Un'opera a torto e troppo frettolosamente collocata nel repertorio verista per motivi cronologici.
Si tratta invece di una finissima scrittura ricca di carismi teatrali e molto fedele alla visione naturalista francese.
Capolavoro teatrale che può definirsi popolare al pari delle tre perle verdiane Trovatore, Traviata e Rigoletto per la capacità di incontrare il gusto di molti in virtù delle infinitamente belle melodie, della simpatia dei quattro personaggi (anche la Principessa di Bouillon riscuote molti gradimenti) tra cui si distribuiscono con grande equilibrio le dinamiche della vicenda, della passione, dell'effetto consolatorio e dell'uso dei più raffinati artifici letterari e scenici. Certamente non perchè improntato a una quotidianità semplicemente trasposta in sceneggiatura.
Alla base della vicenda un impianto filosofico sfaccettato: ispiratore del Verismo italiano il Naturalismo francese è pervaso da una visione deterministica per cui il destino umano è reso ineluttabile dalle strutture sociali ed è impossibile cambiare il proprio status. Così Adriana, nonostante la nobiltà del suo animo e la qualità della sua arte, è ostacolata nel matrimonio con Maurizio di Sassonia e Michonnet - l'osservatore narratore esterno, "direttor di scena peggio di un lacchè" - riesce a farle solo da padre e tutore.
La Principessa non è un personaggio negativo in sè, ma un umano prigioniero (così compare in scena) più della sua condizione di moglie e del suo inquadramento sociale che non delle sue passioni. Il rapporto morboso più che amoroso e l'essere attrice e vittima del crimine nella sua condizione di nobildonna è pienamente in linea con la concezione naturalista, di cui Eugène Scribe (il drammaturgo autore della materia originaria traslata nel libretto) conobbe i primi anni ma soprattutto i primi barlumi.
Contrariamente a quanto può sembrare la vicenda non è incentrata sulla primadonna Adriana, ma sull'icona "Adrienne Lecouvreur della Comédie-Française", non semplicemente donna e attrice ma allegoria del teatro, così come si annuncia.
"Ecco, respiro appena" riporta al silenzio in sala e "Io son l'umile ancella" all'alzarsi del sipario, metafora dell'inchino. Nel prologo di "Io son l'umile ancella" l'attrice, nell'entrare nel personaggio, commuta la formula da declamazione ("Così non va bene") a canto divenendo medium (strumento di interpretazione e diffusione) completo nelle possibilità espressive.
Il teatro come medium è la realtà immanente, di cui è rappresentazione allegorica la musa Melpomene, l'evento ciclico e quotidiano della rappresentazione "eco del dramma umano", che nasce e muore ogni giorno: "un soffio è la mia voce che al nuovo dì morrà".
"Non sarebbe attrice se non dormisse quando il mondo è desto" è la chiara allusione a ciò.
La "mise en abyme", artificio letterario e teatrale tra i più geniali e sublimi, trova competa realizzazione in questa opera, persino negli sviluppi più moderni attribuiti al cinema.
I livelli dello svolgersi della vicenda - quello reale e i riquadri di "teatro nel teatro" - rimagono distinti, speculari e reciprocamente funzionali nelle dinamiche.
L'osservatore esterno Michonnet - colui che serve l'arte con cui non riesce a fondersi - descrive la scena di teatro nel teatro senza aggiungere commenti ma celebrando la verità.
Come la scena dell'omicidio mediante il veleno in Amleto di Shakespeare, il monologo di Fedra è rivelatore di un tradimento e momento di snodo della vicenda determinante l'epilogo, come voluto dalla tradizione per cui si ritiene che Adriana sia stata avvelenata dalla rivale.
Si attribuiscono al cinema la soluzione narrativa in cui i protagonisti vivono indistintamente il sonno e la veglia non sapendo in quale dimensione si trovano e a quale livello di coscienza operano e quella per cui (Il ladro di orchidee) sono contemporaneamente dentro e fuori la vicenda che scrivono (o viene scritta, da un punto di vista neutro).
Nell'ultimo atto Adriana si risveglia ma - come nell'insegnamento freudiano - trova come in un sogno la soddisfazione dei suoi desideri: l'improbabile presenza di Maurizio.
Presto si manifesta uno stato onirico in cui non riconosce quanto ha intorno, forse un richiamo alla scena del sonnambulismo in cui Lady Macbeth "gli occhi spalanca, eppur non vede...", per volontà di Verdi quasi non canta ma parla.
Anche "Pagliacci", una delle poche (se non due) opere frequentemente rappresentate ascrivibili al Verismo, contempla il teatro nel teatro, ma i piani si fondono, la commedia trascolora in fatto reale (vero anche perchè ispirato a un evento di cronaca) e la vicenda si chiude su quel passaggio: "La commedia è finita".
Adriana invece si trasfigura in musa, "Melpomene son io", per rinascere, per operare la palingenesi di cui il teatro sarà protagonista sin tanto che esisterà un dramma umano, proiettando il ruolo dell'uomo come attore all'infinito, proprio come consente la "mise en abyme".