Alberich ha scritto:Grazie Mat, credo che tu abbia perfettamente centrato il punto.
A me, ammetto, piace molto nella Gioconda, soprattutto nel duettone con Alvise (parlo dell'edizione Gavazzeni).
Sono sorpreso...
Dovrei sorprendermi?
Mi immaginavo che ognuno dicesse la sua per ricordare questa grande artista (che i soliti passatisti assurgono a emblema dell'età dell'oro) e invece, a parte me e Alberich, nessuno ha nulla da dire.
In fondo, se lo posso dire, non sono poi così sorpreso.
In effetti noi di Operadisc siamo una comunità particolare: non ci fidiamo dei vangeli vocalistici e crediamo che il canto sia prima di tutto una forma d'arte.
Ed è su questo versante che giudichiamo il contributo di un cantante: il valore artistico appunto.
La Simionato un'artista lo era... nel senso che la sua era una "vera" personalità.
L'intelligenza, l'acume, l'intuito, il carisma non le mancavano.
Eppure... vista con gli occhi di oggi, ci si accorge che metteva il "linguaggio" (tecnico-stilistico) al di sopra dell'arte.
E' l'esempio più impressionante che conosca di cantante "cerebrale" (altro che Fischer Dieskau...).
Era cerebrale perché (era più forte di lei, era la sua natura) sottoponeva qualsiasi "segno" canoro, mimico, espressivo a un controllo severissimo a monte.
Aveva in testa un modello di "cosa deve fare un vero mezzosoprano" (un modello alto, intendiamoci) e lo applicava con tale accanimento da risultare sempre troppo prevedibile.
La cosa che sconcerta è che di solito a nascondersi dietro alla "forma" sono le piccole personalità: la famosa Ebe Stignani, ad esempio, non poteva che riconsocersi a sua volta nell'ossessione del "modello tecnico-sonoro"; ma cos'altro avrebbe avuto, lei, da offire?
Al contrario, ciò che rende interessantissimo il caso della Simionato è che lei, dietro quel formalismo sconcertante, racchiudeva una personalità fortissima, un'intelligenza musicale e drammatica da vera dominatrice.
Anche la sua carriera è stata così: passettino dopo passettino, senza lasciarsi condizionare, senza lasciarsi mai cogliere impreparata, dalla lunga gavetta, dai piccoli ruoli ai trionfi in tutto il mondo; con razionalismo, celebralità, calcolo e certezza granitica dell'obbiettivo da raggiungere.
Ne usciva uno strano compromesso fra forza teatrale e controllo scolastico, che (come sempre per i grandissimi) non era un "limite", ma una "caratteristica" che aveva solo bisogno dei personaggi giusti in cui esprimersi.
Personaggi che non potevano estrinsecarsi nella passione o nell'ardimento: ogni volta che la Simionato "simula" la passione (mi viene in mente il suo quarto atto di Aida) risulta efficiente, ammirevole, musicalmente trascinante... ma basta una nota, una striatura, un respiro di una vera grande Amneris (mi viene in mente la Castagna, la Klose, la Bumbry, la Meier) per avvertire la differenza fra la regina dei piedistalli e una semplice (ma ben più vera) "cantante-interprete".
Ho affermato di apprezzarla nella Principessa di Bouillon.
E' una questione psicologica.
La Bouillon, di tutta la letteratura operistica italiana, è il ruolo più "calcolatore" che esista. E' lssuriosa senza essere sensuale; è aristocratica pur comportandosi da troietta; è imperiale pur fuggendo vigliaccamente; tutto è calcolo; tutto è finzione.
Tranne la collera, tranne l'invidia, tranne il livore e la frustrazione, che però vanno cocciutamente mascherati.
L'effetto - per me straordinario - della Simionato in questo ruolo sta nell'efficacia anche drammaturgica che una volta tanto i suoi formalismi conseguono.
Il suo solito "formalismo" da bravo mezzosoprano che fa tutto quel che deve fare lo sentiamo anche qui, ma qui ...la fastosità costruita a tavolino, la scenosità sobria e altera, le belle note tutte giuste, tutte "tonde" e tutte scontate diventano "sostanza drammaturgica", perché è il personaggio stesso che vive di forme, di coperture, di calcoli e filtri retorici, fondamentalmente amorale, una macchina.
E' per questa ragione che la Bouillon della Simionato (maestosa e finta, sontuosa e calcolatrice) sbugiarda e ridicolizza con la sua classe tutte quelle ben più diffuse principesse che scivolano nella scorciatoia di fare le "cattive" e risolversi in esternazioni grezze, volgari (penso all'insoffribile Cossotto, qui come in quasi ogni altro ruolo). Solo la Kasarova - un'altra grande "calcolatrice", come Giulietta - ha lasciato della Bouillon un ritratto altrettanto credibile.
L'altro personaggio in cui la Simionato mi pare (ancora oggi) quasi inarrivabile è appunto Azucena.
