Maugham ha scritto: E' molto più facile fare il rendiconto di serate insulse; in quel caso le parole corrono alla svelta, senza ripensamenti. Raccontando invece le serate eccezionali, direi quasi uniche, si corre il rischio, per quanto ci si sforzi, di banalizzare il tutto e di fare dire a chi ti legge: "be', insomma, tutto qui? Sai che roba". Soprattutto con gli spettacoli di Richard Jones - grazie a Matteo lo conosco da un po' di anni- che sono fatti di continui, costanti e numerosi dettagli scenici, illuminotecnici, scenografici e musicali raccolti poi con straordinaria sintesi in un disegno di sconvolgente ed entusiasmante novità. Troppa roba, insomma, ci vorrebbe un commento audio come nei DvD di cinema, fermare l'immagine, fare un replay....
Ooohhhh. bene.
Qualcuno mi capisce...
Un resoconto di una regia sembra facile, e lo è se parliamo dei registi alla Pizzi e alla Ronconi (quelli che non fanno fare "buuuu" al pubblico).
O se devi raccontare una qualche regia a "ideuzze".
Non ti ci vuol niente: descrivi l'ambientazione, parli dell'ideuzza, e sei a posto.
Ma se devi raccontare una regia di Jones ti senti impotente... perché ogni battuta, ogni suono, ogni secondo di quasi cinque ore di immagini e musica "sono" la sua regia... e perché l'incastro di immagini, suoni ed emozioni fluisce con una tale abbondanza che ti travolge: devi solo vivere quelle emozioni che non potrai ricordati in ogni dettaglio e meno ancora smontarle.
Le parole non bastano mai a rendere conto di tutto questo.
Sono anni che lo dico: Jones è il più grande regista d'opera del nostro tempo e forse di tutti i tempi.
Questo era il tredicesimo suo spettacolo che ho visto dal vivo (dopo Dama di Picche, Angelo di Fuoco, Hansel e Gretel, Cavalleria Rusticana, Pagliacci, Macbeth, Giocatore, Lohengrin, Ora Spagnola, Billy Budd, Gianni Schicchi, Lady Macbeth di Mzensk...) e sicuramente uno dei più incredibili, anche considerata l'enorme difficoltà del testo...
E quando dico che i Meistersinger sono un testo difficile, non mi riferisco solo alla complessità musicale e drammaturgica, ma proprio alle sue lungaggini.
E' un'opera in cui già riuscire a non far addormentare il pubblico (specie al terzo atto) rappresenta per un regista una vittoria.
Con Jones non solo non si dorme, ma si è travolti al punto da provare rabbia quando l'interludio del terzo atto ti annuncia che ci stiamo avvicinando alla conclusione: vorresti - e non è retorica - che la magia di cui sei parte, questo momento prezioso della tua vita, durasse ancora.
I primi due atti (con il sipario pieno di fotografie e raffigurazioni dei più grandi "cervelli" parlanti tedesco... i Maestri "reali" con cui tutti noi facciamo quotidianamente i conti - filosofi, scienziati, poeti, registi, musicisti, attori, anche tre cantanti d'opera: Wunderlich, la Schwarzkopf e naturalmente la Silja) sono corsi via come razzi, alla "Jones", fra intuizioni, geometrie perfette, definizioni psicologiche esaltanti, ironia e senso del gioco che ti sconvolge.
Ma è all'apertura del terzo atto (quella che Maugham ha descritto splendidamente) che resti annichilito.
Davanti ai nostri occhi si apre un esempio così perfetto di cosa sia la "verità teatrale", quando è tanto vera da farti star male.
Il coinvolgimento umano, l'immedesimazione dell'ascoltatore sono tali che si rischia una vertigine da sindrome di Stendhal, e resti lì col fiato sospeso e un'inquietudine che ti scava dentro e ti lascia sbilanciato, in precario equilibrio... finisci per sentirti completamente dentro la storia che stai vedendo o - peggio - sentire che quella storia è dentro di te.
E dire che io odio il terzo atto dei Meistersinger.
Trovo manierata, lunga, verbosa, interminabile, dolciastra la prima parte, e pompieristica, esteriore, ipocrita la seconda.
Colpa mia, lo ammetto... Ma è così.
Con Jones quel terzo atto mi è invece entrato dentro come una spada, anzi come un "sogno mattutino" che, come Walther, si ha paura che possa svanire troppo presto. Ne ho centellinato ogni attimo, delibato ogni suono e ogni immagine.
Lungo? Prolisso? Ma no, per niente...
