Interessantissime tutte le considerazioni emerse.
Direi che tutto quello che avrei voluto dire è già stato detto!

Il chè mi conforta: non sono io che farnetico, ma anche altri la pensano come me.
In realtà quella che proponevo non era un'analisi o profezia sull'opera, ma un'indagine sulla nostra civiltà, sul nostro tempo, su come siamo cambiati e cambieremo.
L'ipotesi sul repertorio "futuro" doveva essere una conseguenza, in quanto i repertori e il modo di affrontarli sono sempre connessi (questa era la premessa) alle ragioni del tempo, alla "Weltanschauung".
Beck e Bagnoli hanno introdotto l'obiezione che spesso, oltre che conseguenza, il repertorio è anche frutto della "contingenza": oggi ci sono certi cantanti, oggi ci sono certe edizioni critiche. E' per questo che si "possono" fare certe opere.
IL Mattioli mi ha tolto la soddisfazione di controbattere a queste obiezioni, scrivendo esattamente quello che avrei risposto io.
Caro Beck: invece di limitarci ad osservare che oggi esistono le edizioni critiche delle opere francesi primo e medio-ottocentesche, chiediamoci perché proprio oggi ci si è dedicati e non, per esempio, trent'anni fa!
Se oggi esistono studi critici su quel repertorio è proprio perché c'è qualcosa che ci spinge verso quel repertorio, fino a pochi decenni fa disprezzato.
E non viceversa...
Ed è la stessa cosa che ci spinge, come avevo detto in passato e come Tuc ha ricordato, a guardare con interesse a un genere (il Musical) che fino a pochi anni fa era considerato un sottoprodotto plebeo da tutti gli appassionati operisti.
Ed è la stessa cosa che, come giustamente ha detto Maugham, ci permette di trovare oggi tanti possibili cast "fantastici" per Massenet (mentre solo quindici anni fa non ne trovavi: in compenso c'erano cast apocalittici per Janacke e Britten).
E' vero che prima che Rubino Profeta scoprisse uno spartito acefalo del Devereux nel 1963 quell'opera era considerata scomparsa e dunque era impossibile eseguirla.
Ma chiediamoci perché un musicologo si sia messo alla ricerca di questo manosritto proprio negli anni '60...
E comunque non mancavano (anche negli anni 30) gli spartiti di Bolena e Poliuto, di Belisario e Sancha di Castilla: eppure negli anni 30 non venivano eseguiti esattamente come non si eseguiva il Devereux.
Scusa se mi ripeto, Beck, ma il concetto è che se ci si orienta su certi studi, certe ricerche filologiche, certi recuperi documentari non è mai per caso, ma perché "nell'aria" c'è qualcosa che spinge gli studiosi verso quel repertorio: un filo rosso, una potenzialità in quel repertorio che può interagire con la nostra epoca.
E questo gli studiosi lo capiscono prima dei teatri: ed è giusto perché prima che il "qualcosa" arrivi a realizzazione ci vuole prima una lunga fase di riflessione...
NOn ha senso dire che oggi eseguiamo Meyerbeer perché ci sono gli studi filologici. Ci sono gli studi filologici, perché inesorabilmente si è sviluppata una consapevolezza delle affinità tra il Grand-Opéra e il nostro mondo culturale ed etico.
Se un repertorio dimenticato comincia a riaffiorare, oppure se un repertorio frequentato comincia a modificare i suoi criteri esecutivi (come è accaduto a Mozart e Wagner - non parliamo di Handel e Janacek - dalla fine degli anni '70) è sempre e solo per il tentativo di cercare verità "nostre" nei capolavori del passato.
Questo vale per noi come per i nostri avi.
Idem per i cantanti (e qui rispondo a Bagnoli): la Gencer, se fosse nata tale e quale vent'anni prima, non avrebbe cantanto Donizetti e non in quel modo.
E se la Gens e la Delunsch fossero nate ai tempi della Gencer non avrebbero cantato Gluck e certamente non in questo modo.
Questo non toglie che, a differenza di quanto dice Mattioli, anche Bagnolo ha una parte di ragione.
La fortuna delle rinascite "storiche" (che abbiamo vissuto lungo tutto il '900) era legata a cantanti "innovativi" già belli pronti per incarnare tali rinascite.
Ma anche per loro vale lo stesso discorso già fatto per filologi e ricercatori.
La domanda è: cosa ha spinto la Gencer, nella sua sperduta Turchia dove le facevano fare Puccini, Mascagni e Menotti, a sviluppare quella particolare tecnica, quel virtuosismo, quell'arte del chiaroscuro, quel gusto della deformità espressiva?
L'esempio della Callas? No certo: la Gencer era già in carriera quando il mito della Callas si impose. La lezione della Arangi? Basta sentire un disco dell'una e dell'altra per misurare l'abisso anche tecnico fra maestra e allieva.
Cosa allora?
Forse il fatto che anche la Gencer, nella sua sperduta Turchia, respirasse lo spirito del tempo?
Facciamo qualche esempio.
La Horne partì negli anni 50 con Wozzeck, Minnie e CArmen Jones. La sua tecnica era già pronta, già formata: eppure nessuno al mondo (e tantomeno lei) avrebbe immaginato che quella tecnica particolarissima avesse in sè le esatte potenzialità per la rivoluzione rossiniana che si sarebbe vissuta negli anni 60-70.
Resta il fatto che quando la Rossini Renaissance partì, lei era già lì: con tutte le carte in regola. Per certi versi ne fu il motore.
Prendiamo l'esempio dei rivoluzionari anni 50.
