Anni Ottanta

problemi estetici, storici, tecnici sull'opera

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Re: Anni Ottanta

Messaggioda Rodrigo » sab 31 ott 2009, 10:38

pbagnoli ha scritto:- I Vespri: secondo me l'unica vera idea era un tenore contraltino nel ruolo più massacrante ideato da Verdi per un tenore. A me piacque, al pubblico globalmente no. La Studer in quegli anni era una scelta obbligata: si faceva tutto le prime della Scala. Anche lei fu massacrata. Adesso si beccano la Urmana in Aida

Ammetterai che passare da Luchetti a Merritt se non è una rivoluzione copernicana poco ci manca! :D Per il resto: io Merritt lo vedo più come un baritenore che come un tenore contraltino; chissà come sarebbe stato un Arrigo nelle mani di Blake, per me autentico tenore "sfogato".
Sullo spettacolo: premesso che ho scarsa simpatia per i Vespri, dagli ascolti si coglie a mio avviso una direzione illuminata, ben superiore al tanto incensato Levine.Ritengo infine che, una volta entrati nell'ordine d'idee di innovare, si imponeva la scelta di cantare l'opera in francese.
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda pbagnoli » sab 31 ott 2009, 14:37

Ho detto contraltino perché in acuto passava spesso in falsettone: lo fece anche sull'Addio finale di "La brezza aleggia intorno" e lo subissarono di fischi...
"Dopo morto, tornerò sulla terra come portiere di bordello e non farò entrare nessuno di voi!"
(Arturo Toscanini, ai musicisti della NBC Orchestra)
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda MatMarazzi » mar 03 nov 2009, 11:03

Provo a inserirmi in questo bel dibattito, in risposta alle brillanti considerazioni di Beckmesser

beckmesser ha scritto:faccio un po’ di fatica a condividere non tanto i risultati dell’analisi, quanto il metodo
(cut)
Bergonzi legittimamente può (e deve) essere criticato, ma resta il fatto che c’è anche qui un “mezzo mondo” che lo ha osannato e che lo osanna, e mi sembra riduttivo cadere anche qui nell’errore del tant pis per questo mezzo mondo, che sembra essere a sua volta declassato a un gruppetto di semplicetti turlupinato, questa volta, dai “cellettiani”.


Giustamente, Beck, tu metti in evidenza l'aspetto critico più forte e rivoluzionario che Operadisc ha introdotto fra gli appassionati di interpretazione operistica (e che, come avrai notato, comincia a farsi largo anche nella critica militante, cosa che più che irritarci ci lusinga).
L'accettazione storica e direi scientifica dell'esistenza di diverse scuole tecniche nella storia del canto classico e delle varie interrelazioni col canto non classico (finora negata da appassionati, critici, maestri di canto, cantanti stessi...) è una piccola rivoluzione che abbiamo introdotto, difeso, motivato proprio noi.

Detto questo, il nostro sito - come tu sai bene - non propone il giustificazionismo.
Accettare la compresenza (virtualmente illimitata) di tante scuole tecniche, misurarne i pregi a contatto di un dato repertorio, non significa arrivare meccanicisticamente (come faceva Celletti) a celebrare i possessori di questa tecnica indipendentemente dai risultati artistici.
Questo, anzi, è proprio l'errore di metodo nel quale cadeva Celletti: tu Stignani canti col metodo giusto? Bene: sei una grande Carmen.
Se anche il personaggio, la stessa nervatura musicale, i rimandi all'Opéra-Comique, tutto cola picco, non importa. Sei una grande Carmen.
Per noi non è così semplice.
Il dominare una certa lingua è solo un buon punto di inizio. Poi bisogna vedere cosa scrivi.
Non basta scrivere benissimo in Italiano per essere Leopardi.
Questo secondo noi.

Ad esempio, il fatto che io constati l'appartenenza tecnica di una Varnay alla suola dei declamatori post-bellici (e poi e poi...) e che ritenga non solo legittima, ma efficace per Wagner questo tipo di tecnica, non mi impedisce di denunciare la modestia della sua Isolde, come la grandezza della sua Ortrud.
Non è più solo un problema tecnico, ma interpretativo e musicale.

