Povero me!
Andate troppo veloci.
Avevo deciso di rispondere ai vostri messaggi non appena avessi potuto, e mi ritrovo superato da decine di post.
Ci provo lo stesso.
Partirei dall'incipit di Teo
E' incredibile come la questione "otelliana" ciclicamente torni in auge, il che a mio avviso pone due interessanti spunti di riflessione:
1) il personaggio in questione è davvero uno di quei personaggi carichi di fascino, come forse pochi nel panorama dell'opera verdiana (a mio avviso insieme a Riccardo il personaggio più complesso e affascinante)
Posso dire? Mi ponevo lo stesso problema.
Come mai ci accaniamo tanto su questo personaggio?
E' ingiusto...
Non ci interroghiamo altrettanto su ruoli ugualmente giganteschi, complessi, contraddittori... Non mi pare che sulla Kostelnicka della Jenufa, su Masaniello di Auber, su Boris ci siano state tante battaglie.
Teo afferma che questa è la prova della bellezza del personaggio...
Non so... io non amo particolarmente Otello, nè come Opera, nè come personaggio.
Credo che la ragione del nostro accanimento sia proprio la contraddizione spaventosa fra le origini del ruolo e la sua secolare vicenda interpretativa e di conseguenza il mito di ruolo "ineseguibile" (che affascina sempre, anche se in realtà dovuto - come ormai sappiamo - all'averne affidate le sorti a cantanti vocalmente e tecnicamente inadatti).
Sempre Teo si chiede un po' polemicamente
perché si è arrivati ai vari Galouzine, Antonenko, Forbis, Fraccaro, Botha, e....ah dimenticavo José Cura
Se il problema che ti poni è solo teorico (ossia perché è scomparsa la tipologia originale, il "modello Tamagno") allora potevi citare anche Vinay, Vickers e Del Monaco, che erano altrettanto distanti da quel modello quanto Galouzine e Cura.
Io personalmente sono d'accordo con Triboulet sul fatto che - se accettiamo, e in teoria possiamo accettare, la liceità teorica della "deviazione declamatoria" - allora Galouzine e Cura non sono stati per nulla i peggiori interpreti del ruolo.
Se ammettiamo che Vinay e Vickers violino il modello originale (come lo violava l'immenso e baritonale Zanelli o il popolarissimo Del Monaco) lo dobbiamo permettere anche a Galouzine e Cura, che in questa tipologia di interpreti non sfigurano troppo (per quanto i brani postati nel forum, come ho scritto, non rendano giustizia nè a l'uno, nè all'altro).
Ripeto Teo... il problema teorico è un conto, la storia interpretativa del personaggio è un altro.
Cercare di risalire nella storia per cercare di capire la vera "vocalità" di Otello è una cosa sacrosanta, ma negare - sulla base di queste scoperte - l'impegno, il talento e talvolta le rivelazioni di quasi un secolo di Otelli declamatori sarebbe sbagliato.
In questo mi sento molto vicino alle difese di Triboulet.
Nessuna analisi storica e filologica ci autorizzerà mai a sottostimare il contributo degli Otelli declamatori (specie i giganti della loro categoria) e non è questo l'intento della nostra ricerca.
Mi stacco da Triboulet solo quando ho la sensazione (forse sbaglio
) che pencoli un po' dalla parte opposta, avanzando il dubbio che ...forse i declamatori così distanti da Otello non sono e che l'ideale sarebbe
Triboulet ha scritto:una versione "pavarottiana" d'Otello con tutte quelle nuances che riuscivano a metterci Vickers o Vinay,
No, Triboulet... questo non è possibile.
Se noi vogliamo recuperare il modello Tamagno, non è solo vocalmente che dobbiamo farlo... E' anche culturalmente, idealmente...
Non basta avere la voce di Pavarotti e le "nuances" di Vickers.
Non è possibile essere tenori contraltini tardo romantici come tecnica e contemporaneamente sfoderare i chiaroscuri, le aperture coloristiche, le proiezioni drammatiche e i ruggiti tragici di un declamatore.
Non è solo questione di incompatibilità tecnica, ma soprattutto "ideale".
