da fadecas » mer 11 lug 2007, 23:29
Caro Matteo,
Le tue osservazioni sono stimolanti quanto impegnative, coinvolgono a macchia d’olio questioni di approccio all’interpretazione in generale, e pucciniana in particolare, nonché il giudizio su alcune grandi cantanti del passato, oltre che su Fanciulla del West che è il fulcro di questo thread …
Cerco di riflettere un po’ sugli spunti che mi hai proposto, forse con un po’ di disordine.
In premessa, non sono tanto convinto che la “verità” di un’interpretazione musicale si possa facilmente separare dalla “finzione”, non nel senso di “falsità” bensì in quello di costruzione, frutto di studio e di ricerca, più o meno consapevolmente condotta, atta a raggiungere un determinato effetto.
La linea di demarcazione che tu tracci abbastanza drasticamente, e in virtù della quale esprimi un giudizio negativo su alcune interpretazioni di Gencer, Scotto ecc. , mi sembra un po’ troppo condizionata da riserve, per altro pienamente condivisibili, sui risvolti personali e caratteriali di queste artiste – difficile negare che la Scotto non brillasse per simpatia né per modestia, o che la Olivero non fosse una borghese di ferrea ascendenza sabauda! - , piuttosto che tenere conto dello iato che sempre separa l’artista come essere umano da quanto di lui si evince nel momento in cui interpreta sulla scena o davanti ad un microfono, astraendo da sé, distanziandosi ed oggettivando, certo nei modi e nelle misure più svariate, in modo da concretizzare una parte di sé stesso nella “performance” di un personaggio musicale e teatrale.
Non credo che il grado di immedesimazione e empatia personale di un cantante rispetto ad un ruolo sia un criterio molto fondato, se non forse per un retrogusto di affinità elettiva che si possa individuare a priori. Comunque, spesso troviamo prestazioni maiuscoli di cantanti in personaggi apparentemente da loro lontanissimi (quanto c’era della Callas come persona, ad es., in ruoli di vittima o borghesi? Ben poco, suppongo, eppure la sua Amelia o le sue interpretazioni pucciniane siglano delle grandi letture, anche se non esclusive …)
E così, ad es., se apprezzo e sottoscrivo quasi nella totalità quanto ti suggeriscono la Elena della Scotto o la Stuarda della Gencer, però non me la sento di rinnegare la grandezza della stessa Scotto in Violetta, che a me suona tutt’altro che “insincera” ma convincente e coerentissima nella sua linea così pallida e smarrita, ma anche capace di crescendo lirico-drammatici trascinanti, pur se cesellati e ricercatissimi nella loro gradualità di effetti; così come, per non andare tanto lontano, trovo la stessa Gencer un’altra mirabile Violetta (nella registrazione del ’64) capace di trascolorare dalla leggerezza agile e staccata alle ombreggiature drammaticissime della sua cavata più densa con una grande mobilità espressiva … e gli esempi potrebbero continuare, a smentire questo parallelismo da te invocato, se lo consenti, un po’ meccanicamente.
E, per restare alla Scotto, se trovo originalissimo il suo approccio ad una Giorgetta che è quasi una Bovary trapiantata dalla provincia alla banlieu parigina, mi convincono altrettanto le amarezze distillate dalla sua Angelica, a prescindere dal quanto di “verità umana” più o meno partecipe o condivisa la Renata Scotto “donna” riuscisse a trasfondervi all’atto di plasmare in quel modo il personaggio. E’ il risultato del processo inventivo a contare, e ad esso concorre sempre una certa dose di “maniera” (il problema è quello di saggiarne di volta in volta la qualità e lo spessore).
Scusandomi per questo preambolo piuttosto lungo, e forse OT, che però intendeva chiarire il mio punto di vista rispetto ad una questione di metodo, passo alla “femminilità di Minnie”, e ai diversi modi di renderla con la voce e sulla scena, attraverso la carrellata delle sue interpreti storiche.
Preciso che il mio rimpianto per le interpretazioni “mancate” di Scotto e Kabaivanska va in direzione del fatto che questo tipo di interpreti avrebbero probabilmente – il condizionale è d’obbligo!- meglio sottolineato la contiguità, piuttosto che la alterità, fra Minnie e le altre protagoniste pucciniane.
Plot e ambientazione americana a parte – così come è d’uopo prescindere dagli esotismi nipponici quando si parla di Butterfly – io in Fanciulla, rispetto alle altre opere pucciniane, di diverso trovo soprattutto il modo nuovo e geniale di “agire” in presa diretta, in una parabola teatrale che sembra una competizione rovente e drammaticissima, il conflitto tra un universo maschile corale improntato alla durezza e all’aggressività dei suoi valori e delle sue norme (e pure intimamente eroso da un inconfessabile fallimento) ed un universo femminile, concentrato tutto e soltanto in Minnie, che ha modo di emergere e dispiegarsi, attraverso un lungo percorso che è come una gara ad ostacoli, in una complessità di sfaccettature - la sorella/madre che “sembra” dover affermare sé stessa in situazione di imparità con e talvolta contro gli uomini che le stanno attorno, l’innamorata trepida e insicura nella sua goffaggine, l’amante appassionata, poi frastornata e atterrita, la giustiziera che alla fine riesce, con un atto di autorevolezza ingenuo e insieme calcolato, a spingere la mozione degli affetti in nome di un suo movente privato calato sotto la parvenza del ristabilimento di una norma di equità, e quindi a conseguire una sua, tutt’altro che scontata e sudatisima, “vittoria” .