Lo stesso dicasi di Bergonzi.
Nessuno (non credo Pietro, certo non io) nega che la formazione tecnica di Bergonzi fosse tutto fuorché improvvisata.
La sua era una Signora Tecnica, un vocalismo di eccezionale livello, per di più predestinato alla scrittura verdiana.
Per molto pubblico della sua epoca (e non necessariamente un pubblico beota, ma anzi raffinato) questo era sufficiente.
Ed è qui che, secondo me, interviene il concetto di "crisi".
In tutti i tempi la perfetta capacità di adeguare suono e scrittura è una cosa appagante.
Lo è in tutti casi, persino per me, persino per Pietro.
Ma solo negli anni di crisi lo è a dispetto di Musica e il Teatro, i due aspetti che - a rigore - contano di più nel mondo dell'opera.

Ed è da questo punto di vista che sono costretto a concordare con Pietro: teatralmente e musicalmente, le celebrate interpretazioni verdiane di Bergonzi - pur tecnicamente idonee - erano elementari, rudimentali, fumettistiche. Oggi - che non siamo certo in un periodo di crisi - non godrebbero di altrettanti favori. Il pubblico di oggi capirebbe benissimo, come quello di quarant'anni fa, l'efficacia "tecnica" di quel canto, ma non ne ammetterebbe gli altri limiti.
Ma questo stesso discorso (a riprova della bontà del metodo) vale anche per i declamatori.

Il mio pollice verso è anche rivolto al Tristano di Melchior, alla Salome della Nilsson, che pure erano sommi declamatori dal punto di vista tecnico (proprio come era sommo Bergonzi in Verdi), wagneriani e straussiani predestinati, e non di meno erano elementari e fumettistici in quegli specifici ruoli.

Pietro sta tentando un complesso discorso "critico" sugli anni '80.
Io piuttosto intravedo il vertice della crisi dell'opera (fermo restando che a questi termini occorre dare contorni sfumati) tra il '65 e l'85, gli anni in cui era rimasta indietro rispetto al resto del mondo, registrava cali di pubblico allarmanti, non vendeva più; l'epoca in cui (ha ragione Celletti) le multinazionali del Disco trovarono modo di farsi davvero largo... forse per la debolezza generale.
Quando un genere d'arte entra in crisi, la prima cosa che si registra è la diaspora della nuove generazioni, che se ne vanno e abbandonano il campo all'edonismo conservativo delle vecchie, che, come sempre in questi casi, prende il posto della ricerca.
Sono proprio questi, guarda caso, gli anni in cui Bergonzi godette di una considerazione altissima, non minore - anzi talvolta persino maggiore - all'estero che in Italia.
Ad applaudirlo freneticamente era quel pubblico che già si appagava della proprietà tecnico-linguistica del suo Verdi (messa in discussione nei decenni precedenti) e che era disposto a passare sopra al vuoto teatrale-musicale.
Era lo stesso pubblico che si spellava le mani per l'anti-Salome o l'anti-Isolde di Birgit Nilsson o l'anti-Mimì della Freni o l'anti-Lucia di Joan Sutherland.
Si applaudiva il linguaggio, perché - contenutisticamente - l'opera era uscita dalla relazione col presente, spinta via in malo modo dalla violenza eversiva (e sciocca) del '68.
Non era certo così negli anni '50: la Callas ERA il presente, la Schwarzkopf ERA il presente, lo erano Wieland e Bernstein.
Dieci anni dopo Bergonzi non era considerato il presente nemmeno dai suoi più accaniti ammiratori: era semmai il "giusto" (?), come l'Isolde della Nilsson, la Mimi della Freni e la Lucia della Sutherland.

In tutto il '900 io non vedo un periodo di crisi tanto grave per l'opera quanto la parentesi '65-'85.
Forse solo il terribile ventennio fra le due guerre mondiali, il ventennio del "magniloquio", quella del disco elettrico.
Ma il ventennio 65-85 è stato peggio. Oramai tutti parlavano della "morte" dell'Opera. ...E un Bergonzi trionfava: veniva persino celebrato in quei ruoli in cui Verdi impresse la violenza della rivolta, della gioventù, del malessere, tutto il contrario del canto e della natura stessa del tenore emiliano.

