Mi scuso, Alberto, di essermi espresso male. Rileggendo il mio precedente post mi sono accorto di non aver per nulla chiarito il mio pensiero.
Provo a spiegarmi meglio, premettendo che le tue obiezioni sono validissime e da me pienamente condivise.
mattioli ha scritto:Non vorrei, in altri termini, che un'eventuale resurrezione di questo repertorio, da intendere ovviamente come ricerca di quanto di presente c'è nel suo passato e non come confronto fra il do acuto del tenore e quello di Escalais, si risolvesse soltanto in una serie di contaminazioni linguistiche o prodigi scenotecnici.
Il fatto, Alberto, è che il problema più grave del repertorio medio-ottocentesco, specialmente francese, è proprio qua.
Non nei contenuti (che pure sono un problema a loro volta, ma successivo)...
E' sul tipo di linguaggio figurativo (o linguaggi) da associare al suo linguaggio musicale, disperatamente lontano dai nessi che la civiltà odierna imposta fra struttura musicale e narrazione figurativa.
Difficile parlare di contenuti se non si è prima risolto questo aspetto.
La difficoltà di mettere in scena un Profeta non sta, secondo me, nella presenza di elementi diversivi come le danze, le acrobazie sul ghiaccio, le lungaggini o altri aspetti ritual-celebrativi da Grand-Opéra (spauracchi non nostri, ma di un'estetica vecchissima, idealista e post-wagneriana che oggi sopravvive solo in certi sopravvissuti intellettualini tedeschi). Non sono certo i balletti che possono intimidire oggi un regista o un pubblico...
Il vero problema di Meyerbeer è l'esposizione musicale nota per nota, battuta per battuta, e l'estrema distanza fra queste note e le immagini che, per i nostri criteri di teatralità, esse dovrebbero evocare... Le ridondanze a strofe, i refrain e il loro apparente infantilismo, la fissità dell'alternanza dei numeri, la schematicità armonica, le formule fisse e stantie, i "no, no, no, no..." di Tartariniana memoria.
Tutto il linguaggio musicale di Meyerbeer, il suo lentissimo svolgersi, il suo disperdersi in rivoli formali che hanno oggi smarrito il loro significato e sono per noi noiosi, ridicoli, inammissibili.
Tutto questo grava sull'ascoltatore moderno come un odore di muffa...
Ed è inutile spiegare (alla "musicologa giustificazionista") che quella sintassi antica ha un significato storico, culturale, e bla... bla.. bla: la verità è che se non si trova il modo di rivitalizzarla associandovi immagini che la rendano viva oggi, anzi "bellissima" e persino "necessaria"... (come fece Ponnelle quaranta anni fa sulle formule della comicità musicale rossiana) il teatro meyerberiano non risorgerà.
Finché continueremo ad associare alla ripresa di una strofa, ai tipici ritmi dei numeri di colore, all'evidenza gotica e involontariamente comica della solita settima diminuita in un passaggio "horror", le solite immagini "operistiche" che ci vengono dai cattivi registi non usciremo da questo impasse.
Ma come fare?
Registi come Stoelz (che citavo per il Benvenuto Cellini), ma anche come a Caurier e Leiser - che personalmente non sopporto - hanno avvertito con chiarezza questo problema (rapporto fra immagine moderna e articolazioni musicali che puzzano di vecchio) e hanno tentato di porvi rimedio nel modo più facile: ossia creando contrapposizioni espressionistiche (e quindi comiche) fra musica e immagine.
L'espediente funziona sul momento, il pubblico si diverte, ride... ma in questo modo non si salva la drammaturgia.
La scappatoia resta senza frutti anzi amplifica il sospetto dell'impossibilità di una riproposizione seria...
E allora come fare?
Be'... ad esempio in Verdi il "nostro" amato Richard Jones c'è riuscito.
Ovviamente Verdi non è Meyerbeer, e tuttavia il concertato che conclude la scena del banchetto (Sangue a me) ci pone lo stesso problema.
Verdi lo imposta come un valzerone di sapore paesano (ovviamente per noi) che oggi nessun ascoltatore potrebbe associare alla tragicissima situazione che vorrebbe descrivere.
Il pubblico moderno ha già qualche problema con la forma stessa del "concertato"; figuriamoci con una melodia simile.
