creonte e tutto il coro celebrano l'ipocrita felicità del matrimonio, i due figli di Medea e Giasono esprimono il loro malessere, la loro ostilità. E, provocatoriamente, lanciano per aria aeroplanini di carta.
Bene. L'idea non è male. Solo che, anche in questo caso, durando la scena diversi minuti, questi ossessionanti aeroplanini sono diventati troppi, tanto che al decimo che si vede attraversare il palcoscenico ti cascano le braccia.
Altro esempio: è bella l'idea di presentare Medea al proscenio ubriaca e vacillante, durante il coro nunziale del secondo atto (posto sul fondo); ma è un'idea da regista di prosa. Un regista musicale non può non sapere che... quel coro è troppo ampio, articolato, multiforme per poter tollerare la noiosissima ripetitività di una donna in sottoveste nera che fa l'ubriaca in scena...
La stessa Ouverture presentava una brillante intuizione contenutistica: i figli di Giasone e Medea, vestiti da cerimonia, che guardano - fra disprezzo e sonnolenza - i filmini di un vecchio matrimonio borghese. Ma anche in questo caso la musica dell'Ouverture non è tutta uguale: ha articolazioni, snodi, evoluzioni. I filmini invece erano sempre gli stessi: il concetto - chiaro dopo 1 minuti - diventava noiosamente ossessivo all'ottavo minuto, oltre che del tutto inutile a valorizzare la bellezza e l'intensità della musica (di cui si aspettava la fine con una certa impazienza... solo per veder succedere qualcos'altro).

Questo della semplice ripetitività di un gesto-simbolo finchè la musica... non si decide a finire, è un tipico "errore" dei registi di prosa che incapaci di valorizzare le specifiche esigenze della musica. Sono errori che nemmeno un regista di videoclip pop (senza alcuna laurea in filosofia) commetterebbe mai

Sarà un caso, ma è ovviamente nei momenti in cui la musica si fermava (per lasciare il posto a quei dialoghi liberamente riscritti che tanti dibattiti hanno suscitato) che il genio di Warlikoski si rivelava: la recitazione diventava tesissima, i tempi perfetti, il climax emozionale insostenibile.
Certo... perché quella era prosa... e perché non c'era più tutta quella fastidiosa musica a disturbarci! :)

A livello contenutistico ovviamente chapeau: la destrutturazione narrativa è stata obbiettivamente forte e coerente (e in questo senso rimando all'avvincente narrazione di Mattioli). Il finale, in cui Medea sogna la morte di Dircé e si immagina la disperazione di Giasone di fronte al proprio infanticidio, è emozionantissimo, così come l'uscita di scena della protagonista nel silenzio (mentalmente devastata, eppure altera, fiera, a passi veloci).
E tuttavia, mi spiace, ma io non ammetto che per perseguire un fine drammaturgico - per lodevole che sia - si debbano alterare il testo (i dialoghi) e la musica (l'interpolazione di Paul Anka).
Il regista è padrone assoluto DELLE IMMAGINI... e lo difendo da tutti (compresi i librettisti) nella sua libertà di inventarsi le immagini che vuole, destrutturanti o decontestualizzanti che siano.
E tuttavia non è padrone dei testi e della musica. Neanche se ha una laurea in filosofia! :)
I padroni lì restano i librettisti e i compositori... e siamo padroni anche noi del pubblico, che abbiamo tutto il diritto di ritrovare a Bruxelles o altrove esattamente quel che sappiamo a priori che trovermo: le note di Cherubini (e solo le sue) e le parole di Hoffman (e solo le sue).

Un'ultima considerazione sulla Michael.
Confermo le perplessità, specificando che almeno le mie non sono di ordine vocale (mi ha fatto piacere anzi sentire la cantante in così gran forma), ma esclusivamente tecnico.
La natura declamatoria della sua emissione le permette di issarsi ai livello che conosciamo solo in quei rari momenti (l'incredibile ricitativo finale) in cui la scrittura già prelude alle conquiste del declamato tardo ottocentesco.
In tutto il resto la grande Michael non è capace di sostenere la linea vocalistica su cui la sua parte si fonda. Il ritmo è caotico, l'intonazione spesso dubbia e soprattutto il fraseggio è duro e rigido come legno.
Dentro di me pensavo a che sublime Kundry dobbiamo sentire sperperata in una Medea di impatto grandioso ma musicalmente dilettantesca.

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