E' infatti proprio in questi periodi di crisi (come Pietro sta cercando di dimostrare) che per il pubblico "sopravvissuto" l'adesione a modelli sonori pre-definiti, confortevoli e rassicuranti (in genere spacciati per "giusti") diventa più importante che l'inesausta ricerca del suono (vecchio o nuovo) in funzione teatrale e musicale.

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Re: Anni Ottanta

Messaggioda Tucidide » mar 03 nov 2009, 15:13

MatMarazzi ha scritto:Io piuttosto intravedo il vertice della crisi dell'opera (fermo restando che a questi termini occorre dare contorni sfumati) tra il '65 e l'85, gli anni in cui era rimasta indietro rispetto al resto del mondo, registrava cali di pubblico allarmanti, non vendeva più; l'epoca in cui (ha ragione Celletti) le multinazionali del Disco trovarono modo di farsi davvero largo... forse per la debolezza generale.

Mat, questo punto mi pare molto interessante.
Sarebbe molto utile affrontare un discorso critico SERIO sulla ricezione e sul sentimento artistico del pubblico nel corso dei decenni del XX secolo.
In linea di massima, ci si deve affidare ai ricordi di chi, giovane in quegli anni, ne parla con un misto di nostalgia e rimpianto, nascondendo prima a sé stesso che all'interlocutore quali fossero i reali sentimenti provati all'epoca. Si tende a credere acriticamente a chi c'era, che racconta di meraviglie impensabili, senza indagare storicamente se ciò corrisponda al vero.

Sulla questione di una crisi nel periodo 1965-85, vorrei che si partisse dal definire la parola "crisi".
Se non ho capito male, a tuo avviso il problema è alla base stessa della percezione dell'opera come un qualcosa di "precedente", di legato ad un periodo passato in cui "si faceva opera in modo giusto". Il '68 sarebbe uno spartiacque, più simbolico che altro, fra un periodo in cui l'opera era "attuale" (gli anni '50 e i primi '60) e uno in cui essa era ritenuta "superata", un fossile da conservare e replicare in modo il più possibile vicino agli stilemi appresi dalla prassi e dalla tradizione:
Si applaudiva il linguaggio, perché - contenutisticamente - l'opera era uscita dalla relazione col presente, spinta via in malo modo dalla violenza eversiva (e sciocca) del '68.
Non era certo così negli anni '50: la Callas ERA il presente, la Schwarzkopf ERA il presente, lo erano Wieland e Bernstein.
Dieci anni dopo Bergonzi non era considerato il presente nemmeno dai suoi più accaniti ammiratori: era semmai il "giusto" (?), come l'Isolde della Nilsson, la Mimi della Freni e la Lucia della Sutherland.

Faccio una riflessione. Mi chiedo cioè se sia così pacifico e scontato che negli anni '50 non ci fossero reazionarismi, passatismi e nostalgie per i begli anni '30, e tutti fossero convinti che la Callas fosse il presente da prendere come tale. Anche a livello politico, si sa che i primi anni della Repubblica furono piuttosto contraddittori: da un lato si esaltava la fine della dittatura fascista e della monarchia e l'avvento della libertà democratica, dall'altra, sottovoce, si constatava che "quando c'era Lui, i treni arrivavano in orario, non come adesso". :)
Forse, dico forse, fra i tantissimi che si strappavano fin anche le mutande per Di Stefano, Del Monaco e la Callas, c'erano molti che scuotevano malinconici il capo, rimpiangendo Lauri Volpi, Pertile e la Cigna.

