Carissimi,
vi scrivo da Parigi, dal mio alberghetto su Boulevard Haussman, il giorno dopo aver visto a teatro il Werther di cui parla anche Pietro nell'editoriale.
C'eravamo tutti: amici e soci del Wanderer da tutt'Italia; tutti riuniti per l'avvenimento del debutto di Kaufmann.
Questo werther è il primo spettacolo che ho ammirato dal vivo all’Opéra National de Paris nell’era Joël.
Francamente non riesco a figurarmi come i Parigini possano averlo vissuto, loro che tanto hanno fatto per spingere Gérard Mortier alle dimissioni e sostituirlo con un irriducibile della retrovia, l’uomo della …Provincia battagliera e passatista, Nicolas Joel ex direttore del Capitole.
Joël ama l’Opera, ama i cantanti e soprattutto ama quel settore del repertorio (l’Ottocento “borghese”) per il quale i grandi direttori artistici del ventennio 1980-2000 – tutti più o meno debitori all’estetica della Contestazione, e certamente questo era il limite anche di Mortier – hanno troppo a lungo riservato la loro sufficienza.
Tutto ciò è positivo, intendiamoci, e l’idea di superare le conquiste del ’68 (che hanno significato la rinascita recente dell’Opera ma che oggi cominciano a coprirsi di muffa) e di spingersi verso nuovi orizzonti è probabilmente l'unico modo per proiettare l'opera nei prossimi decenni.
Ma Joël è troppo vecchio per questo: vecchio mentalmente.
Non è col "trapassato" che si supera il "passato".
Ci sarebbe voluta al suo posto una forza giovane e sconcertante, un anti-Mortier nel senso di "più avanti di Mortier"; uno con la capacità di riprendere, sì, Mirelle e Faust, affermandone il valore, ma con la capacità di ricollocarne l'estetica nel linguaggio di oggi, nelle turbolenze della contemporaneità, nelle visioni giovani e disincantate della generazione “globale”. Insomma quello che Jérôme Deschamps sta tentando di fare all’Opéra Comique.
Joel sberleffa l'estetica dei 50enni di oggi (quelli che amavano Mortier) non con una proposta adatta ai 30-40enni, bensì ai 70-80enni. In pratica la sua formula è quella di recuperare i buoni vecchi costumi di una volta, quando le regie erano facili, facili, i direttori validi routinier capaci di tenere uniti fossa e paloscenico (come appunto il buon vecchio Plasson, passatissimo di cottura) e i cantanti erano l’unica cosa per cui si deve andare all’opera.
Esattamente così era il Werther che Joël ha acquistato da Londra (quindi con l'aggravante di sapere bene cosa acquistava, dato che è uno spettacolo di sei anni fa) buttando a mare la produzione che l'Opéra aveva messo in cantiere l’anno scorso, che magari non sarà stata proprio geniale, ma era mossa, moderna, coinvolgente.
Ieri si vedevano bambini gnolosi e saltellanti, che fanno “girotondo” attorno a Schmidt e Johann; questi ultimi, costantemente ubriachi, sciorinavano tutto l’antico armamentario di scemenze da ubriachi all’opera che muovevano un sorriso compiacente alle nostre nonne; Sophie esprimeva la sua felicità infantile con giravolte su se stessa e smancerie da film sentimentali anni '40; non parliamo di quando entra al secondo atto con il solito scialle ai gomiti e il mazzo di fiori… Una cosa imbarazzante.
Io mi guardavo intorno per essere ben certo di non essere al Comunale di Modena o a Piacenza. No, ero all’Opéra-Bastille, il palcoscenico che negli anni di Gall e Mortier ha ospitato le più prodigiose realizzazioni di Marthaler, Warlikowsky, Carsen, Tcherniakov.
Probabilmente il video a cui fa riferimento Pietro, tutto fondato sui primi piani, nascondeva un po' lo squallore dell'allestimento. Ma dal vivo nemmeno gli interpreti erano in grando di elevarsi dal grigiume collettivo.
Ed è questa la cosa peggiore dell'allestimento.
Disporre di attori potenzialmente straordinari (Vernhes e Kaufmann anzitutto, ma anche la Koch non recita male) e lasciarli congelati nelle loro pose tradizionali e maldestre è un peccato mortale; vedere un Kaufmann (che non deve più dimostrare a nessuno la sua strepitosa "attoralità") rimanere fisso in scena nelle stesse pose che erano di Carreras trent'anni fa è persino doloroso.
Gli applausi infatti sono stati calorosi ma meno lunghi del previsto.