In fondo, Minnie non è che una diversa declinazione di un modello femminile peculiarmente pucciniano, anche nei suoi risvolti di intimismo piccolo borghese che lascia intuire per sussulti le grandi increspature di una nevrosi che rende sempre più precari i rapporti all’interno della coppia., e della società in genere.
Non diversamente da lei, anche Tosca e Butterfly si battono contro situazioni estreme scatenate da un mondo (maschile) sostanzialmente distratto o contrario alle loro ragioni, e ne soccombono dopo aver però consumato la performance della loro distruzione su un palcoscenico che le vede trionfare pur nel loro essere perdenti. In Fanciulla, invece, la situazione si capovolge, solo apparentemente, per il fatto che ad essere sconfitti sono i personaggi maschili, per i quali l’allontanamento finale di Minnie, quindi il suo riscatto, equivale alla morte del suo fantasma come donna.
La “verità” di Minnie, a mio avviso, consiste in fondo solo in questa caleidoscopica compresenza di aspetti contradditori e cangianti di un “femminile” che richiede all’interprete il dispiegamento di una caleidoscopica capacità di escursione da un punto all’altro di una gamma variegatissima di atteggiamenti (aggressività che ripiega in amarezza e rimpianto, timidezza e trepidazione, poi passionalità forsennata che si trasforma in un crescendo di ansia e terrore, fino alla ricostituzione precaria di una sorta di conciliazione finale), tutti pienamente calati in una instabilità nevrotica da pieno ‘900. .
Matteo ed io siamo d’accordo, mi pare, che Tebaldi e Nilsson restino troppo al di là di questa capacità di “finzione” per il risvolto di una vocalità troppo distesa, integra e rassicurante, nel secondo caso consegnata poi avvolta in un alone epico lontanissimo dal mondo pucciniano.
Una Scotto, invece, che ha dato letture così sottili e drammaticamente convincenti in Manon, Butterfly e Trittico, e/o una Kabaivanska che – a mio personale avviso, e ovviamente per esperienza diretta – ha disseminato brividi di lancinante tensione sia di Tosca che di Butterfly, se avessero vinto resistenze di altro tipo – forse legate alla pesantezza del ruolo o alla pericolosa preponderanza della barriera orchestrale – avrebbero potuto giocare in Fanciulla sulle intenzioni di accento e di fraseggio inverando meglio il filone di continuità fra questo personaggio e quelli che lo precedono e lo seguono nella parabola creativa pucciniana.. Trascurando forse le volute del canto spiegato, ma accentando in modo capillare i passi in cui la fanno da padrone il declamato, il parlato, o il puro grido, ed essendo comunque in grado di rendere, nel contempo, l’altro risvolto del personaggio, quei trasalimenti di lirismo e di intimità che erano, sia pure diversamente, nelle corde di entrambe.
Ma dato che ragionare su ipotesi controfattuali è alla fine sterile, ritorno, assecondando la tua giusta puntualizzazione, all’interpretazione della Steber, che sicuramente, fra quelle che ho citato come poco aderenti a Minnie, si staglia su un piano diverso e più recuperabile alla mia ottica, anche per la concertazione intensissima di Mitropoulos. Nulla da dire sulla ampiezza di orizzonti repertoriali del soprano americano, che fra l’altro apprezzo molto in Vanessa di Barber.
Tuttavia, la sua Minnie rimane per me ancora, soprattutto, un esempio di ragguardevole canto lirico sfogato, adamantino e sorvegliatissimo nella purezza del timbro, ma abbastanza limitato nei balzi e nelle escursioni dell’accento, mancante di quella rovente capacità di trasalimenti e ripiegamenti che forse presuppongono, per fare di Minnie un’interpretazione grandissima, una capacità di giocare con padronanza piena sulla pronuncia italiana, in modo da variare continuamente il peso delle vocali e delle consonanti nella mobilità del dettato pucciniano.
Infine, per quanto riguarda l’attendibilità – sia pure datata e ampiamente perfettibile – della Minnie della Olivero, non posso astenermi di apportare, sia pure con tutte le cautele del caso, la mia diretta testimonianza autobiografica, dato che ho avuto modo di vederla a teatro nella Fanciulla triestina del ’65. Anche se, certamente, le emozioni sopravvissute a tanti decenni sono passate attraverso un setaccio che le rende poco obiettive ed attendibili, perché i parametri di approccio sono inevitabilmente, e per fortuna, diversi. Comunque, confermo ad onta di quanto dice Matteo che, nonostante il timbro ormai un po’ appannato, la severa signora torinese si tramutava nel corso dell’opera in una creatura felina e forsennata, e che era capace – pur con quei manierismi che a mente fredda si possono considerare ciarpame tardo liberty- di rendere credibile ogni minimo accento e trapasso emotivo del personaggio pucciniano, dai momenti più raccolti a quelli disperati e vittoriosi. Così mi parve ancora, tanti anni dopo, quando ritrovai la registrazione live di quell’edizione.
Resto in fiduciosa attesa, comunque, di un’interprete che possa segnare anche per me una svolta sostanziale in questo ruolo, nelle direzioni che altri interventi hanno delineato come strade possibili.
Grazie per la pazienza, saluti
Fabrizio
Fabrizio