Il personaggio di Maria di Magdala è uno dei più suggestivi, complessi, discussi del Nuovo Testamento.
L a sua eredità si imprime in tutta la cultura occidentale, e non solo direttamente, ma soprattutto indirettamente: ogni volta che una donna letteraria (e sono tantissime) esprime una sorta di incoerenza o ondeggiamento fra peccato e santità, perdizione e salvezza, carne e spiritualità, istinto animale e fede sacrificale... dietro a lei si può sempre vedere la Maddalena, il suo grandioso ritratto e il suo invalicabile modello.
A livello operistico non ha avuto molte incarnazioni dirette, eppure il suo profilo enorme si staglia dietro a quello che qualcuno considera il più grande ruolo femminile di tutta la Storia dell’Opera: Kundry, la peccatrice e santa che lava i piedi del salvatore, sua serva e sua tentatrice, immensa nella colpa e immensa nella redenzione.
Eppure alcuni anni prima (quando ancora nemmeno si sapeva che Wagner si sarebbe interessato a lei, anzi nemmeno si era aperto il Festival di Bayreuth), il giovane e ancora sconosciuto Massenet si era già dedicato al personaggio, con un oratorio ("Marie-Magdeleine" appunto) che oggi pochi ricordano, ma che alla sua epoca riscosse un tale successo da conferire la fama al musicista.
Certo, il merito non fu solo di Massenet ma anche e forse soprattutto della diva che lo ispirò e che consacrò la creazione dell'opera, ossia Pauline Viardot, che non solo è la sorella della Malibran e la figlia di Garcia, ma che è anche stata la maggiore personalità artistica del secondo Ottocento.
E’ notevole pensare che Wagner (che se avesse potuto avrebbe mandato al rogo tutti i lasciti di Garcia e della Malibran) di fronte alla Viardot si genuflesse. Purtroppo quando lui attinse alla massima gloria (negli anni 70) la cantante stava vivendo il suo tramonto; nondimeno le consegnò il suo spartito del Tristano e lei organizzò una privata esecuzione del secondo atto.
Sarebbe ora di riflettere seriamente su quanto il modello rappresentato dalla Viardot abbia influito sulla scrittura di Wagner: un modello che agiva nella sua testa, sicuramente, quando scrisse proprio quella Kundry che (per estensione e scrittura declamatoria, oltre che per personalità) sembra direttamente ricalcata dalle caratteristiche della Viardot.
E’ difficile immaginare oggi che razza di autorità potesse rappresentare per tutta la cultura europea Pauline Viardot, negli anni splendenti del “libero scambio” (1850-1870).
E dire che fino a prima era solo stata la stimata (per carità), ammirata …brutta copia della sorella.
Meno virtuosa della Malibran, molto meno vivace e seducente, infinitamente meno bella (la Viardot era davvero brutta, senza speranza), molto meno “diva romantica”, la nostra non poté davvero esprimersi se non quando la Storia e il gusto del pubblico stabilì che era arrivato il momento giusto.
Dopo cioè che il finimondo provocato dal 1848 aveva buttato all’aria i fondamenti stessi della cultura romantica e aveva aperto quella del trionfo della borghesia: come la scienza, anche l’arte (musicale, pittorica, letteraria) si scatenò in quel ventennio in una fase di ripensamento generale di tutti i linguaggi, di esaltazione intellettuale e positivista, di gioia di correre a perdifiato fra ricerche, sperimentazioni, avanguardie, con spirito ironico e profondo, senso tragico lucido e netto, senza più sentimentalismi, idealismi e trasalimenti virginali.
Erano gli anni del carbone, delle ferrovie, dei commerci globali, dell’esplosione scientifica, medica e tecnologica, ma erano anche gli anni della ricchezza, dello slancio di una borghesia trionfante che sapeva ancora trovare il punto di equilibrio (poi tristemente venuto meno) fra conservazione dei risultati raggiunti e continua, relativistica, messa in discussione. Che quelli siano stati gli anni in cui finalmente si è data a Wagner una chance non è affatto sorprendente.
Bene, quelli furono gli anni del riscatto anche per Pauline Viardot.
Non fu più la figlia di tanto padre e la sorella di tanta sorella; divenne qualcosa di completamente nuovo e persino il simbolo del superamento di tutto ciò che padre e sorella avevano rappresentato: il trionfo del romanticismo; il trionfo del vocalismo "belcantista".