Dico quasi perché, in un personaggio così immerso nella psicosi, che credo si possa (in teoria) fare più di quanto ha fatto lei.
Eppure, se dalla teoria si passa ai fatti, lei resta la più grande, la più inquietante, la più completa delle Azucene documentate, almeno a mio gusto.
Sul piano drammaturgico addurrei le stesse motivazioni che già mi fanno amare la sua Bouillon: come per miracolo, l'esteriorità intellettualizzante del ritratto si fa interiorità viva del personaggio.
La finzione percepibile, il distacco tecnico, duro dell'interprete diventa la chiave per giustificare le inestricabili doppiezze e simulazioni della zingara.
Si dirà: ma anche Eboli è un personaggio "calcolatore"; anche Amenris (prima del 4 atto). Anche loro mentono e sono cattive.
Perché dunque questa preferenza ad Azucena?
Perché Eboli e Amneris, sia pure nelle loro menzogne e nelle loro colpe, sono dirette, vere, passionali.
Con Azucena non si capisce nulla... Il personaggio è talmente contorto, talmente sfuggente che non sai mai se è più importante quel che dice o quello che non dice; non sai mai quali progetti (deliranti o implacabilmente lucidi) stia davvero covando in testa, anche se sta dicendo tutt'altro.
Non si capisce perché si dia tanto da fare per salvare il figlio (raccogliendone i cocci a Pelilla) se poi lo vuole morto (e sarà lei a causarne la morte, pur potendolo salvare)! Lo usa solo come strumento?
Non si capisce perché gli racconta una storia (con i minimi dettagli, anche i più scabrosi) quando poi si affretta a negarla e reclamare il proprio amore materno! Vuole o non vuole che Manrico sappia la verità? Oppure vuole solo che la sospetti?
O davvero il racconto le scappa dalla bocca ...inavvertitamente?
Perchè poi, come una perfetta idiota, se ne va fin dentro gli accampamenti di Luna presso Castellor...
cosa cercava? Voleva raggiungere Manrico? E perchè?
Ma davvero (lei che conosceva ogni mossa del conte di Luna; lei che aveva persino sentito leggere la lettera di Ruiz che annunciava la presa di Castellor) non si era resa conto che quegli accampamenti che assediavano la rocca non potevano che essere del conte?
E cosa cercava lì? Di farsi arrestare?
Infine che ragione c'era (in presenza di Luna, di Ferrando, dei soldati) di mettersi a invocare l'aiuto del figlio (avendo ben cura di chiamarlo, si noti bene, per nome... caso mai qualcuno non capisse), se non quella di assicurarsi che una volta preso fosse condannato a morte (...non si sa mai! Dopo che Manrico aveva salvato la vita al Conte poteva scapparci una grazia... se poi quella zoccola altolocata di Leonora ci avesse messo becco la grazia era assicurata).
E non è ancora finita: perché in prigione, quando potrebbe salvare se stessa e Manrico (basterebbe infatti che anticipasse di qualche secondo la famosa rivelazione), preferisce tacere? La vendetta, certo....
Ma è una vendetta con conseguenze importanti: Azucena preferisce morire carbonizzata (anche se ne ha una paura boia) quando potrebbe cavarsela rivelando la vera origine di Mnarico!!!
E lui, il povero Manrico, il tanto amato "figlio suo"? Chi, se non lei, lo condanna a morte?
Non certo il conte! Il conte - se avesse saputo "prima" che Manrico era suo fratello - lo avrebbe sicuramente graziato, come aveva giurato al padre.
Fino a dove si spinge la doppiezza, l'incomprensibilità, la disumanità di questa donna?
Eppure (è proprio questo il bello!) non si tratta di una disumanità direttamente percepibile: anzi, ammesso che ci sia, è nascosta benissimo, dietro a comportamenti talmente "convincenti" che rischiano di essere tutti, completamente, incredibilmente falsi.
Se ci si ferma un attimo a pensare, si arriva a non credere più niente di quel che dice e che nulla di vero alberghi in Azucena: solo un'ossessione da nascondere a tutti, ma a cui tutto il resto si piega; un imperativo totalizzante (piuttosto simile a quello che ha guidato la carriera inflessibile e senza errori - forse anche senza passione - della cantante).
Azucena non può spiegarsi, come gli altri ruoli verdiani, coll'espressione dei suoi "sentimenti" (buoni o cattivi). I sentimenti che esprime sono maschere.
C'è solo l'inesorabilità di un obbiettivo portato avanti (con calma, pacatezza, freddezza, lucidità) per quindici lunghi anni, che la trasforma in un automa (a me ricorda l'ufficiale medico del primo Alien).
Procede secondo un progetto segreto e inderogabile, non vacilla, non può avere ripensamenti, perché si è disumanizzata votandosi "al progetto"-
Si è talmente sconcertati da lei che si finisce per non crederle nemmeno quando (finge?) di dormire e di parlare nel sonno (comodo, vero?) al quarto atto, quasi per trattenere il figlio e impedirgli di seguire Leonora verso la libertà.