A Plasson è stata dedicata un'ovazione (come se i Parigini volessero - tramite lui - autoconvincersi di aver fatto bene a cacciare Mortier in funzione della buona e vecchia tradizione); ma in effetti la sua direzione era molle, lenta e bolsa. A suo onore va però di aver ottenuto, nella scena delle lettere e comunque in tutto il terzo atto, delle suggestioni psicologiche di tale intensità da lasciare senza fiato: è certo che l'opera la conosce bene e vi ha ragionato molto.
Inoltre è anche merito suo se nel monologo sulla morte del secondo atto - il punto di gran lunga più entusiasmante della serata - Kaufmann ha costruito una progressione poetico-vocale semplicemente allucinante.
Il cast (miracolo Kaufmann a parte) era davvero ben costruito, segno di quanto Joel ami e conosca le voci.
Benissimo Tézier (come già l'anno scorso) in Albert. Benissimo la Gillet (un po' sgradevole in alto ma con filature stupende).
L'uno e l'altra però erano sacrificati da una visione registica del personaggio di un'insoffribile banalità.
Vernhes è semplicemente un gigante: interprete e musicista grandioso che, nella vecchiaia, ha trovato il suo momento di maggiore creatività.
Il suo Bailli è infatti fenomenale.
E tuttavia... che tristezza vederlo fare il "buon vecchio saggio", un po' pasticcione, un po' tenero, col bastone e la beretta... Sperperare un artista di tale statura in uno spettacolo tanto maldestro è un peccato capitale.
La Koch non è un fulmine di guerra: la voce è faticosa in basso e non sempre intonatissima in alto. Inoltre non ha una di quelle personalità divoranti.
Però è intelligente.
Nonostante la regia la costringa a fare "le solite cose che fanno tutte le Charlotte" (e a cui oggi nessuno, tranne le nonne, può più credere), riesce ogni tanto a colpire: ad esempio l'espressione e il canto grigio, freddo, quasi di sfida con cui attacca l'aria delle "larmes", fissando la sorella quasi con durezza. Sono dettaglini che creano un'atmosfera... e che alla fine conquistano.
Il teatro è crollato all'uscita di kaufmann. E anche questo era prevedibile.
3000 persone che urlavano e si sbracciavano di fronte al più incredibile Werther che sia possibile vedere e sentire.
Ciò che Pietro ha scritto su di lui nell'editoriale è tutto assolutamente, inquietantemente vero.
Un'incarnazione semplicemente storica.
Tempo fa ricordo che destai perplessità quando dissi che "il fatto che la Callas sia tuttora una NOrma insuperata non è tanto un merito della Callas, quanto un demerito di chi è venuto dopo".
La penso sempre così!
Il grande risultato interpretativo deve essere tale per il momento in cui espresso; dopo deve diventare "storia".
E' per questa ragione che se affermo che Kaufmann, ieri sera, ha spazzato via, in un solo colpo, il ricordo di Thill, di Schipa e di Kraus, non significa affatto sminuire il contributo dei tre grandi sopracitati, ma riconoscere che il mondo è andato avanti e che se loro incarnano la "storia" del personaggio, Kaufmann da grandissimo, insuperabile artista rappresenta invece il cammino del presente (e diventerà "storia" a sua volta, inconfutabilmente).
Piuttosto c'è una considerazione che merita di essere approfondita, e che Pietro ha già messo in evidenza.
Che psicologicamente Kaufmann disponesse di tutte le armi per esprimere la solitudine romantica, l'implosione emotiva, l'anelito di morte del personaggio era ovvio e prevedibile.
Meno ovvia era la strepitosa immedesimazione vocale e tecnica.
Benché abilissimo a sfumare, legare e colorire, Kaufmann non è un vocalista: è un declamatore di base.
E questo Werther è personaggio che, per lunga tradizione (specie italiana) è stato associato a un canto di tipo "vocalistico" (appunto nella linea Schipa e Kraus).
Ma è giusto così? Il Werther è davvero pane per i vocalisti o la loro è solo una "soluzione possibile", magari nemmeno la "più giusta"?
Non è forse un personaggio diabolicamente incentrato sull'evidenza della parola? Non è forse la sua una scrittura sconnessa, dirupata (al secondo atto), ricca di bagliori e introspezioni, in cui la parola prevale sulla linea e sulla melodia? Non è forse parte centralizzante, tanto che il passaggio alla versione per baritono (la Battistini) non ha poi comportato così sostanziali aggiustamenti?
Non fu forse VanDyck, celebratissimo declamatore belga, nonché Parsifal a Bayreuth, a creare il personaggio.
Se questo è vero, non solo Kaufmann ci ha dipinto poeticamente e drammaturgicamente, il più vibrante, inquieto, struggente dei Werther (sicuramente - data la rinuncia di Villazon - il più grande del nostro tempo), ma ci ha anche aiutato a capire le vere radici tecniche e vocali del personaggio.
Da meditare...
Un salutone parigino,
Mat