Un tenore alla Duprez-Tamberlick-Tamagno deve anche incarnare qualcos'altro anche poeticamente... una memoria di antica cavalleria, un rimpianto di un'epoca che non esiste più, il sogno di un passato epico e guerriero che si infrange insieme allo schianto umano e psicologico del protagonista.
Se vogliamo recuperare quel modello, dobbiamo avere il coraggio di andare fino in fondo e di dire addio alle meravigliose "nuances" di cui parlavi; dovremmo cercare di costrurie qualcos'altro.
In pratica, non ce ne facciamo niente di un Pavarotti che "imita" i declamatori (cosa che peraltro è avvenuta, ed è questa la prima causa del suo fiasco in quanto Otello).
Ciò che cerchiamo è una ...Callas dei tenori, che sappia cogliere l'essenza vocale-poetica del ruolo e trasferirla ai "rimpianti" e ai "sogni di gloria" di oggi.
Ma tornerei alla questione di Teo, o per lo meno alla prima parte.
Teo ha scritto:perché questo tipo di scuola che consentiva a gente come Tamagno, Paoli, Escalais, ecc. di poter tranquillamente sostenere ruoli così impervi ad un certo punto non ha più retto?
Ecco una bellissima domanda.
In fondo io credo che i "cattivoni declamatori" si siano "dovuti" buttare sul personaggio, proprio perché era estinto (con la prima guerra mondiale) il tipo giusto di interprete (tranne - come tu giustissimamente ci hai fatto osservare - in Francia, e poi vedremo perchè).
Perché il tenore della linea Duprez-Tameberlick-Tamagno è finito col '900?
Per me la risposta è semplice. Perché è finito il Romanticismo.
Perché solo il Romanticismo aveva creato quel tipo di tenore (Duprez inventò il do di petto!) e la crisi di quella cultura portò alla crisi di quel canto, di quel modo di esprimersi elevato e supersonico.
Il '900 ha introdotto nuove inquietudini, che potevano andare dal simbolismo decadente alle enfasi naturaliste, ma tutte - in qualche modo - anti romantiche.
I post di Enrico su De Lucia e Caruso sono, per me, assolutamente illuminanti.
Perché ci svelano, fra le righe, come anche De Lucia (che la vociologia ci ha sempre presentato come un campione "del vecchio stile ottocentesco" contro le innovazioni tutte novecentesche di Caruso) in realtà era a sua volta "il nuovo": era uno degli individuatori della "nuova cultura canora" da cui Caruso avrebbe preso le mosse.
Erano contrapposti, certo, ma proprio perché appartenevano alla stessa famiglia: De Lucia (che non a caso fu il creatore di tanti personaggi "veristi") era il nuovo, Caruso il nuovo rispetto al nuovo, colui che va oltre l'innovatore stesso.
E questo ci dimostra tante cose...
Intanto che il tenorismo post-(anti-)romantico prendeva le mosse dall'Opéra-Lyrique, l'invenzione sentimentale (e decadente, quindi anti-romantica) dei francesi a cavallo fra i due secoli come Massenet (un vero genio rivoluzionario, per me).
E poi che la "rivoluzione tenorile" anti-romantica (dei de Lucia e dei Figner) si forgiava su
1) leggerezza di canto, di espressione, di "nuance"
2) estensione e colore baritonale
Così era De Lucia (almeno nei giusti riversamenti), così era il giovane Caruso.
TUTTO IL CONTRARIO DEL MODELLO-TAMAGNO, del suo prorompere aulico, dello squillo argenteo e sovrumano.
Per qualche anno i due tenori (il vecchio alla Tamagno e il nuovo alla Caruso) convissero...
E non solo in Italia.
Giustamente, come ci fa notare Teo, in Germania Slezak era l'ultimo rappresentante del tenore tardo-romantico e contraltino. In Francia lo era Escalais.
Dopo la prima guerra mondiale però il "nuovo" vinse sul vecchio e i tenori baritonali, declamatori, coloristi si imposero sugli ultimi rimasugli (Lauri Volpi, Lazaro, Roswenge e qualche altro) del passato.
Dopo la seconda guerra mondiale ...il vuoto (considerato che persino un Corelli e un Pavarotti non hanno resistito al richiamo verista e declamatorio).
