PARIGI, CHATELET (9 dicembre 2010)
Ammetto di non avere molta familiarità con il Musical classico dal vivo, nessuna poi in un vero teatro d'opera.
Lo Chatelet è un teatro che mi è caro: vi ho visto produzioni operistiche indimenticabili come il Falstaff e les Troyens diretti da Gardiner, la Grande Duchesse (con la Lott e la regia di Pelly), Dido and Aeneas (con la Normann), le Fate di Wagner, Carmen (purtroppo con la regia di Kusej) diretti da Minkovksy, il Castello di Barbablu (sempre con la Normann e Boulez), ecc...
Da quando a dirigerlo è Choplin, poi, il musical classico è diventato una parte fondamentale della programmazione di questo teatro.
Ciò che più mi interessava dunque - preparandomi ad assistere alla première di My Fair Lady con la regia di Carsen - era l'effetto che tale produzione avrebbe fatto su di me, abituale ascoltatore operistico in uno dei miei teatri d'opera prediletti.
Ero curioso di verificare la realizzabilità di una mia esigenza da molti mesi in qua: esigenza non solo mia, ma ormai sempre più diffusa. L'incameramento del Musical (almeno quello "storico" precedente la svolta "rock", in sostanza prima di Hair) in seno al repertorio operistico, il ché significa non solo inserito normalmente nelle stagioni d'opera - a fianco di Wagner, Monteverdi e Rossini - ma soprattutto sottratto alla logica "popolare" del classico revival nei teatri specializzati in musical moderno (riscritture rockeggianti, basi registrate, aggiornamenti di dialoghi, traduzioni dei libretti, amplificazione elettronica, ecc...) ed eseguito con gli stessi principi "filologici" con cui si esegue l'opera (lingua originale, testo integrale, orchestra dal vivo) e naturalmente grandi direttori "classici", grandi registi d'opera, grandi cantanti, ecc...
In questo senso "My fair lady" si adattava benissimo a quella che per me doveva essere una verifica.
E non solo per l'autorevolezza delle sue fonti letterarie (il Pigmalione di George Bernand Shaw), non solo per lo splendore di un libretto (Lerner) che non ha nulla da invidiare ai maggiori libretti d'opera, ma soprattutto per l'estremo classicismo della musica di Loewe, che prescinde completamente (in pieno 1956) dalle influenze Jazz che da tempo dominavano il Musical.
La firma di Robert Carsen, il più importante regista d'opera del mondo, avrebbe definitivamente garantito la contiguità dei generi e dimostrato la perfetta adattabilità dell'uno nelle consuetudini del secondo.
Quando parlo di "inglobamento" del Musical nelle convenzioni attuali del teatro d'Opera non intendo certo un tradimento del suo linguaggio in senso classico...
Non mi riferisco ovviamente agli obbrobri di Carreras e Domingo nei loro concertoni...
Intendo solo che anche ad esso vengano applicati i criteri esecutivi che oggi sono riservati a ciò che chiamiamo "opera" e su cui vorrei tentare di riflettere con gli amici del Forum.
Il mondo del teatro musicale si divide oggi (ma non da oggi) in due tipi diversi di produzione: la produzione "popolare" e il teatro d'opera.
Quella popolare, potremmo dire "di consumo" (oggi largamente dominata dal Musical, fiancheggiato - nel secolo scorso - dall'operetta e dalla rivista) ha certe logiche esecutive, certe caratteristiche che un tempo aveva anche l'opera, quando a sua volta era un genere popolare.
Ad esempio vige ancora la consuetudine della traduzione: i testi letterari sono riscritti nelle lingue più diverse a seconda del paese in cui viene importato lo spettacolo (così come avveniva per le operette quando giravano "fuori" dalle stagioni d'opera e molto tempo fa avveniva per le nostre Opere).