In un ruolo del genere la maschera di prevedibilità e il senso del "dovere" della Simionato (unita al suo grande carisma e a quella faccia strana, da zingara cattiva, come ingessata in un'espressione immutabile) rappresentano una soluzione per il personaggio di un'efficienza che io trovo insuperabile.
Scusate la franchezza, ma, ad esempio, Zietta Ebe come Azucena mi fa davvero sorridere; quanto a Sora Cossotto mi fa sganasciare dalle risate,
La Simonato invece - quell'androide esotico, pacata, distante e sicura di sè anche nel più infuocato parossismo - mi fa paura.
E poi c'è la questione vocale.
E' fuori discussione che la Simionato fosse un'immensa vocalista (rientrava nel suo progetto inderogabile esserlo).
Ma d'altronde Azucena reclama questa grande eredità di memorie ancora belcantistiche, proprio quelle che - anche nei suoi ruoli tardo-romantici, nei suoi strettissimi legami con a Gounod, Chopin, Brahms, Berlioz - si portava dietro " Pauline Viardot (la cantante del "domani" ma pur sempre figlia di Garcia, sorella della Malibran).
La Viardot non fu - è vero - la primissima Azucena, ma nessuno mi toglie dalla testa che fu proprio lei (e la sua Phides creata pochi anni prima a Parigi) il "modello" che ispirò Verdi quando si immaginò questa madre degenere.
La Viardot fu d'altronde Azucena assai presto; non in Italia, ma molto più in su, quando (vincendo la sua scarsa considerazione per la musica di Verdi) creò l'opera al Covent Garden, in quella stessa leggendaria "prima" in cui Tamberlick lanciò il primo "oteco" della storia.
Belcantista convertita al Romanticismo. Questa era la Viardot e questo - per carriera e tipologia vocale - fu la Simionato.
Ma in comune con la Viardot (e dunque con Azucena) la Simionato ebbe un altro aspetto importantissimo: il tipo di voce.
Ne' l'una, nè l'altra erano quel tipo di "mezzosoprano" che intendiamo oggi, ma una sorta di via di mezzo, un ibrido fra soprano e coltralto possente e destabilizzante.
Infatti quando Phides (Meyerbeer) e Azucena (Verdi) furono scritte, non era ancora nato il mezzosoprano come lo si è inteso successivamente: eravamo ancora in una fase di preparazione.
Le due parti (vocalmente e drammaturgicamente così simili) sono modellate su una particolare declinazione di "primadonna ottocentesca" (il cui modello, lo ribadisco, aveva un nome e cognome, la Pauline Viardot delle seconda carrira): ella era, dalla fine degli anni '40 in poi, un maturo soprano già corto di suo, che l'età aveva reso ancora più dura sull'acuto. Non per questo era diventata un "coltralto" (tipologia che della sensualità dei centri aveva fatto il suo "amorosissimo" atout per molti decenni) o un "falcon", simbolo di sensualità e giovinezza infuocata nel Grand-Opéra.
Per la Viardot occorreva inventare nuovi ruoli, che valorizzassero la moderna tragicità di una voce incoerente e franta, dalle possenti lacerazioni, per cui gli acuti erano grida di dolore e i gravi affondi possenti, capace di sprigionare, proprio dalle sue crepe, fiammate ustionanti.
Era una tipologia nuova, o - come si diceva all'epoca - "alla Viardot"; che poi, nel corso dei decenni, si sarebbe da ciò sviluppato al moderno mezzosoprano è un'altra storia. Ma allora, ai tempi in cui fu scritto il Trovatore, è ancora una voce anfibia, soprano e contralto insieme, capace di velluti d'elegia sopranile e contemporaneamente di bagliori impuri, furenti, grandiosi.
Sia Meyerbeer con la sua Phides, sia Verdi con la sua Azucena scrissero - belli chiari in partitura - dei do sopracuti (che ovviamente i mezzosoprani di oggi tendono a ignorare) e basterebbe questo per far capire che il tipo di vocalità richiesto ad Azucena non dovrebbe compiacersi nel morbido e centralizzante spessore di certe trombe marine russe o americane (per non parlare delle nostre antiche ziette italiche, tutte belle tonde e piacevoli).
Anche da questo punto di vista, col suo continuo oscillare fra tessiture sopranile e contraltili, la Simionato è l'Azucena ideale.
Spesso mi ritrovo a pensare "chi" avrebbe potuto essere migliore di lei nella parte, nel corso del '900, ma finisco sempre per cadere nei sogni...
la Varnay negli anni '50, la Olivero negli anni '60, la Baker negli anni '70, la Norman negli anni '80.
Tra quelle "reali", la Bumbry avrebbe potuto, ma le mancavano le memorie belcantistiche; la Horne le aveva, ma le mancava la forza di personalità.
E così, sogni a parte, per me la vera Azucena resta Giulietta Simionato.
Scusate la prolissità,
Un salutone,
mat