Carissimi,
tento una risposta cumulativa, complessa data la complessità degli sviluppi.
Rodrigo ha scritto:Trovo che una delle più grosse "deviazioni" estetiche è esprimere dei giudizi sulla base di criteri ideologici anziché strettamente artistici.
Questa, caro Rodrigo, è una premessa da incorniciare.
In passato (Maugham e Beckmesser lo ricordernno) ci si scontrò su una dura ri-valutazione dell'opera registica di Chéreau e in particolare su quel Ring a Bayreuth che fu (ed è tuttora) considerato da molti una di Big Bang del New Deal "sessantottino" dell'Opera.
In quell'occasione, allargando l'armgomento come stiamo facendo ora, io già censurai la tendenza a valutare l'oggetto artistico sulla base dei contenuti (più o meno affini al nostro credo). In quell'occasione, purtroppo, tu non eri ancora dei nostri, altrimenti mi avresti dato man forte.
Sono peraltro perfettamente d'accordo con te nell'osservare che molti dei nuovi prodotti interpretativi (anche operistici) emersi dalla contestazione sono stati approvati (più che censurati) per mere questioni ideologiche.
Esprimi questo? Allora sei arte (anche se la tua espressione è grottesca e rudimentale).
Esprimi altro? Allora non lo sei (anche se la tua espressione è quanto di più alto e "artistico" si possa desiderare).
Io rivendico, almeno nel nostro sito, la capacità di andare oltre gli schieramenti e concentrarci sul linguaggio, perché è dal linguaggio - e non dai contenuti - che si distingue l'opera d'arte.
Questa è indubbiamente una tendenza (viziosa) ricorrente, ma nel periodo "sessantottino" è stata presa per buona ed amplificata con effetti nefasti (e naturalmente ridicoli) non solo nella musica.
Verissimo! E sacrosanto.
Eppure... nel periodo sessantottino vi sono stati molti artisti che hanno anche cercato di costruire linguaggi nuovi ed estetica nuova, per meglio esprimere i loro concetti. Concetti che, peraltro, erano e talvolta sono in perfetta sintonia col nostro tempo.
Io ricordo che quando facevo sentire, vent'anni fa, ai miei compagni di liceo la Sutherland o la Tebaldi non suscitavo entusiasmi... (suona di vecchio, mi dicevano), mentre se mettevo la Kirby e la Von Otter con Gardiner e Hogwood rimanevano incantanti.
Cosa dovevo dedurne? Che la Sutherland e la Tebaldi valessero meno della Kirby e della Von Otter?
Sarebbe stata una sciocchezza.
O che i miei compagni liceali fossero idelogizzati al punto da rendersi conto che la Sutherland era l'Ancièn Regime mentre la Kirby la contestazione?? Ma andiamo!!!
No, l'unica e semplice verità era che la Kirby e la Von Otter (come Gardiner e Hogwood) erano più vicini al nostro tempo. E lo stesso dicasi del Posa di un Keenlyside rispetto a Bastianini, di una regia di Bondy rispetto a una di Visconti, della direzione di un Harnoncourti rispetto a quella di Krips.
Nessuno dei più giovani è "più bravo" dei vecchi, ma il loro linguaggio parla più facilmente al nostro tempo.
Questo significa che ...sforzi di "creazione" linguistica sono stati compiuti.
Da anti sessantottino, non posso non riconoscere che non ci si è limitati a salvare il tanto "brutto" (ideologicamente corretto) che in quegli anni si produceva, ma anche di inventarsi tanto "bello" (sempre ideologicamente corretto) forgiato su nuvoi linguaggi.
Un'altra caratteristica che ritengo propria dei periodi di "crisi" è il giocare un autore contro un altro o un'opera contro un'altra.
Su questo non sono d'accordo. La penso come Tucidide.
Anzi, la competizione, la dialettica serrata fra fautori dell'una o dell'altra tendenza è sempre segno di creatività.
Diciamo che nei momenti di crisi (dove solitamente si sviluppano tendenze egemoniche e aggressive anche in ambito artisto) la cosa risulta più odiosa.
Venendo a Beck
Beckmesser ha scritto:non ne facevo un discorso di valutazione dei risultati artistici, ma, come precisato, di metodo: ciò che mi lasciava perplesso era una ricostruzione di quegli anni volta a dipingere quella “scuola” come il malinconico orticello della provincia italiana, di cui all’estero non importava nulla a nessuno. Secondo me, è vero esattamente il contrario: il pubblico italiano arriva sempre un po’ (circa un ventennio) dopo. Negli anni ’60-70 in Italia si continuava ad insistere sugli epigoni di Di Stefano e Del Monaco, e Bergonzi veniva considerato con sufficienza.
Be' allora il tuo, permettimi la puntualizzazione, era proprio un discorso di "valutazione" e non di metodo. Ossia valutavi come erronea una tesi di Pietro: ossia che Bergonzi fosse, ai suoi anni, un prodotto del provincialismo italico, mentre all'estero...
Invece su questo punto sono d'accordo con te: la Storia ci dice cose ben diverse. Negli anni '60 e '70 Bergonzi godeva degli stessi successi in Italia e all'estero (e forse di più all'estero). Io però continuo a difendere il metodo perché in realtà ciò che forse Pietro non considera a sufficienza è che la "grande depressione" del ventennio 65-85 non è stata localizzata in Italia, ma un po' dappertutto... Che Bergonzi fosse idolatrato al Met o a Vienna mi conforta poco, dato che negli stessi teatri si inneggiava (in quegli anni) all'Isolde della Nilsson e alla Lucia della Sutherland.
