Trovo talmente interessante la questione e stimolanti le osservazioni di Fabrizio che vorrei aprire un nuovo Thread.
fadecas ha scritto:In premessa, non sono tanto convinto che la “verità” di un’interpretazione musicale si possa facilmente separare dalla “finzione”, non nel senso di “falsità” bensì in quello di costruzione, frutto di studio e di ricerca, più o meno consapevolmente condotta, atta a raggiungere un determinato effetto.
Questo, Fabrizio, è uno dei fulcri del mio pensiero.
E' normale che non lo si debba condividere (qualunque attore stanislavskiano o uscito dall'"Actors Studio" mi prenderebbe a male parole).
Su una cosa sono d'accordo con te: non si può tracciare una linea netta e definitiva fra finzione e verità; ogni forma d'arte è finzione; ogni forma d'arte è imitazione della verità.
Le componenti sono sempre presenti.
Quando io parlo di verità mi riferisco al bagaglio di conoscenze, esperienze, ricordi, pratiche extra-artistiche (e riferite alla vita di tutti i giorni) a cui l'interprete può attingere nel momento in cui interpreta.
E' maggiore il tasso di "verità" (in questo senso, si intende) di uno scrittore che parla del proprio paese, del proprio tempo, della propria generazione rispetto a uno che ambienta i suoi romanzi in contesti o in epoche che non conosce.
Faccio un esempio: immaginati una cantante che da adolescente era grassa e brufolosa! Aveva paura del contatto con i ragazzi, era schiva e impacciata, ecc.. ecc...
Poi studia canto e diventa un ottimo contralto: come potrà essere "vera" in ruoli come Dalila e Carmen? Non avrà un bagaglio personale (di sensualità) a cui attingere. Non avrà ricordi di seduzioni adolescenziali, non avrà nel taschino lo ...sguardo giusto elaborato in anni e anni di conquiste, l'inavvertibile movimento per mettere in valore certe parti del corpo, ecc...
Poi magari sarà bravissima vocalmente, ma il suo personaggio mancherà di quella verità che non dà lo studio (non lo può dare) ma solo l'esperienza diretta di vita.
Alla faccia di Stanislavski, io non credo affatto che l'attore si annulli davanti al suo personaggio.
Anzi, lo rende vivo SOLO se riesce a buttargli dentro tutto sè stesso, quel mondo di tecniche mimiche ed espressive e di emozioni irripetibili che riguardano solo lui.
Perché amiamo tanto sentire i nostri interpreti preferiti a contatto con certi ruoli? Proprio perché desideriamo sapere che verità hanno trovato LORO (con il loro personale mondo di valori ed emozioni) nelle parole e situazioni descritte per un personaggio.
Comunque, spesso troviamo prestazioni maiuscoli di cantanti in personaggi apparentemente da loro lontanissimi (quanto c’era della Callas come persona, ad es., in ruoli di vittima o borghesi? Ben poco, suppongo, eppure la sua Amelia o le sue interpretazioni pucciniane siglano delle grandi letture, anche se non esclusive …)
C'era tantissimo invece.
E l'abbiamo appurato dopo, quando è andata snebbiandosi l'aura mitica da super-diva di cui negli anni '50 si era avvolto il mito della Callas.
Quando sono emerse la paura della solitudine, la tragedia dell'impotenza, la fragilità indifesa di questa donna, molto della sua Boheme e della sua Amelia è venuto fuori.
E non ci sarebbe stato alcun bisogno di rimestare squallidamente (come è stato fatto) nella biografia della Callas per comprendere questi aspetti del suo carattere.
Bastava sentire la sua Butterfly: l'artista, interpretando, si mette a nudo, si rivela. Lo fa anche un pianista, uno scultore, un regista...
E se tu senti la Callas in Lady Macbeth la trovi molto meno vera (si escluda il sonnambulismo inciso nel 58) di quanto non fosse nel secondo atto della Buttefly.
E' possibile anche che questo non accada: che l'artista, invece di usare le convenzioni dell'arte per esprimersi, si nasconda dietro di loro, si protegga grazie a loro.
in certi ruoli può anche funzionare... in altri no.
Funziona invariabilmente (secondo me) quando si mette l'artista in condizione di interpretare personaggi in linea col suo carattere e il suo mondo di valori.
Con tutti i suoi manierismi e perbenismi, la Olivero era grandiosa e sconvolgente, ossia disperatamente vera, quando cercava di contenere, occhio azzurro dardeggiante, le bestemmie rabbiose della Pederzini, nei Dialoghi delle Carmelitane. Lì il bigottismo sabaudo esplodeva in una verità che lo studio, caro Fabrizio, non può dare, almeno secondo me.
O per lo meno: c'è lo studio di una vita, lo studio del vivere quotidianamente, dell'essere sempre più sè stessi.
E' possibile che la Gencer degli anni 50 (quando Violetta era un suo cavallo di battaglia) fosse vera e autentica.
Chissà... il suo "Addio del passato" del 1956 francamente non mi convince, ma sarei curioso di sentire (se mai esistesse) un'edizione integrale.
Allora la Gencer era giovane e il suo canto si nutriva di risvolti virginali; in lei si sente la freschezza e il disagio della "straniera", turca e mussulmana in un'Italia che - all'epoca - non l'aveva totalmente capita.
Nel 1964 era cambiato il mondo: quando cantò questa sua ultima Traviata a Rio proveniva dai trionfi della Norma di Buenos Aires e il mondo l'aveva già incoronata regina donizettiana del dopo-Callas (Devereux a Napoli, Beatrice di Tenda a Venezia, Macbeth a Milano).
Conosco anche io la registrazione di Rio.
Ammiro la scuola e la maestria, la raffinata retorica emotiva, lo slancio, il sussurro di "Alfredo, Alfredo". La ammiro ma non le credo.
In quegli anni la Gencer aveva trovato la sua verità altrove. Lei stessa lo ammise "quella non è la mia Traviata".
Salutoni,
Matteo