BERGAMO 2010
Solo qualche considerazione, avendo ieri visto lo spettacolo.
ALLE COCORITE LOGGIONISTICHE: AVETE ROTTO!
Personalmente rivolgo un caloroso applauso al Teatro Donizetti di Bergamo, per essere riuscito a offrirci (nonostante i pochi fondi, le poche sovvenzioni, il poco personale, l'aura di crisi che che incombe nel settore) il debutto di un grande leone da palcoscenici internazionali come Gregory Kunde in un ruolo simile e a permetterci di fruirne non solo a due passi da casa, senza dover come al solito andare a Parigi o Londra, ma con poca spesa.
Chiunque avrebbe capito che, su tutto il resto, si è dovuti andare al risparmio: a parte Kunde, gli errori ci sono stati, i pasticci filologici, le scelte di casting assurde, l'atmosfera parrocchiale, l'impresentabilità dell'allestimento, la schematicità della direzione, preoccupata, giustamente, di tenere almeno tutti insieme.
Ma cosa ci si aspettava dal Donizetti di Bergamo, un teatro costretto a realizzare una produzione con meno soldi e mezzi di quelli che a Vienna o Parigi destinerebbero a dieci minuti di rappresentazione?
Andando in un teatro piccolo, di provincia, è già moltissimo che ci venga offerta, ripeto, l'occasione di sentire un Kunde che debutta in Poliuto.
Solo per quello si è andati, e solo quello ci si doveva aspettare... se un minimo si conosce il mondo. E di quello si doveva ringraziare il teatro.
Il problema è che i coglioncelli in trasferta, venuti appositamente a Bergamo a spendere le loro due lire in loggione e ricavarne pochi attimi di gloria personale, tutto questo non lo sanno.
Mettersi a "buare" l'orchestra (ovviamente non proprio gloriosa) che il Teatro è riuscito a raccogliere e a mettere in fossa, senza potersi permettere - si suppone - un numero adeguato di prove, orchestra che per inciso non ha poi prodotto soverchi orrori (a parte l'ouverture iniziale), è come andare a messa e fischiare i chierichetti! Cosa si aspettavano a Bergamo? I Chicago Symphony?
Umanamente provo una simpatia malinconica per questi assidui frequentatori della provincia operistica, che vanno solo in provincia per potersi scandalizzare del suo provincialismo e sentirsi vivi traducendo in show personali la povertà dei loro quotidiani (show che in altri teatri europei sarebbero risolti a suon di calcioni nel sedere): mi ricordano quelli che telefonano alle trasmissioni radiofoniche nello spazio riservato alle "domande" e che invece delle domande fanno interminabili conferenze, fino a che il conduttore non è costretto a chiudere la comunicazione.
Tristezza e simpatia, lo ammetto...
Chissà, ad esempio, quale brivido vitale avrà provato la povera donnicciola che dal loggione ha urlato (dopo l'esplosione da stadio seguita al do sopracuto di Kunde) "lasciate finire la musica": certo è un commento di assoluta inutilità e idiozia oltre che prova di totale inesperienza di teatro, ma che ha dato alla suddetta una delle poche occasioni di protagonismo della sua vita... con tanta gente che costretta ad ascoltarla!
Lo so anche io che umanamente si prova tenerezza per questi infelici in gita domenicale, che se ne vengono a Bergamo (ripeto, non al Met o a Vienna o a Parigi) per fischiare l'orchestra, creare disturbo onde sentirsi importanti, chiacchierare e sbuffare per tutta la rappresentazione salvo poi zittirsi rumorosamente fra loro, approfittare di ogni pausa e attimo di silenzio per lanciare i loro proclami da cocorite eccitate e relativi battibecchi.
Ma non si può nemmeno negare che, così facendo, rompono le palle a chi, a differenza loro, non vive per i teatri di provincia e che qui a Bergamo è venuto solo per ascoltare un grande debutto in una grande opera, senza aspettarsi quello che la Provincia non può dare e senza bisogno di inventarsi una paradossale visibilità in una vita invisibile, al buio di un palchetto e avvolti da altri teppistelli come in un branco da scuole medie, che si sentono grandi suonando ai campanelli e poi scappando via.
E ora lasciamo perdere le note di "colore" (e l'umana partecipazione verso gli sfigati) e parliamo di cose serie.