La parte musicale quasi sempre viene oggi affidata a una base registrata e non a un'orchestra dal vivo (i cui costi sarebbero inconciliabili con la logica del teatro musicale "popolare").
Gli interpreti poi non sono sempre "cantanti", ma varie personalità più o meno celebri dello spettacolo popolare (attori, intrattenitori, ballerini...).
E tutto questo non vale solo per i musical scritti e prodotti oggi; se infatti il teatro musicale "popolare" decide di ripescare musicals storici (il termine in questo caso è "revival") lo fa con radicali riadattamenti (come tanti anni fa si faceva con l'opera: pensate alle edizioni berlioziane di Gluck o quelle monteverdiane di Malipiero, Krenek, Benvenuti), come se la preoccupazione massima fosse quella di rendere digeribile al pubblico moderno una "roba vecchia".
Ecco: tutte queste sono le giustificatissime e ragionevolissime convenzioni esecutive del teatro musicale popolare.
Ed è proprio questo che rappresenta l'assoluta diversità con ciò che oggi "chiamiamo" teatro d'opera.
La differenza non è "qualitativa", non è una differenza "di genere", ma solo di consuetudini e convenzioni esecutive.
Mi spiego meglio.
Oggi non è più possibile applicare all'opera una definizione di "genere" (l'opera è fatta così e così, ha queste caratteristiche, ecc...).
L'unico elemento che ci permette di distinguere l'opera dalle altre forme di teatro musicale sono le consuetudini esecutive che siamo soliti applicarvi.
Se dovessimo definire l' "opera" come la intendiamo oggi in quanto "genere" saremmo in gravi difficoltà.
Nelle attuali stagioni d'opera infatti convivono gli antichi drammi per musica secenteschi e le commedie musicali di Brecht, l'Opéra-comique e le cantate sacre, le opere serie napoletane e i masque elisabettiani, gli oratori e le zarzuelas, i grand-opéra di Halevy e le opere buffe del 700, le operette viennesi e il musikdrama wagneriano..-
Insomma, in un unico calderone mettiamo i generi più diversi e contrastanti, accomunati solo da un aspetto: di essere nati nel "passato", frutto di epoche lontane. L'Opera oggi non è più un "genere", ma un grande raccoglitore di generi, senza distinzione (per fortuna) fra i generi nati come aulici e quelli nati come popolari. Vi sono accolti persino i generi che erano nati per l'esecuzione in forma di concerto (pensate alla Damnation de Faust o all'Oedipus Rex, o alla Semele) o addirittura come liturgia (le drammatizzazioni oggi diffusissime di oratori sacri e delle passioni di Bach).
Ribadisco: ciò che definiamo Opera non è più un genere, bensì l'intera eredità di teatro musicale occidentale "passato" che non sia (o non sia più, a causa della sua vetustà) appetibile per il "popolare".
L'unico elemento di unicità (quello che ci permette di considerare "opere" sia l'Incoronazione di Poppea sia la Vedova Allegra e di vederle programmate nella stessa stagione) è dato dai criteri con cui le eseguiamo.
Criteri che sono molto diversi da quelli del teatro "popolare" (di ieri e di oggi).
Vediamoli questi criteri "esecutivi" che permettano a qualsiasi testo "teatrale-musicale" di entrare nelle stagioni operistiche.
Anzitutto il rispetto esasperato, quasi scientifico, per il dato "scritto" (le parole del libretto e le note dello spartito).
Un rispetto talmente profondo che avrebbe sorpreso gli stessi "autori" (quando le loro opere erano popolari) i quali tolleravano senza difficoltà profonde alterazioni dei loro testi a seconda delle esigenze proprie del teatro popolare.
Tale rispetto prevede ad esempio (caso quasi unico nella famiglia delle performing arts) la lingua originale, fosse anche il polacco o il boemo.
Prevede inoltre una ricerca addirittura "filologica" sulle singole note.