La fine del tenore Duprez nel '900 è stata inevitabile e irreversibile come quella dei baritoni Faure-Battistini. Il tempo li ha cancellati.
Il novecento infatti non è più epoca di rimpianti e di "sante memorie", ma di cambiamenti violenti, turbinosi, velocissimi.
E ancora oggi - che abbiamo assistito a innumerevoli rinascite di "modelli canori" che sembravano sepolti nel passato - è un tipo di vocalità che si ostina a non ricomparire...
Questioni genetiche, si chiede Milady?
Io non ci credo...
Si diceva lo stesso del tenore "rossiniano", poi dopo i successi di Blake e Merritt ne abbiamo avuti una sfilza.
Io credo che ancora oggi questo tipo di canto risulti ...non in sintonia con i nostri gusti e la nostra mentalità.
Ci vorrebbe un "medium" come è stato Blake per i ruoli David. Uno che sappia recuperare quel canto antico conferendogli il brivido della modernità.
Cosa che Lauri Volpi, ai suoi anni, non riuscì veramente a fare... almeno per me.
Era amato (o odiato) per la "stranezza" che incarnava... ma l'impronta rivoluzionaria per me non l'ha lasciata.
Anche io, come Milady, avevo nonni e bisnonni che andavano all'Opera.
E' tramite i racconti di mia nonna che ho saputo che il loggione di Bologna aveva rinominato il nostro "Lauri Cani" (per non parlare del povero "Tito Schiappa").
E qui mi riallaccio alla giusta contestazione di Rodrigo, secondo cui Lauri Volpi non sarebbe interprete così pessimo come io lo descrivo.
Rodrigo ha scritto:non me la sento di condividere la visione di un Lauri Volpi "maggiore" gran vocalista ma interprete nullo. A me pare che le sue interpretazioni siano ottimi esempi di quel piedistallo di cui si parlava nel post sulla Colbran. E sono convinto che avesse di proposito adottato questo coté per differenziarsi dalla retorica di segno opposto: quella dei singulti e dei vezzi cari ai Pertile e soprattutto al rivale di tutta una vita: Gigli.
(cut)
Ma all'interno del codice interpretativo portato avanti dal tenore romano (il gran gesto, il fraseggio sempre controllato, una recitazione (pare di capire) misurata sino allo stereotipo) io colgo una grande personalità tutt'altro che pigra nel portare avanti la propria visione. Anche in Otello non riesco a definire "trombone" il suo dolente Niun mi tema che mi lascia, anzi, meravigliato per l'interiorizzazione del dramma (proprio in un contesto in cui tutti esteriorizzano).
Direi, infine che Lauri Volpi si colloca tra quei cantanti che per scelta si pongono con un atteggiamento un po' distaccato - non mi vengono altri termini - rispetto all'espressività e nonostante ciò riescono comunque affascinanti; è la categoria in cui metteri anche Bjorling e Alfredo Kraus.
Come sempre, Rodrigo, dici cose interessantissime e brillanti, con cui non si può che concordare.
E tuttavia io continuo a essere perplesso nei confronti del Lauri Volpi interprete.
Intanto, devo dire, non mi convince del tutto la distinzione fra il giovane e il vecchio Lauri Volpi.
Mi spiego meglio...
Anche io considero solo il Lauri Volpi pre-bellico; l'altro non perdo nemmeno tempo ad ascoltarlo.
Il fatto è, però, che di solito quando un interprete invecchia l'unica cosa che va persa è la qualità della voce e la solidità del canto.
L'intuizione, la profondità espressiva, la lucidità musicale no. Anzi, si affinano...
Se Lauri Volpi ci fa un'impressione orribile negli anni '50, rispetto ai dischi di vent'anni prima, non sarà (è un'ipotesi) perchè in fondo oltre allo squillo e alla bellezza del canto non aveva altro da offrire?
E, perso quello, ha perso tutto?
Io quando sento la povera Gencer sfiatata e distrutta degli anni '80 cantare la "pastorella delle Alpi" o la "Gita in Gondola" (per non parlare dei suoi Bartok e dei suoi Chopin) provo ancora il brivido di intuizioni geniali, figli di una cultura antica e dai prolungamenti poetici misteriosi.