PAOLETTA MARROCU
Si può sorvolare su tutto (anche sulle debolezze in acuto di un baritono che, per essere così giovane, fa mostra anche di maturità e sensibilità); si può sorvolare sui limiti endemici di un cast riunito con pochi mezzi e praticamente come "supporto" a una grande star.
Ma non si può sorvolare sul caso della Marrocu, perché stiamo parlando di una artista di prestigio e collocazione internazionale.
L'errore prevedibile e clamoroso di scritturarla per Paolina era da evitare.
Cantante di grande talento, forte personalità, una delle poche vere declamatrici italiane, con colori aspri e suggestivi in zona centrale, valorose capacità sceniche; dei declamatori ha ovviamente la difficoltà a sostenere scritture vocalistiche. Paolina poi (nonostante le sue evoluzioni da "Ronzi" a "Dorus-Gras" a "Tadolini") è più che un ruolo vocalistico: è un ruolo belcantistico.
Ma al di là di questo c'è il problema dell'estensione vocale: non ci vuole un genio per capire che c'è almeno una terza fra le possibilità in acuto della Marrocu e la scrittura di Paolina; che la sua esecuzione si sarebbe risolta in una serie spaventosa di latrati e stridori imbarazzanti era non solo prevedibile (e infatti noi l'avevamo previsto diversi mesi fa) ma inevitabile.
Passi che di questo non si accorgano i cosidetti direttori artistici; passi che non se ne accorgano agenti e consulenti...
Ma lei?
Lei non era in grado di capirlo? Non se ne doveva accorgere la prima volta che ha letto lo spartito?
E' ovvio che se ne è accorta, ma ha comunque pensato di far finta di niente e accettare un impegno palesemente lontano dalle sue possibilità, magari solo per aggiungere un grande ruolo al suo repertorio, e magari andarne fieri nelle interviste, da presentare nell'innocua periferia dove magari nessuno si sarebbe accorto di nulla...
Ho avuto compassione di lei, nel sentirla affondare in una delle prestazioni più catastrofiche della mia vita, col pubblico che rumoreggiava a ogni verso lancinante e a una voce che si tendeva e spezzava, riducendosi a brandelli lungo tutto il corso della rappresentazione.
Poi la compassione è passata. Mi spiace ma la Marrocu non ne merita alcuna: è lei che ha recato insulto a Donizetti, al pubblico e a se stessa.
E' lei l'unica che poteva evitare questo scempio, di cui pagherà salatissime conseguenze.
Già... perché non tutti dispongono, come noi, della capacità di distinguere fra la tecnica vocalistica (che lei non ha) e quella declamatoria (in cui eccelle); non tutti capiscono che un tono di differenza fra il baricentro di una voce e la scrittura di un personaggio è sufficiente a provocare disastri. E qui eravamo ben oltre il tono di differenza...
L'unica sensazione che molti (compresi dirigenti teatrali, critici, operatori) si porteranno dietro sarà il ricordo di una esecuzione miserabile.
E l'unica cosa che verrà detta e ripetuta è che "la Marrocu è finita".
Il ché non è affatto vero: la Marrocu è e resta una delle migliori artiste italiane, una delle più incisive (e rare) declamatrici nostrane, un'interprete potenzialmente imbattibile di molto repertorio italiano-francese a cavallo fra otto e novecento (potrebbe essere l'unica alternativa italiana ai personaggi Viardot di cui si è parlato in altro thread). L'unica che potrebbe osare certo Wagner (una Brangania e una Fricka in versione soprano) anche a livello internazionale.
E tuttavia basta molto meno di una figuraccia simile per oscurare una carriera.
GREGORY KUNDE
E ora veniamo all'unica ragione di questo Poliuto.
Come da previsioni, Kunde è stato sensazionale.
Una lezione su come si canta questo repertorio, su come lo si nobilita esaltandosi nel fraseggio, su come lo si rivitalizza attraverso una coraggiosa varietà di colori (a scapito, talvolta, di certa morbidezza nei cantabili).
Una prova di rigore artistico e professionale da restare sconcertati, una conferma di lungo amore per questo repertorio e di rispetto per che ama l'Opera, il Belcanto, Donizetti.
Infine una vittoria schiacciante anche in senso atletico, con un artista che vicino ai sessant'anni divora una delle scritture più ardue e massacranti che esistano, con vette di splendore vocale e controllo tecnico da annali dell'Opera.
E' stato un piacere, per me, partecipare all'ovazione spaventosa che ha coronato la sua grande aria.