Si punta all'integralità in modo estremistico: anche il più piccolo taglio (che sarebbe normalissimo in qualsiasi forma di teatro popolare) all'Opera può scatenare polemiche e dibattiti.
Prevede addirittura il recupero di strumenti antichi e originali (altro che gli "arrangiamenti" propri della musica popolare!) e persino lo studio degli stili e delle prassi esecutive d'epoca.
La questione più interessante è che a questo rispetto assoluto del testo si affianca una necessità di rilettura "alta" (sia a livello linguistico, sia a livello contenutistico) delle problematiche proprie dei vari testi, riviste secondo lo spirito della contemporaneità, con sfarzo di mezzi tecnologici e intellettuali che, all'epoca in cui le opere furono create, sarebbero apparsi esagerati agli stessi autori.
Eppure è questo che oggi l'Opera fa: accoglie al proprio seno qualsiasi genere "vecchio" di teatro musicale, lo esalta semanticamente (nella cura tecnica e musicale e nel rispetto di ogni infimo segno) e lo rivitalizza culturalmente (nella prospettiva "alta" di riletture che risentono di ogni stimolo intellettuale proveniente dalla contemporaneità).
Bene.
Il Musical storico (come già l'operetta viennese) è ormai troppo vecchio per poter rimanere legato alla produzione del teatro "popolare", dove odora di vecchio al confronto dei moderni e spettacolari lavori della Disney o del Musical Rock.
E' quindi pronto per entrare a sua volta nelle stagioni d'Opera, essere fagocitato da quel grande collettore di forme di teatro musicale antiche che è l'Opera, ovviamente godendo dei criteri esecutivi appena citati, che ne caratterizzano le convenzioni attuali.
Nelle stagioni d'Opera, quindi, cesserà di essere "tradotto", come si è fatto finora: sarà invece rappresentato in lingua originale.
La sua orchestrazione - ben lungi dall'essere "aggiornata" o "arrangiata" - sarà letta con scrupolo filologico ed eseguita da orchestre rigorosamente dal vivo.
I suoi allestimenti scenici, curatissimi e affidati ai migliori specialisti al mondo, saranno firmati da registi che ne esalteranno il potenziale culturale, i legami ideali con la contemporaneità, con linguaggio elevato e spregiudicatezza formale più intellettualistica.
Insomma, anche al Musical Classico (come a ogni altra forma di teatro musicale - popolare e non - dell'Occidento) i teatri d'Opera sono pronti a offrire una seconda chance, anzi una seconda vita, sottraendolo - certo - all'immediatezza popolare (che d'altronde ha già perso, invecchiando), ma esaltandolo nei linguaggi e nei contenuti, facendone una forma di cultura "alta" e strettamente connessa all'oggi, proprio come è avvenuto con tutti gli altri repertori che l'Opera ha inglobato.
Lo Chatelet della gestione Choplin si può considerare il tempio dello sdoganamento del genere: il successo clamoroso dei musicals allestiti nelle tre ultime stagioni, lo spirito "operistico" con cui sono stati proposti hanno percorso come una scossa elettrica tutto il mondo dell'Opera.
Allo Chatelet infatti i Musicals sono stati allestiti (per la prima volta in Francia) in lingua inglese e con sottotitoli. Le edizioni in cui vengono proposti sono filologicamente perfette (oltre che rigorosamente senza taglia). Le orchestre suonano dal vivo e gli spettacoli sono affidati a grandi registi di derivazione operistica.
Cosa manca...?
O meglio... in cosa Choplin non è andato fino in fondo?
Be'... anzitutto una questione formale: i musical dello Chatelet sono ancora presentati in una sorta di "sotto-stagione"...
Sono a parte e non ancora chiaramente inseriti nella stagione d'opera, dove (proprio come Offenbach e Weill) dovrebbero essere semplicemente affiancati a Verdi, Handel e Janacek.
