Triboulet ha scritto:volevo mettere sul piatto l'argomento, che evidentemente avete già affrontato, anche per capirne io stesso qualcosa in più.
Hai fatto benissimo, Trib.
Dovremmo con insistenza parlare di questo repertorio, su cui continua a gravare un disinteresse inspiegabile, anche in epoca di rinascite come questa.
Non parlo di Gluck ovviamente, che da sempre affascina pubblico ed esecutori (e che oggi ha trovato in interpreti come Gardiner e Minkovski dei veri e propri "medium"). Parlo dei decenni a cavallo fra sette-ottocento, in cui - mentre l'Europa "napoleonica" si trasformarva e si avviava a un punto di non ritorno - la tragédie Lyrique diventava lentamente Grand-Opéra.
Tu ti chiedi, giustamente, quali possono essere le vocalità sopranili "storicamente" adatte a questo repertorio...
La risposta non è facile, semplicemente perché questo repertorio è stato eseguito solo saltuariamente, senza coerenza, senza specifico approfondimento.
Muti è stato l'unico finora a concentrarsi seriamente su queste opere.
Ma la sua ottica (potenziare al massimo la maestosità dell'affresco a danno di tutto il resto, ridurre tutto a un gigantesco "piedistallo") è troppo limitata per ridare vita al "neoclassicismo francese".
A parte lui comunque poco è stato fatto.
Mancando una tradizione interpretativa complessa, tu giustamente suggerisci di partire dai quei pochi (anzi quelle poche) che vi ci sono cimentate.
E allora la Callas (nella sua unica Vestale) è giusto citarla.
Quella Vestale rappresentò fra l'altro il suo primo incontro con Visconti, che - alle prese con una drammaturgia lontanissima dalla sua estetica e dai suoi gusti - seppe per lo meno evitare di cedere alla "grandeur" fine a se stessa, ed evocò, con le sue prospettive lineari, una romanità "astratta" e anti-colossal... nella quale non so come si trovarono Corelli e la Stignani - poverini - ma in cui la "nuova Callas" si trovò benissimo.
Le foto della divina in quell'allestimento sono stupefacenti: il personaggio è anche fisicamente esaltato in una classicità luminosa ma non scultorea, anzi femminile, fragile, disadorna.
Una sacerdotessa di luce che incede fragile e sicura fra le geometrie di corridoi prospettici.
Tanto di cappello a quella Vestale...
Eppure, dell'eredità Callas, non è a quella Vestale che si corre ogni minuto per riascoltarla.
In fondo si possono capire i rimbrotti dell'anziano Toscanini ("Ma non si capisce niente di quel che dice!"); alla fine si avverte la grandezza della Callas, ma forse non la rivelazione.
Non saprei come spiegarmi meglio...
Ammetto che la Tebaldi e la Cerquetti (l'una in Fernando Cortez , l'altra negli Abencerages e nell'aria di Agnes von Hohenstaufen) suonano oggi abbastanza museali, nella loro solennità edonistica, canoviana. La prima inoltre eccede un po' in sottolineature emotive, suo eterno tallone d'achille.
Eppure comunicano istintivamente a questa musica un'energia solare, una fragranza di luce e di ottimismo che secondo me sono più in sintonia con l'entusiasmo napoleonico, col sogno di un nuovo mondo che in quegli anni si respirava e che da questa musica (più o meno involontariamente) promana.
Cosa ci vorrebbe, in teoria, per i ruoli Branchu?
Non saprei che dire...
Da un lato, come tu affermi, l'eredita "gluckiana" dovrebbe condurci a una fissità spoglia e pregnante, di solennità e semplicità tragica.
E' l'implosione "emotiva" della cultura greca, in bilico fra umanità esaltata ed essenzialità ancestrale di grandi simboli.
Proprio ciò che tu giustamente esalti nel neoclassicismo sublimante della Callas
Triboulet ha scritto:In qualche modo tanto in Gluck, quanto in Cherubini, Spontini o nella stessa Norma, c'era una dimensione grandiosa da tragedia greca classica che secondo me riusciva ad esprimere in maniera molto convincente.
(cut)
A dispetto della sua natura da vocalista Pasta-style secondo me la Callas aveva un concetto di estetica molto essenziale e classicista
E questo va bene...