Finalmente anche la sua intelligenza affilata, ironica, razionale ebbe la sua stagione.
Nel giro di pochi anni, la Viardot non solo creò di punto in bianco – con la Phidès del Profeta di Meyerbeer - la nuova figura vocale/psicologica che oggi chiamiamo “mezzosoprano” (ben diversa dalla “seconda donna” delle opere romantiche).
Soprattutto impose – sulla sua personalità e sul mito che la circondava – un modello tecnico-vocale rivoluzionario, spalancato sul futuro, a cui attinsero i maggiori compositori dell’epoca.
Verdi ottenne da lei la sua più incredibile Azucena (Covent Garden, alla prima dell’Opera in loco).
Saint-Saens si dovette limitare a sognarla come Dalila: si consolò dedicandole il proprio capolavoro.
Per lei Brahms scrisse la Rapsodia per contralto e Gounod la Sapho.
Chopin stesso le dedicò alcuni dei suoi rarissimi brani per voce.
Con lei e per lei Berlioz procedette al suo storico recupero di Gluck: Alceste e Orfeo risorsero nelle mitiche recite parigine, per le quali Berlioz elaborò le sue famose "versioni" (dominatrici per un secolo) proprio a partire dalle caratteristiche della star.
Oltre che grande cantante la Viardot era una grande intellettuale. Nei suoi salotti francesi e tedeschi confluivano i maggiori poeti, artisti, musicisti, filosofi e scienziati dell’epoca: Turgenev, suo amico prediletto, arrivò a citarla nei suoi romanzi; da Clara Schumann si faceva accompagnare al pianoforte e addirittura suonava spesso con lei a quattro mani; Gounod dovette il suo successo alla “protezione” della Viardot; alla sua quotidianità appartenevano Lizst, Rossini, Mussorgsky.
Per il giovane Massenet la possibilità di comporre un oratorio in tre atti (praticamente un’opera) per cotanta diva doveva essere esaltante (o terrificante). Ancora di più se si pensa alla particolare importanza del personaggio della Maddalena.
All’epoca della composizione, la Viardot era già una matura dama di mezz’età (54 anni per la precisione), già uscita dal teatro e dedita ormai solo al concerto.
La scrittura di questa Magdeleine è dunque un calco interessantissimo della vocalità dell'ultima Viardot (come la Rapsodia di Brahms, di pochi anni precedente).
Ma non solo…
E’ anche un calco della sua tecnica.
Intanto, che voce aveva la Viardot?
Nella sua gioventù era impegnata (come la sorella) in un repertorio un po’ a cavallo fra i registri di soprano e contralto.
Che la formazione originaria fosse "belcantista" è fuori discussione: con un padre del genere...
Anche lei, come il padre e la sorella, non fu mai troppo a suo agio con gli acuti (evidentemente la ricetta Garcia , spettacolare in quanto a virtuosismo pirotecnico, non era poi così efficace nella gestione del registro acuto).
Sul virtuosismo pirotecnico la Viardot non puntò mai, anzi - nella sua seconda carriera - ne fece a meno.
Nè si concentrò (come la sorella) sulla pienezza del medium e la ribollente sensualità timbrica.
Evidentemente non le interessava essere l'icona della seduzione e del patetismo grandioso.
A lei premeva incarnare una nuova figura d'artista, in linea con i tempi: tragica e intellettuale.
Il suo piglio severo e brillante insieme la faceva assomigliare alle grandi donne del suo tempo: c'era un po' di Cosima in lei, un po' della Regina Vittoria.
Aderendo al nuovo respiro dell'epoca, mettendo a frutto la sua sterminata cultura e il suo gigantesco intuito tragico, la Viardot cominciò ad accanirsi sull’intensità della parola, sull’esaltazione del concetto, sulla pregnanza tragica dell'eloquio, inaugurando un tipo di suono rivoluzionario, disadorno, tagliente, senza alcuna concessione a piacevolezze timbriche o virtuosismi, anzi arido, spoglio, per alcuni persino sgradevole, ma che fece impazzire gli intellettuali di tutta Europa.
Il suo mito contribuì a rovesciare il ricordo dell'età operistica precedente, quella del romanticismo pieno in cui pure lei era nata.
Tanto per fare un esempio, rivolse al povero tenore Mario - illustre simbolo del vecchio tenorismo nonché marito di Giulia Grisi - parole di un’ironia sprezzante; lo descrisse come un signore un po' patetico, tutto moine e sdilinquimenti, pur ammettendo che “era tanto carino”.
