Bene, dato che finalmente ho visto la videoregistrazione della Medée da Bruxelles, vorrei dire le mia, fermo restando che una visione video non è mai uguale a una da teatro.
Pur premettendo che, sul fronte registico, io devo moltissimo al Mattioli (è lui che mi nominò Jones quando ancora non lo conoscevo; è lui che di recente a Parigi mi ha convinto a tenere gli occhi aperti su Cerniakov, di cui - al momento - non avevo capito l'importanza), devo ammettere che sul caso Warlikowski sono questa volta più vicino a Beckmesser.
Dell'inquietante regista polacco, grande intellettuale e regista di prosa recentemente (e forse un po' frettolosamente) convertito all'opera, conservo alcuni ricordi stupendi: in particolare l'Affare Makropulos e il Kroll Roger.
In particolare mi colpirono i contenuti forti... non nuovi, non rivoluzionari (e in questo, sul poco che so, temo che dovrò condividere l'accusa di sessantottismo mossa da Beck... l'humus ideale è ancora quello!), ma sicuramente forti.
Fortissimi erano anche i contenuti dell'Iphigenie en Tauride, sempre a Parigi. Ma lì, essendo opera più complessa in quanto vincolata a strutture musical-drammaturgiche più rigide e schematiche, il risultato mi è parso assai meno probante.
Gestire i flussi narrativi quasi prosastici dell'ultimo Janacek e (in minor misura) di Szymanoski è assai più semplice, per un regista di prosa, che non le articolazioni specifiche della drammaturgia francese. Idem per l'equivalenza immagine - musica su cui la regia MUSICALE deve fondarsi.
Tutto questo è assai più importante dei contenuti, per me.
Come ho detto tante volte, i contenuti non mi bastano, come non mi basta che un regista abbia lauree in filosofia, se poi le immagini che produce non sviluppano con la musica un rapporto necessitante.
Anche questa Medea mi conferma la sensazione di un dislivello vistosissimo, in Warlikovski, fra la potenza delle idee e tutto sommato la fragilità della tecnica.
Nulla di significativo si è visto (in questo senso) tranne il tentativo (non più nuovo, nè particolarmente ben realizzato) di "sfondare" le porte stagne del pezzo chiuso (incipit ed explicit) facendo entrare i personaggi prima che le arie precedenti siano finite, o facendoli uscire subito dopo... o prolungando l'azione alla fine degli atti, dopo che la musica è cessata. Tutto questo già lo faceva Pountney 15 anni fa e con risultati assai più probanti.
In compenso all'interno dei pezzi chiusi nulla vi era che assecondasse l'evoluzione musicale.
Nonostante l'aspetto così forte e rivoluzionario, i personaggi finivano per disporsi cantando in posizioni estremamente classiche, da tipico duetto d'opera.
Gestualità accademica e cliché melodrammatici riducevano per me non solo il forte impatto dell'idea, ma quel che è peggio la tensione emozionale della musica di Cherubini. L'aria di Neris ad esempio (uno dei momenti più patetici della storia dell'opera, da cui un vero regista musicale potrebbe ricavare moltissimo) si risolveva in una noia sorprendente (meglio Kokkos e la Mingardo a Toulose, allora) e così pure i duetti fra Giasone e Medea, benché gli attori in campo fosse dei fuori classe.
La convenzionalità mimica non è stata l'unica prova - ovviamente per me - del disagio di Warlikowski nel concepire sulla musica le proprie immagini.
Altra prova si coglie nell'ossessività iterativa di alcuni movimenti-simboli nel corso di un pezzo chiuso.
Ad esempio... quando al primo atto, Dircé, Jason, Creonte e tutto il coro celebrano l'ipocrita felicità del matrimonio, i due figli di Medea e Giasono esprimono il loro malessere, la loro ostilità. E, provocatoriamente, lanciano per aria aeroplanini di carta.
Bene. L'idea non è male. Solo che, anche in questo caso, durando la scena diversi minuti, questi ossessionanti aeroplanini sono diventati troppi, tanto che al decimo che si vede attraversare il palcoscenico ti cascano le braccia.