E tuttavia...
Vorrei ricordare quello che ho scritto - a proposito dei ruoli Nourrit - nell'editoriale che ho dedicato a Kunde qualche settimana fa.
Con Nourrit (l’altro “modello” tenorile al cui repertorio il giovane Kunde ha attinto) i risultati non sono stati altrettanto sconvolgenti, anche se sempre superiori a quelli normalmente conseguiti dai Rossiniani d’America.
Il fatto che i ruoli Rubini e quelli Nourrit appartengano circa alla stessa epoca (l’alba del romanticismo operistico) e che presentino scritture vocali estesissime in alto non li rende poeticamente e vocalmente uguali.
Tra loro si apre un abisso vocale (Nourrit non era acuto e chiaro come Rubini; era anzi piuttosto baritonale: se gli autori scrivevano sopracuti per lui è solo perché egli usava il falsetto). Ma ancora più vasto è l’abisso poetico.
I ruoli rubiniani sono evanescenti come angeli di luce: inutile cercare in essi psicologie o ragioni che trascendano il semplice status di allegorie romantiche.
In essi il distacco arrendevole e gentilizio del giovane Kunde era un pregio.
Al contrario Adolphe Nourrit era una personalità multiforme e sofferta, un intellettuale inquieto, colto e tormentato, una raffinata mescolanza di introversione altera ed esaltazione: in lui il canto romantico trovò il proprio poeta e il proprio martire.
Per affrontare i personaggi scritti per lui non basta un canto algido e sublimante, ma – al contrario – una vocazione ai sommovimenti dell’anima, alle discese negli abissi della coscienza che Kunde non era in grado di esprimere.
Nè in Raoul, né nel Comte Ory, né in Arnould (ruolo in cui, per la verità, si fece applaudire ovunque e a cui si arrese persino il festival di Pesaro) Kunde colse la stessa verità dei ruoli Rubini. Restava lo splendore della patina: l’eleganza della presenza scenica, la facilità vocalistica, la musicalità...
Tanta ammirazione. Nessuna rivelazione: il mistero Nourrit resta aperto.
Dopo aver sentito l'ultimo debutto-Nourrit di Kunde mi trovo a dover sottoscrivere ogni parola.
Tanta ammirazione, nessuna rivelazione.
E' il sottotesto di respiro romantico, di umanità ferita, di statura intellettuale che "urla" dietro ogni nota scritta per Nourrit, a mancare dolorosamente anche in questo Poliuto.
Se come scrittura nessuno (nemmeno tra gli americani) ha potuto e può esaltare questi ruoli come lui, come dimensione culturale, psicolgoica e poetica Kunde è irrimediabilmente distante; non è questo il suo mondo, il suo universo poetico.
Nessuna rivelazione. Il personaggio si muove in scena, sciorina le sue grazie tecnico-stilistico-vocali senza che un'ombra dei grandi turbamenti corneilliani faccia capolino, senza lasciar percepire nemmeno un alito di quel carisma abbagliante (carisma per il quale Donizetti scriveva e senza il quale la sua musica pare sgonfiarsi). Il tormento mistico, la luminosità del santo proto-cristiano, la naturalezza epica del personaggio (e in generale dei personaggi Nourrit) è qualcosa che a Kunde non appartiene.
Ora... so anche io che è rarissimo trovare un Raoul, un Arnould, un Ory e oggi un Poliuto che sappia non solo cantare tanto bene queste parti, ma anche - e soprattutto - farle respirare musicalmente con tanta eleganza e musicalità.
Ma (questa è la domanda) siamo davvero tenuti a fermarci a questo e accontentarci?
E lui... a questo stadio di gloria e di carriera, è veramente tenuto ad accontentarsene, considerando le miscele esplosive e vere rivelazioni poetiche che nel contempo produce a contatto con altri personaggi (un tempo l'"angelo" rubiniamo oggi il baritenore pre-romantico o il tenore napoleonico...)?
Io no.
Non vado a sentire un Poliuto per dire "però! Che bravo". Io voglio essere travolto dalla sua grandezza, voglio subirne il carisma!
Allo stesso modo, non voglio dire "però! che bravo" quando sento un Gregory Kunde.
Voglio poter sentirmi galvanizzato dalla sua grandezza artistica e umana, che splende in personaggi poeticamente e culturalmente più vicini a lui.
Così almeno la penso io.
Saltuoni,
Mat