La soluzione non consiste nel tentare di "occultare" visivamente la popolanità imbarazzante del brano (come tentano i registi "intellettuali"), bensì di scatenarla senza ritegno e senza vergogna: sfruttarla per associarla ad immagini che la contemporaneità conosce.
Richard Jones, a Glyndebourne, mette tutti i personaggi in una grande balera da "liscio" (con tanto di mirror ball che luccica in alto) e li fa volteggiare in valzer sulle note della musica, fra ammiccamenti horror di varia natura.
L'immagine, più da fiction mafiosa americana che da "opera", è serissima, terrificante, non fa ridere, ma è vera... perchè ha sfruttato la musica associandola a un'immagine dell'oggi. E la musica di Verdi, con la sua popolanità, la schematicità formale, non è più imbarazzante, bensì bellissima, NECESSARIA, come se, per un momento simile, non fosse pensabile una musica diversa.
L'errore dei tedeschi e altri registi intellettuali europei è stato quello di pensare che il repertorio popolare e borghese ottocentesco fosse lontano da noi soprattutto in senso contenutistico, per i valori che difendeva. E su questo hanno lavorato: nell'elaborarne il messaggio, attualizzandolo in ricontestualizzazioni più o meno audaci, ecc...
Ma così facendo hanno scelto la via più facile e soprattutto non hanno risolto il problema.
Non sono affatto i contenuti del Profeta o di Robert le Diable che mettono in crisi noi pubblico contemporaneo... e nemmeno la lungaggine, nemmeno le diversioni spettacolari.
E' proprio la natura stessa di quel tipo di "musica teatrale",con la schematicità delle sue forme, la prevedibilità delle sue armonie, la rigidità delle sue melodie che ci mette in crisi.
Da questo punto di vista, Wagner che abbiamo citato è infinitamente più facile, sia per un regista, sia per il pubblico.
In Wagner infatti il rapporto fra decorso musicale e narrazione teatrale è modernissimo: da Wagner nasce tutta la drammaturgia musicale moderna.
Smontarlo e rimontarlo (proprio come dici tu) è tutto sommato fattibile, senza grossi traumi; con Wagner possiamo tranquillamente discettare di "contenuti", dando per scontato il problema linguistico.
Con Meyerbeer siamo ancora fermi lì, invece... incatenati al problema di far passare come "credibile" o, come dici tu, relazionabile all'oggi una narrazione musicale che si fonda su formule lontane da ciò che il pubblico odierno considera un convincente rapporto fra narrazione e musica; ed è un problema che va risolto senza tradire quelle formule, senza emendarle o snaturarle (è l'esempio che facevi con gli Ugonotti di Gavazzeni) e senza nemmeno trasformarle in gags, ma al contrario scatenandole sull'immagine attuale (come il valzer nella balera del Macbeth di Jones).
Il rischio che corre un genio riconosciuto come Lepage è, secondo me, quello dov'è già rovinosamente caduta la Fura, cioè in un mero adeguamento hi-tech del vecchio decorativismo, come se Zeffirelli, parlandone da vivo, scoprisse il computer o la videografica.
Assolutamente giusto.
Infatti, come sai, qua su Operadisc non siamo stati per nulla indulgenti con la Fura e il fallimentare Ring valenciano-fiorentino.
Ma il problema di questi registi, così come di Zeffirelli, non consiste per me nel figurativismo esteriore e nell'effettismo scenotecnico, quanto nell'incapacità di inverare nell'immaginario odierno le antiche forme musicali. Zeffirelli è un puro dilettante in questo senso.
Tu giustamente citi problemi "contenutistici" anche per Meyerbeer. Riflessioni storicistiche, analisi drammaturgiche, ecc...
Giusto, guai se non ci fossero.
Ma, nella fase in cui siamo (ossia all'abc di una eventuale rinascita meyerberiana), io suggerirei di non lasciarcene troppo condizionare.
Alle fine, di quel Macbeth che ho citato, quello di Jones a Glyndebourne, non sono state le audaci riflessioni interpretative/psicologiche a imprimersi nella mia mente, quanto la spaventosa, elettrizzante, sconvolgente forza poetico-emozionale di quelle immagini associate a quella musica.
E lo stesso direi, personalmente, della Forza del Destino di Pountney a Vienna (che invece, mi pare di capire, non è piaciuta a Maugham)
Salutoni,
Mat