Argomento fondamentale, specie ai nostri tempi, quello della filologia. Ma anche piuttosto spinoso, diciamocelo.
Cercare di farvi ordine è un vero casino, ce l'ho ben presente da anni ma me ne sto rendendo conto sempre di più in queste ultime settimane di vera e propria passione per la Messa in Si minore di Bach, che sto ascoltando in mille versioni diverse, classiche, moderne, con grandi orchestre, con grandi cori o con organici ridotti all'osso, con mezzosoprani di estrazione operistica o con controtenori.
Ma soprattutto: gli strumenti!
Io non so esattamente quando gli interpreti hanno cominciato ad interessarsi ad una prassi interpretativa diversa ma, per amore di discussione, proverei molto arbitrariamente a schematizzare i direttori come segue:
i precursori: sono quelli degli strumenti striduli, vetrosi, e delle sonorità aspre. Scarsa fantasia esecutiva, noia da tagliare a fette o, in alternativa, imprecisioni musicali a catafascio. E' il periodo di Malgoire, Parrott, Pinnock, il primo Harnoncourt, Leonhardt, Leppard
la trimurti, come li chiama scherzosamente Elvio Giudici: sono lo stesso Harnoncourt, Hogwood e Gardiner. Il discorso comincia a prendere forma e le incisioni hanno una loro dignità non solo musicale, ma anche interpretativa. Gardiner realizza una serie di incisioni mozartiane fondamentali, tutte collaudate prima in teatro
i ragazzi terribili: sono William Christie, Christophe Rousset e Marc Minkowski. Le loro orchestre hanno ormai un suono rifinito, pulito, tornitissimo. Sono gli anni della grande riscoperta del repertorio di Haendel e degli abbinamenti con cantanti non solo specialisti, ma anche più famosi che scoprono un modo diverso di cantare (si pensi alla realizzazione dell'Alcina di Christie) e delle regie che permettono di aprire un mondo di insospettato fascino: si pensi a Carsen
i vivaldiani: la grande riscoperta del repertorio vivaldiano è guidata dall'ortodosso e rifinito (e raffinato) Federico Maria Sardelli e dall'aggressivo e violento Jean-Christophe Spinosi, dai riff esasperati. Ma ci sono anche Fasolis e Marcon
i ragionieri: soprattutto Alan Curtis. Scarsa fantasia esecutiva ma estrema costanza nel rendimento. Sono i grandi regolaristi e consegnano al pubblico un repertorio "di studio". Per qualcuno in questo ambito dovrebbe essere inserito anche McCreesh, ma ho dei dubbi: la sua Matthaus-Passion è veramente rivoluzionaria nell'approccio
i rivoluzionari: sono quelli che, oltre a scegliere un modo antiquo, si sforzano di dire qualcosa di veramente nuovo. Direi che il capofila di essi è René Jacobs: il suo Mozart è qualcosa che scuote la prassi esecutiva dalle fondamenta
i bachiani: citerei innanzitutto e sopra tutti: Herreweghe e il grandissimo Suzuki. Ma anche l'eccentrico - pur se discontinuo - Ton Koopman merita almeno una citazione per aver registrato un'integrale della Cantate
Che ne dite?
Schematizzazioni arbitrarie?
Oppure ci si può provare a costruire una discussione?