So che è solo una formalità, ma io vi leggo un piccolo segno di paura, un'inconfessabile retaggio di "razzismo" di genere-
Perché allora quando allo Chatelet fanno "Dido and Aeneas" di Purcell non la inseriscono in una sotto-stagione chiamata "Masque"?
Eppure quando hanno fatto la Péricole (con la Lott e Minkoski) si sono ben guardati da ghettizzarla in una sotto-stagione chiamate "operette"...
Anzi... tutti i loro sforzi erano volti a dimostrare la riconquistata dignità del genere, autorizzata a dividere il cartellone con Mozart, Wagner e Strauss.
Allora perché con i Musical lo Chatelet tiene ancora a distinguere il loro genere, sia pure a livello unicamente formale?
E ovvio che i vari generi di teatro musicale (Musical compreso) dovrebbero mantenere nelle stagioni d'Opera le loro caratteristiche stilistiche, le loro specificità formali, ovviamente, ma - se vogliamo che l'integrazione sia effettiva - dobbiamo avere anche il coraggio di parificarli come dignità in una comune "Stagione d'Opera" che oggi, lo ribadisco, non rappresenta semplicemente un "genere", bensì un criterio di esecuzione, una principio di approccio interpretativo e una tipologia di produzione.
Seconda cosa che mi lascia perplesso è l'idea di amplificare elettronicamente sia la recitazione sia il canto, come si fa abitualmente nei teatri in cui oggi si pratica la musica popolare, ma che non ha senso per il musical storico, il quale amplificato non era e non ha senso soprattutto se si decide di accogliere il Musical storico in seno alle attuali convenzioni operistiche.
Che bisogno c'è di amplificare gli interpreti di My fair Lady, specie in un teatro non enorme come lo Chatelet, creando per altro un assurdo squilibrio con l'orchestra ovviamente non amplificata?
A parte questi aspetti, che tradiscono una specie di pregiudizio o per lo meno di implicita sudditanza alle convenzioni della Broadway di oggi, il My Fair Lady dello Chatelet è una prova luminosissima di come il musical storico non solo possa ma "debba" entrare a pieno titolo nelle stagioni d'opera.
Il risultato infatti è talmente grandioso da togliere ogni possibile dubbio.
Nell'elaborazione di casting, Choplin e il suo staff dimostrano una vera genialità in merito.
Il passaggio dalla "produzione popolare" alla stagione d'Opera impone infatti un cambiamento sul fronte delle scritture.
Il teatro popolare infatti è autorizzato a puntare su personalità note e amate dal grande pubblico, anche se più o meno abborracciate sul fronte tecnico e musicale (da noi facevano fare la Vedova allegra a Walter Chiari). Potevano essere chiamati attori cinematografici o divi del varietà televisivo.
Ma se si passa alle stagioni d'opera le cose devono cambiare.
I cantanti devono essere "veri" cantanti, ovviamente in grado di dominare perfettamente le specificità tecniche e canore del Musical, e non di meno tecnicamente e musicalmente formati secondo una logica prettamente "classica".
Questo è il principio su cui Choplin si fonda per le sue scritture: la protagonista (Eliza Doolittle, creata da Julie Andrews) è Sarah Gabriel, giovane soprano lanciato da pochi anni nel repertorio barocco. Scenicamente e interpretativamente è estremamente persuasiva; vocalmente - occorre ammetterlo - appena un po' fragile rispetto a una scrittura che reclamerebbe slanci mezzosopranili e acuti svettanti.
Lei è la dimostrazione vivente di quanto è inutile l'amplificazione in un contesto così: non la salvava infatti dal sottolineare le debolezze di un canto grazioso ma piccolo, troppo limitato nel volume e nello spettro dinamico per questa parte.
Viceversa non avrebbe avuto alcun bisogno di amplificazione il canto possente di Donald Maxwell, decano dei baritoni britannici, che dalla parte del vecchio Doolittle (pirata-clochard-ubriacone-filosofo-pappone) trae una prestazione musicale (oltre che scenica) travolgente, ben superiore a qualsiasi registrazione sia possibile reperire. (Per inciso: ecco quale sarebbe oggi un ruolo per il grande Tomlinson... altro che Hunding).