E' il tempo reale: perché Jones è riuscito (cosa più unica che rara) a dilatare la sua narrazione, a costruire il suo realismo in modo tale che il tempo perdeva gli scatti e le accelerazioni tipici della finzione, ma procedeva lento e implacabile al ritmo del tempo vero, quello della vita, e si riempiva di tutti quei preziosi dettagli che sono quelli della vita: infilarsi i pantaloni lentamente, ancora intorpiditi dal sonno e da un sottile tormento interiore, sbucciare un uovo alla coque, fermarsi a guardare la luce del mattino dalle finestre, imburrare lentamente e con accuratezza il pane o versare una tazza di caffé profumato e fumante a Walther, discutendo di poesia e di sogni, respirando lentamente l'atmosfera di una strana, misteriosa, luminosa mattina, in cui tutto sembra irreale, diverso, malinconico e radioso insieme.
Tu ascoltatore e spettatore ti ritrovi a essere parte di tutto questo e ne provi un piacere così intenso e inquieto che vorresti anche tu, come Sachs e come Walther, che quel tempo non passasse e che quella luce così nitida, fresca e pulita che filtra dalle finestre possa rivelare anche a te le stesse verità semplici e misteriose che sta rivelando ai personaggi... personaggi nei quali ti stai incredibilmente identificando, in quella stanzetta triste e pulita dove, grazie al miracolo di una mattina strana, i sogni diventano poesia.
In una mattina così tutto può succedere... anche che si riveli con la massima semplicitàciò che per anni e anni era rimasto nascosto nel più profondo angolo del cuore di Sachs e di Eva.
Un'impossibile attrazione, inconfessabile anche se forte, un sentimento negato e sopito, ma evoluto negli anni tra la ragazza che incarna tutta la bellezza di un tempo finito per sempre e il grande Maestro, il dolcissimo, forte, profondo vicino di casa, amico del padre, che lei aveva conosciuto bambina nello splendore della sua gioventù, quando lui la teneva sulle ginocchia.
In una mattina così qualsiasi segreto dell'anima può venire alla luce senza che ce ne si renda conto: basta che lei, radiosa nel primo sole, addolcita dal risveglio, si fermi davanti alla porta della bottega, entri, guardi Sachs, perchè ogni verità si faccia strada.
E quando porge a Sachs il piedino, affinché lui possa aggiustarle la scarpa, e si china per indicare il punto in cui le fa male, i loro volti si avvicinano, si sfiorano, si guardano, il tutto con una naturalezza che chiunque abbia assaporato certe strane mattine non può che capire.
E così, quando appare Walther e canta il suo bellissimo "bar", lei lo ascolta rapita, commossa, esaltata, perché in quel canto sente la voce di Sachs, l'uomo che da bambina aveva sognato; l'uomo di cui potrebbe essere "moglie e figlia"; nel pieno dell'esaltazione si volta verso Terfel e lo abbraccia fortissimo, lasciando annichilito il gigante Terfel, reso fragile da quella strana mattina, incapace di rispondere all'abbraccio ma anche di svincolarsi...
il povero Walther retrocede, si siede, capisce.
La verità non si può contrastare... specie in certe mattine, quando certe cose - che dovrebbero restare ben nascoste nel fondo dei nostri segreti - vengono fuori così, senza preavviso, come se la trasparenza dell'aria e il riverbero dei sogni mattutini le rendessero perfettamente giuste e naturali.
E sono naturali anche per noi, che - fortunato pubblico - ne siamo parte.
E' quasi troppo... Troppa verità, troppa bellezza rischiano di fare male.
Quando finalmente, al quintetto, i personaggi si siedono ordinati a guardare un foglio di carta appeso a un filo (la poesia, la finzione, l'arte) con stilizzazione tipicamente simbolica, è come se il pubblico si scuotesse e si ricordasse che siamo a teatro: è come se Jones ci imponesse di tornare alla realtà del teatro, che è e deve essere finta.
Mi piacerebbe dare tutto il merito di questo miracolo a Jones, ma non sarebbe giusto. Perché lo strumento del suo miracolo si chiama Bryn Terfel.
Con nessun altro cantante al mondo il risultato sarebbe stato questo.
Terfel è il Sachs "assoluto", è il punto fermo della storia interpretativa del personaggio.
E' un caso di immedesimazione talmente definitiva da cancellare in un sol colpo tutti i nostri ricordi.
Se si considera che viviamo in un'epoca di "crisi" operistica atroce (come vorrebbero quelli che invece che a Cardiff vanno a Rovigo) dà una certa emozione poter dire... "ho appena sentito e visto uno dei più grandi Sachs della Storia, forse il più grande".
Attendiamo le impressioni di Beck.
Salutoni,
Mat