Quando sento il Gedda sessantenne sussurrare, con quel filo di voce che gli era rimasto, un "Je crois entendre encore" che strappa l'anima (miracolo di ritmo, di colori, di tenerezze, di rubati incastrti fra i trilli del pianoforte) lo preferisco mille volte allo stesso Gedda di trent'anni prima.
Col vecchio Lauri Volpi sento solo lo stesso "vuoto piedistalloso" (e come dici tu la stessa faciloneria musicale) di prima, solo con una voce divenuta oscillantissima in alto e depauperata al centro.
Piedistallo... ok... sempre lo stesso discorso.
Che tipo di piedistallo era quello di Lauri Volpi?
Perchè, quando sentiamo la Callas (sul suo piedistallo "pastiano") distillare fra pianissimi e indugi, anacrusi poderose e sublimi rarefazioni, il più sconvolgente "Ah non volerli vittime" che si sia mai sentito, abbiamo la sensazione della vita (nonostante il piedistallo)?
E perchè, quando sentiamo il giovane Lauri Volpi pontificare egregiamente "A te o cara", la vita non la percepiamo?
Certo ...il suono alle volte è talmente "vivo" di per sè, che quasi ci dà l'idea di un'interpretazione.
Nel terzo atto dell'Aida Lauri Volpi ci regala il più vero Radames che sia possibile sentire ancora oggi.
Ma se andiamo ad analizzarlo (nota per nota) non troveremo nulla che vada oltre a un fraseggio prevedibile e a un tono elegante.
Il suono (in quel caso e in tanti altri) ci basta... perché "è il suono giusto" (come nel caso di Otello).
Lauri Volpi era consapevole di aver reinventato il "suono antico", quello delle sante memorie di cui parlavamo, quello della linea Duprez-Tamagno.
E a questo proposito rispondo a Tuc.
non azzarderei il termine "ricreare", visto che non era passato un secolo dalla generzione di Tamagno
Eppure era il termine che usava anche lui... Visto che tu celebri la "cultura" di Lauri Volpi e quanto fosse studioso, dovresti sapere che lui stesso si è sempre considerato e definito un'anomalia (ovviamente di genio) e che il suo recupero del passato - a livello di suono e di emissione - era uno strepitoso atto di coraggio.
NOn sarà un caso che il "modestissimo" artista, scrivendo "voci parallele", abbia piazzato sè stesso e la Callas fuori da ogni parallelismo possibile, nel capitolo dedicato alle voci "senza confronto".
Il solito trombone... e tuttavia un po' di vero c'è.
Quel suono, il suono di Lauri Volpi, era davvero alla sua epoca un "unicum". Non lo dico solo io. Lo dice lui e lo dice chiunque analizzi la storia vocale di quegli anni.
Perchè lo avrebbe fatto, ti chiedi?
Intuire - intellettualmente - l'esigenza di ricostruire una tecnica perduta, desiderare di far risorgere un universo poetico tramonato è una cosa.
Fare di tutto questo uno strumento interpretativo (musicale e teatrale, in grado di dialogare col presente) un'altra.
Nessuno "storico" del canto (nemmeno quando riesce a trasferire le proprie ricerche su se stesso) diventa per questo un grande interprete.
La misera storia di Giuseppe Morino ce lo ricorda.
Ma torniamo al "suono" (meravigliosamente giusto, per il repertorio tardo-romantico) di Lauri Volpi.
Anche io, come tutti, quando sento il terzo atto di Aida con Lauri Volpi erompo soddisfatto dicendo che "questa" dovrebbe essere la voce di Radames
...però anche in quel caso non sono nè commosso, nè coinvolto.
Mentre mi basta che Vickers (che con Radames in teoria c'entra poco) dica "dessa!" al primo atto, per avere davanti a me l'immagine teatrale e musicale di un personaggio.
Il suono "esprime", ma non basta. Il teatro e la musica hanno le loro esigenze, oltre il suono.
Quanto al fatto che Lauri Volpi "non cadesse" negli errori di gusto di tanti suoi colleghi, è una cosa che gli fa onore...
Ma non credo che si sia grandi interpreti, semplicemente "non facendo"... Si è interpreti quando "si fa".
Scusate ma io la vedo così.
Salutoni,
Mat