Quindi fin qui ti do ragione (sulla valutazione, più che sul metodo).
Sono invece in assoluto disaccordo (ma può darsi che non abbia capito bene il tuo pensiero) nelle frasi successive.
In verità, più che di periodo di crisi, parlerei di periodo tipicamente manierista (parola che, preciso, per me non ha nulla di negativo)
E fin qui posso concordare, fermo restando che c'è manierismo e manierismo. Il manierismo può benissimo essere creativo e addirittura rivoluzionario, quando sfrutta il filtro del convenzionale insito in linguaggi vecchi per dire qualcosa di nuovo.
Non metterei sullo stesso piano il manierismo di una Magda Olivero o di una Elisabeth Schwarzkopf con quello di un Carlo Bergonzi.
Detto questo...
e non credo che la causa fosse la rivoluzione sociale del ’68, quanto quella artistica degli anni precedenti.
Qui proprio non ti seguo più.
Che il '68 sia stato un ciclone nel mondo dell'Opera è, credo, dimostrabile proprio dallo sviluppo delle tendenze posteriori alla crisi (tutte estiticamente afferenti all'estetica della contestazione). Ma ammetto che è una tesi originale da parte mia e che quindi ci sia lo spazio per approfondire il diabattito.
Quello che proprio non capisco è come si possa parlare di "crisi artistica" negli anni precedenti, ossia il ventennio seguito alla seconda guerra mondiale.
Io trovo che in tutta la plurisecolare storia dell'Opera siano stati rari i momenti più creativi, esplosivi, contraddittori, entusiasmanti.
Lì sì (mi riferisco a Rodrigo) che c'erano le battaglie! Basta ricordare i fischi al Wagner rivoluzionari di Wieland, al Verdi rivoluzionario di Karajan, le anche feroci opposizioni a casi come quello della Callas o persino della giovane Sutherland (che prima di divenire il monumento marmoreo e cotonatissimoo degli anni '70, sempre uguale a se stessa, era stata una ventata rivoluzionaria e non universalmente accettata negli ultimi anni 50, quando col suo canto originalissimo si era proposta al mondo).
Gli anni dal dopoguerra al 65 sono stati (insieme a quelli della Belle Epoque) i più vari e spettacolari per la storia dell'Opera.
In questo mi sento di dissentire da uno degli elementi della valutazione che fai di quel periodo: Bergonzi (e cito lui in quanto paradigmatico, ma il discorso vale per buona parte degli artisti che hai menzionato) non mi sembra abbia imboccato il comodo sterrato di perpetuare stancamente una tradizione morente. Il comodo sterrato (ossia la tradizione morente) in quegli anni era semmai quello rappresentato dalla rivoluzione degli anni ’50. Lui non ci si è accodato e ha preferito piuttosto provare a reinventare una tradizione ormai morta e sepolta. Ad orecchie, o meglio: a spettatori odierni il suo Verdi risulta indiscutibilmente riduttivo, ma il tentativo a me affascina… Sarà che in generale le epoche manieriste mi incuriosiscono più di quelle rivoluzionarie…
Veramente non ho detto proprio ciò che mi fai dire!
Lo so anche io che rispetto agli anni 50 (in cui pure Bergonzi era nato e di cui era stata una coerente espressione, poiché non tutti negli anni '50 declamavano) il Bergonzi successivo non fece una scelta facile e populista.
Nemmeno gli altri artisti che ho citato.
Ho detto che ...era l'atteggiamento del pubblico a essere cambiato.
Con la crisi (ossia gli anni '60) e la fuga dall'Opera delle nuove generazioni, il pubblico ha modificato la sua chiave di giudizio.
Ha cominciato a puntare al suono in quanto suono, al linguaggio in quanto linguaggio.
E questo ha permesso a Bergonzi di non essere più agli occhi del pubblico l'esponente di un certo modo di intendere Verdi (come era prima) che ha pieno diritto di asilo in un coaecervo di linguaggi, ma di diventare il "grado zero", il modo "giusto".
La stessa cosa che è successa con il Mozart di Boehm.
Se ci pensi, negli anni 50 e negli anni 60 il suo Così fan tutte non è cambiato di una virgola.
Ma negli anni 50 era una ventata di aria fresca (il pubblico lo viveva così), un anelito alla luce e alla smaterializzazione; negli anni 60 diventò invece per il pubblico l'emblema plumbeo e persino intimidatorio di un Mozart "giusto", di fronte al quale inchinarsi e tacere.
Ecco cos'è la crisi. Il diabattito, la crescita, la ricerca cedono il passo alle astrazioni estetiche; i suoni diventano "modelli" e il linguaggio non serve più la comunicazione, ma viene assunto come valore in se.
In questa temperie un Bergonzi (che negli anni 50 aveva il posto nello splendore generale) negli anni della crisi diventa il prototipo, ma non di un pensiero "manierista" (come affermi tu), bensì della pigrizia di un pubblico vecchio, demotivato, irritato, che ormai non cerca altro che la confortevolezza del già sentito.
Così almeno la vedo io.
Salutoni a tutti,
Mat