Altro esempio: è bella l'idea di presentare Medea al proscenio ubriaca e vacillante, durante il coro nunziale del secondo atto (posto sul fondo); ma è un'idea da regista di prosa. Un regista musicale non può non sapere che... quel coro è troppo ampio, articolato, multiforme per poter tollerare la noiosissima ripetitività di una donna in sottoveste nera che fa l'ubriaca in scena...
La stessa Ouverture presentava una brillante intuizione contenutistica: i figli di Giasone e Medea, vestiti da cerimonia, che guardano - fra disprezzo e sonnolenza - i filmini di un vecchio matrimonio borghese. Ma anche in questo caso la musica dell'Ouverture non è tutta uguale: ha articolazioni, snodi, evoluzioni. I filmini invece erano sempre gli stessi: il concetto - chiaro dopo 1 minuti - diventava noiosamente ossessivo all'ottavo minuto, oltre che del tutto inutile a valorizzare la bellezza e l'intensità della musica (di cui si aspettava la fine con una certa impazienza... solo per veder succedere qualcos'altro).
Questo della semplice ripetitività di un gesto-simbolo finchè la musica... non si decide a finire, è un tipico "errore" dei registi di prosa che incapaci di valorizzare le specifiche esigenze della musica. Sono errori che nemmeno un regista di videoclip pop (senza alcuna laurea in filosofia) commetterebbe mai
Sarà un caso, ma è ovviamente nei momenti in cui la musica si fermava (per lasciare il posto a quei dialoghi liberamente riscritti che tanti dibattiti hanno suscitato) che il genio di Warlikoski si rivelava: la recitazione diventava tesissima, i tempi perfetti, il climax emozionale insostenibile.
Certo... perché quella era prosa... e perché non c'era più tutta quella fastidiosa musica a disturbarci!
A livello contenutistico ovviamente chapeau: la destrutturazione narrativa è stata obbiettivamente forte e coerente (e in questo senso rimando all'avvincente narrazione di Mattioli). Il finale, in cui Medea sogna la morte di Dircé e si immagina la disperazione di Giasone di fronte al proprio infanticidio, è emozionantissimo, così come l'uscita di scena della protagonista nel silenzio (mentalmente devastata, eppure altera, fiera, a passi veloci).
E tuttavia, mi spiace, ma io non ammetto che per perseguire un fine drammaturgico - per lodevole che sia - si debbano alterare il testo (i dialoghi) e la musica (l'interpolazione di Paul Anka).
Il regista è padrone assoluto DELLE IMMAGINI... e lo difendo da tutti (compresi i librettisti) nella sua libertà di inventarsi le immagini che vuole, destrutturanti o decontestualizzanti che siano.
E tuttavia non è padrone dei testi e della musica. Neanche se ha una laurea in filosofia!
I padroni lì restano i librettisti e i compositori... e siamo padroni anche noi del pubblico, che abbiamo tutto il diritto di ritrovare a Bruxelles o altrove esattamente quel che sappiamo a priori che trovermo: le note di Cherubini (e solo le sue) e le parole di Hoffman (e solo le sue).
Un'ultima considerazione sulla Michael.
Confermo le perplessità, specificando che almeno le mie non sono di ordine vocale (mi ha fatto piacere anzi sentire la cantante in così gran forma), ma esclusivamente tecnico.
La natura declamatoria della sua emissione le permette di issarsi ai livello che conosciamo solo in quei rari momenti (l'incredibile ricitativo finale) in cui la scrittura già prelude alle conquiste del declamato tardo ottocentesco.
In tutto il resto la grande Michael non è capace di sostenere la linea vocalistica su cui la sua parte si fonda. Il ritmo è caotico, l'intonazione spesso dubbia e soprattutto il fraseggio è duro e rigido come legno.
Dentro di me pensavo a che sublime Kundry dobbiamo sentire sperperata in una Medea di impatto grandioso ma musicalmente dilettantesca.
Scusate la consueta lenzuolata e salutoni,
Mat