D'altronde - aggiunge - quello era il gusto dell'epoca, sottolineando in questo modo lo iato apertosi, con gli anni 50, fra un mondo tramontato e un po' ridicolo (a cui era appartenuta anche lei) e la contemporeneità di cui, evidentemente, sentiva di essere un modello.
Le musiche scritte per lei negli anni 50-70 (e le testimonianze d’epoca) confermano che la “seconda” Viardot, dal Profeta in poi, si stava trasformando: da belcantista che era stata in gioventù, stava diventando un formidabile proemio a quel “declamato” che in quegli stessi anni cominciava le sue prime, titubanti esplorazioni fuori del tracciato vocalistico.
Tutte le partiture dedicate alla Viardot nella sua maturità non solo assecondano la sua evoluzione vocale (come tutti quelli che praticano il declamato, anche la Viardot rimase presto efficiente solo nel centro della voce, confinando gli acuti solo al parossismo tragico: anche questo è assai più vicino a Wagner che a Garcia), ma soprattutto sono uno specchio dell'evoluzione della sua tecnica: le parti scritte per lei sono infatti sempre più scevre di melismi, di fraseggi elaborati, di agilità. Il padre e la sorella sarebbero rimasti allibiti a leggerle.
Se ancora qualche traccia di virtuosismo restava nel Profeta (anzi, la spericolata cabaletta "comme un eclair" dimostra la solidità vocalistica della "prima" Viardot), tanto Gounod, quanto Brahms e Massenet le dedicarono solo melodie amplissime ma sillabiche, ristrette nell'estensione (proprio come in Wagner) ma accanitamente concentrate sulla parola e sull’intensità del flusso poetico-emozionale (idem). Praticamente una declamazione lirica che si denuda nell'umanità grandiosa dell'accento e si avvicina miracolosamente alla “parola”.
Si pensi a “O ma lyre immortelle” e al tema sublime della Rapsodia per contralto... Come scrittura vocale (sillabica, emozionale, dilavata e austera) siamo già in terreno Wagner: benché (non dimentichiamolo) Gounod e Brahms fossero i meno wagneriani dei compositori, ...Kundry è lì, a un passo.
Il caso di Massenet è molto significativo: lui in realtà non era affatto un Wagneriano sul fronte della vocalità.
Lui amava le voci acute, giovani, seducenti, atletiche.
Gli piacevano vere “vocaliste” (come la Sanderson) e ne metteva alla prova in ogni modo le possibilità virtuosistiche.
Il fatto che la scrittura della Maddalena sia così diversa (centralizzante, severa, declamatoria e spoglia), non si spiega se non con la volontà - anche da parte sua - di valorizzare la voce e l’eccentricità “tecnica” della sua leggendaria interprete.
Quello che scrive qui è puro declamato. E dovrebbe essere solo una declamatrice ad avventurarsi in questo ruolo.
Le Maddalene moderne non sono tante: stranamente molte di loro hanno formazione vocalista; ad esempio la sconclusionata e stremata Caballé, oppure la pasticciatissima Mazzola; peggio di tutte la Illing, in un orrido CD diretto da Bonynge (uno dei peggiori servizi discografici mai resi alla causa di Massenet).
In mano loro, la grande aria con cui Maria Maddalena si presenta risulta bolsa, banale.
Se però si ascolta in questo stesso brano la Crespin tutto diventa chiaro: la melodia - così schematica e sobria - assume un senso, grazie al dominio che la Crespin vi esercita, col respiro perfetto, l'esaltazione di ogni colore.
Le parole esplodono di emozione! Provare per credere.
La Crespin vocalista non lo fu mai: inoltre, all’epoca di questa incisione, era in fase di pronunciato degrado vocale (gli anni ’70).
In compenso era una grande declamatrice, una grande wagneriana e soprattutto una grande Kundry.
In questo brano la Crespin si mette in cattedra: anche perché non solo ci fa capire come si dovrebbe cantare questa Maddalena, ma anche di intuire l’humus da cui si è generata meno di dieci anni dopo l’altra: quella di Wagner.
Una Maddalena oggi? Nessun dubbio: Waltraut Meier.
Scusate la prolissità, ma sarei davvero felice che il discorso Massenet fosse allargato col contributo di tutti.
Salutoni,
Mat