Meno ancora avrebbe avuto necessità di essere amplificato, nella parte di Fred, lo splendido tenore Ed Lyon, un vero lusso nella parte di Fred: fra i maggiori cantanti inglesi della nuova leva, barocchista d'alta scuola, habitué di Jacobs e Christie, celebrato Orfeo monteverdiano e liederista finissimo, Lyon strappa una meritatissima ovazione al termine di "On the Street Where You Live".
Solo con il Professor Higgins Choplin opta per un attore, un celebre attore cinematografico come Alex Jennings (che tutti ricordano per aver interpretato, fra l'altro, Carlo d'Inghilterra nel film "the Queen") che risulta strepitosamente efficace e favolosamente "british" ma il cui canto è a dir poco rudimentale.
Oddio... la scelta ha le sue bravi ragioni "filologiche".
Infatti il ruolo fu scritto proprio per un grande attore, nonché pessimo cantante (Rex Harrison) per il quale Loewe scrisse più che canzoni vere e proprie una sorta di sprechgesang melodico, quasi un "parlato ritmico", evidentemente pensato per un protagonista non cantante.
E tuttavia (poiché siamo ...all'opera e non a Broadway) nulla ci impedisce di pretendere che, anche nel suo caso, le note siano note (:) vero Maugham?) e che, sia pure con lo stile di un Musical e con tutti gli effetti parlati del mondo, esse vengano valorizzate al meglio.
Per quanto Jennings abbia ottenuto un trionfo personale, io non posso fare a meno di pensare a che diverso effetto avrebbe fatto sentire nella parte, ad esempio, un Keenlyside, capacissimo di aprire, di colorare, di parlare sulla musica e non di meno fra i più grandi musicisti e cantanti al mondo.
Niente da dire, ovviamente, sulla necessità di chiamare attori (e che attori!) per le parti quasi esclusivamente (o esclusivamente) recitate: questo si fa abitualmente anche all'opera e in particolare nel Singspiel o nell'Opéra-Comique.
In particolare... che lusso poter vedere un monumento del teatro Shakespeariano come Nicholas Le Prevost nel ruolo del Colonnello Pickering o un mito del cinema e del teatro inglese come Margaret Tyzack (che i cinefili ricorderanno in molti film di Kubrik) nella vecchia Signora Higgins!!
Resta Carsen, che non è nuovo a operazioni del genere e che, manco a dirlo, ha tenuto tutte le sue promesse.
La sua lettura sorprende inizialmente per la semplicità contenutistica: chi si aspettava le riflessioni audaci, la drammaturgia psicologica e metateatrale del solito Carsen ci sarà rimasto male.
Il suo My Fair Lady è semplicemente un canto di gioia, una felicità di fare musica e teatro ai livelli più alti, col montaggio serratissimo, il solito virtuosismo sceno-tecnico e illuministico, l'accanimento stupefacente sugli attori e finalmente l'espressione di un umorismo talmente irresistibile e geniale da far esplodere il pubblico a ogni secondo in risate fragorose.
Non mi resteranno dalla sua produzione concettosi messaggi e simbologie arcane, o la trista immagine del ditino alzato propria di quei registi che pensano che il loro mestiere consista nel denunciare chissà quali ingiustizie sociali.
Mi resterà solo la sensazione dell'esaltazione grandiosa e misteriosa di ciò che il teatro e la musica possono essere. Un brivido di felicità collettiva ed elettrizzante che ci si porta dietro, col ricordo, per tutta la vita.
Qui c'è un piccolo video, se vi interessa...
http://www.chatelet-theatre.com/chatelet1011/musicals/my-fair-lady,453
Scusate la solita prolissità e salutoni,
Matteo