Quando Wieland cominciò a stravolgere le tradizioni wagneriane (con la Neue Bayreuth del 1951) aveva già sotto mano i cantanti giusti, senza i quali la sua rivoluzione non avrebbe avuto senso: da Greindl alla Moedl, da Windgassen a Vinay.
Negli stessi anni l'Italia rilanciava l'800 (e non fu un caso nemmeno quello) e (ma guarda un po') ecco già lì, belle che pronte, le Callas, le Gencer, le Sutherland.
Le avresti trovate vent'anni prima?
E vent'anni prima avresti trovato delle mozartiane e straussiane eteree e immateriali come la Schwarzkopf e la Seefried, la Della Casa e la Stich Randall? No.
Ma quando ce ne fu bisogno, nella Vienna post-bellica dove si inaugurava il nuovo Mozart, eccole lì, tutte schierate per la rivoluzione.
Perché tutto questo è interessante? Perché tutti gli artisti che ho citato (la Moedl,la Callas, la Sutherland, la Schwarzkopf) erano andate a scuola e avevano forgiato le loro particolari tecniche NON negli anni '50, quando è stato loro richiesto di partecipare alle suddette rivoluzioni, ma anni prima....
Quando loro andavano in conservatorio (prima della guerra) nessuno avrebbe potuto immaginare che in Italia ci sarebbe stata la Donizetti Renaissance, o che a Vienna avrebbero riformato Mozart in senso astratto e anti-romantico, o che Wieland avrebbe disseccato l'epica wagneriana in una trama di umanità ferita e luci senza forma.
E allora COME E' POSSIBILE che tutti questi artisti già esistessero, e già da molti anni si fossero forgiati per arrivare pronti esattamente a quelle rivoluzioni?
Cosa sto cercando di dire?
Che rispetto alle tesi entrambe giuste di Bagnoli (ci sono certi cantanti dunque si fa un certo repertorio) e di Mattioli (si fa un certo repertorio, dunque prima o poi salteranno fuori i cantanti) c'è un elemento ulteriore a monte rispetto agli stessi repertori e alle stesse rivoluzioni operistiche, un elemento che ne garantisce la futura realizzazione: ossia quel bisogno che la nostra società (tutte le società) hanno di riflettersi in ciò che rappresentano e che si riflette (ben prima che le rivoluzioni abbiano luogo) nella ricerca di linguaggi sonori e tecnici più combiacianti con la nostra sensibilità e, contestualmente, nell'approfondimento accademico e filologico di autori che, in astratto, possono rivelare particolari fili rossi tra loro e il nostro tempo.
Tutto questo avviene "prima" che le rivoluzioni si realizzino: ecco perché, caro Bagnolo, quando si arriva a trovare in Donizetti un autore "moderno" (come era negli anni 60) c'è già una Gencer bella pronta.
Mi spiego.
Se la CAllas, la Schwarzkopf, la Gencer, la Moedl, la stessa Horne si erano forgiate la tecnica in quel modo da ragazze non è perché "presagivano" quali sarebbero stati le posteriori rivoluzioni di cui, quindici anni dopo, sarebbero state le protagoniste.
Assurdo pensarlo...
Semplicemente stavano innovando il suono e il gesto, ognuna a modo loro, nella direzione del "loro" tempo.
Il canto, pur legato alle tradizioni che conoscevano a scuola, si configurava sulla base delle sollecitazioni del loro tempo (la mentalità che assorbivano, i film che vedevano, la musica che ascoltavano, la gestualità e il gergo dei giovani che frequentavano...).
Insomma, adattavano la loro espressività e la loro tecnica al mondo in cui vivevano.
Il bisogno di coltivare l'agilità e i contrasti di colore non venne a Merritt e Blake (quando andavano a scuola, negli anni '70) per la promessa di carriere rossiniane internazionali (che nessuno avrebbe allora potuto prevedere), senza Verdi e senza Puccini.
Ma da qualcosa che li spingeva a considerare, allora, quel tipo di canto più "moderno", più giovane, più aperto al futuro.
Le "rivoluzioni" di repertorio in fondo cercano solo la stessa cosa.
NOn l'umanitario progetto di far rivivere autori ingiustamente dimenticati, ma il bisogno di cercare "altrove" (magari appunto in autori dimenticati o traditi, come Monteverdi, Rossini, Handel) il presente.
E' sempre lo "spirito del tempo" che prepara la rinascite e le rivoluzioni, molto prima che esse avvengano realmente sui palcoscenici.
C'è sempre qualcosa nell'aria che permette che diverse persone (i giovani artisti al conservatorio così come i ricercatori nelle aule universitarie) lavorino già oggi (e in perfetta autonomia gli uni dagli altri) per le future rivoluzioni.
Ribadisco: ha ragione Bagnoli a dire che gli interpreti rendono possibili le tendenze (e Beck a dire la stessa cosa dei filologi), ma ha ancora più ragione Mattioli nel dire che sono le tendenze a fare gli interpreti (e i filologi) in quanto quelle che noi chiamiamo "rivoluzioni" non sono altro che l'ultima tappa di un lungo percorso di riflessione e ricerca che la nostra società (così come quelle passate) ha compiuto per potersi poi rispecchiarsi in ciò che rappresenta, fosse anche un'opera scritta trecento anni fa ma che dice più cose vicine a noi di un'opera scritta l'anno scorso.
E' per questo che, chiedendoci quali opere verranno rappresentate domani e con quali stili e strumenti, noi in realtà ci stiamo interrogando sulla civiltà di oggi, quella stessa che stiamo vivendo proprio come gli artefici delle prossime rivoluzioni artistiche.
Salutoni,
Mat