E tuttavia nelle opere gigantesche del Neoclassicismo francese (mi riferisco soprattutto a Spontini, ma anche al Cherubini "grande", quello dell'Academie Royale - non Medea per intenderci ma Demophon, Anacreon, Abencerages, Ali Baba) si sente anche dell'altro: un coté esplosivo, esaltato, fiabesco, risplendente, impreziosito da orchestrazioni di taglio sinfonista e proto-romantico.
Insomma una gioia di grandi respiri che non possono esaurirsi nel recupero severo ed essenziale della grecità.
Spesso si dimentica l'entusiasmo, la pienezza vitale che queste opere celano (proprio come i successivi Grand Opéra di Auber, Rossini e Meyerbeer).
Oppure, al contrario, si esalta solo questo aspetto: il coté grandioso e celebrativo (come fa Muti) col rischio di rendere ancora più improbabili (come in ogni affresco) l'ingessatura psicologica dei personaggi.
Occorrerebbe trovare la sintesi tra classicità e pulsazione romantica.
Fondere la capacità di scavo e di implosione classica (sul modello della tragedia greca) con l'esplosione radiosa di chi sta camminando su un terreno nuovo e respirando l'aria frizzante del futuro che incombe: il Romanticismo appunto, il sogno di un'Europea diversa...).
Vuoi un esempio di una Vestale per me efficace?
Ebbene... io ti suggerirei quella della RAI del 1970.
Non so quale genio allora ebbe l'idea di chiamare per il ruolo Gundula Janowitz.
Ascoltando lei ho la sensazione di penetrare finalmene in questo repertorio.
La Janowitz non è un fulmine di guerra, lo sappiamo.
Ma - come per il Radames di Lauri Volpi - il "suono" della sua voce è già di per sè rivelatore.
Non ti emoziona, forse (perché il suono non basta) ma ti fa capire la strada che andrebbe seguita.
Quel suono luminosissimo e freddo, dalla bellezza timbrica spoglia di ogni colore, dall'accento semplice e onesto, scevro di profondità oscure, ti comunica l'idea l'ideale di una sacralità tutta luce, come alonata di presenze celestiali. C'è in quel suono (che pure è composto, sobrio, quasi distante) qualcosa che scintilla, che comunica (come i diamanti di Ariane) la pura felicità di risplendere.
Ogni "sentimento" romantico è bandito dall'accento della Janowitz ed è sostituito da un'astrazione canoviana (ed è giusto: se si cerca di sviscerarli psicologicamente, questi personaggi denunceranno i loro cliché "piedistallosi"),ma allo stesso tempo è bandita ogni seriosità cupa e professorale delle interpreti troppo ossessionate dalla "sublimità" tragico-gluckiana.
Un altro esempio?
La Vestale di Rosa Ponselle.
Anche lì senti la sobrietà monumentale e sublimante che trovi nella Callas, ma il rigoglio festoso degli armonici, la pienezza sensuale e invitante di quel timbro succoso come un'anguria matura, l'appena accennato senso "colossal" del fraseggio... tutto ciò mi rivela ancora la "gioia di esserci" che la Ponselle comunica.
Nella giovane Tebaldi vestita anche ingeunamente da Olimpia e Imazily (nella Napoli e nella Firenze ancora fumanti dal tempo di guerra) ritrovo gli stessi slanci felici, come l'impalpabile splendore dei suoi pianissimi.
Ancora una volta prevale quel senso di verità e di festa (in senso melodrammatico, si intende) che vorrei trovare in questi titoli.
La Gencer?
Io francamente non amo la sua Vestale come non amo la sua celebratissima Alceste.
A mio avviso era incapace di calarsi nella "verità" di un ruolo; men che meno nella "festosità".
Viveva di maschere e contraffazioni. Nei ruoli "Ronzi" erano proprio le mistificazioni, le verità non dette, il culto della contraddizione a renderla vera.
Anche nel decadentismo avvolto di vapori liberty e pre-raffaeliti (Francesca da Rimini, Straniero di Pizzetti, Falena di Smareglia) la sua verità esplodeva dalla finzione.
Meno mi persuade nei ruoli classici. e questo vale anche per la sua Agnese di Hohenstaufen con Muti (lei che sarebbe andata benissimo come Ermengarda).
A Muti va il merito di aver "sognato" per la sua Vestale scaligera l'unica cantante che allora poteva rappresentare una vera "Branchu": Jessye Norman.
Ecco una a cui sarebbero stati da affidare uno per uno tutti i personaggi della Branchu.
Culto della grandezza ed eloquenza di verità in un mix perfetto.
Salutoni,
Mat