Il secondo punto che mi interessa è cercare di capire le ragioni di quella che tu individui come crisi. Come detto, tu vedi nel Sessantotto un punto di svolta, di rottura dell'attualità dell'opera per la società. Insomma, la società pre-sessantottina era una società "melodrammatica", che si specchiava e riconosceva nell'opera e nelle sue tendenze, mentre dopo si cominciò ad avvertirla come aliena, come antica, come vecchia e polverosa, insomma come roba da "matusa"... con grande gioia dei "matusa" che poterono andare all'opera e vedere messi in pratica quelli che per loro erano gli stili e le prassi "giuste".
Domanda: è stata la società, il pubblico, che ha spinto l'arte a "fermarsi", adagiandosi su modelli convenzionali, o è stata l'arte che, fermatasi su modelli convenzionali per motivi suoi, ha costretto il pubblico a livellarsi? Insomma: di chi fu la colpa? Era il pubblico a volere i Bergonzi, o erano i Bergonzi che in certo qual modo "modellavano" il gusto del pubblico, persuadendolo che "Verdi va cantato così"?

Un ultimo appunto sulla discografia. A me non pare che solo dalla metà degli anni '60 cominci il dominio delle multinazionali del disco. Se guardo alla storia della discografia dagli anni '50 ad oggi, trovo monoliticità tanto negli anni '50 quanto negli anni '60, '70. Che incisioni furono fatte negli anni '50 di opere italiane? Callas Tebaldi Callas Tebaldi Di Stefano Del Monaco Di Stefano Del Monaco Gobbi Bastianini Gobbi Bastianini Serafin Molinari-Pradelli Serafin Molinari Pradelli con la botta di vita di Erede e Votto di tanto in tanto...
Se devo dire la verità, a mio avviso le multinazionali del disco si erano già fatte largo da tempo, direi dall'avvento del microsolco.

Grazie a tutti per questa bellissima discussione. :D
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda MatMarazzi » mar 03 nov 2009, 15:37

Tucidide ha scritto:Mi chiedo cioè se sia così pacifico e scontato che negli anni '50 non ci fossero reazionarismi, passatismi e nostalgie per i begli anni '30, e tutti fossero convinti che la Callas fosse il presente da prendere come tale.


Ovviamente i rimpianti ci sono sempre stati: è tipico di quella parte di fruitori che la vita, e non solo l'arte, col passare degli anni spinge fuori dai giochi.
E' inevitabile. Anche noi diverremo passatisti, quando arriverà il nostro tempo.
Anche negli anni '50 c'erano i passatisti, ma questo non cambia di una virgola il mio pensiero.
Per tutti gli ascoltatori dell'epoca (modernisti e passatisti) la Callas ERA il presente. Un presente da censurare per alcuni, da esaltare per altri.
Ma nessuno avrebbe negato i suoi legami strettissimi con la contemporaneità; lo stesso dicasi per le regie di Visconti e Wieland, le direzioni del giovane Karajan, il nuovo Mozart emerso da Vienna.

Il secondo punto che mi interessa è cercare di capire le ragioni di quella che tu individui come crisi. Come detto, tu vedi nel Sessantotto un punto di svolta, di rottura dell'attualità dell'opera per la società. Insomma, la società pre-sessantottina era una società "melodrammatica",


E' evidente che mi spiego male, dato che tu hai capito esattamente l'opposto di quel che pensavo di aver scritto! :)
Non è la società anni '50 che si rispecchia nell'opera, era l'opera degli anni '50 che sapeva farsi riflesso della società.
Col '68 la società ha respinto non tanto l'opera di per sè, bensì gli strumenti con cui essa veniva realizzata dagli odiati "genitori" negli anni '50
Ciò è accaduto in varie forme d'arte: il '68 è stato uno spartiacqua. Ma altre forme d'arte (vedi il Cinema o la musica Pop) si sono immediatamente adattate.
L'opera no. Non è riuscita subito ad adattarsi, se non malamente (le osservazioni di Pietro sulla troppo mitizzata Scala di Abbado sono pertinentissime).
Devo ammettere (pur non essendo un ammiratore del 68) che sono proprio stati i sessantottini ad avver avviato la rinascita operistica a partire dalla metà degli anni 80 (la filologia, la rilettura registica, il canto iper-colorista, la rossini renaissance) i cui frutti si vedono oggi in un'epoca di vero e proprio splendore dell'opera.
Uno splendore (sia detto per inciso) che lancia qualche primo segnale di crepuscolo! Sarebbe già arrivato, forse, il momento di una nuova rivolta estetico-generazionale! :)
In parole povere, dobbiamo cominciare a lavorare per mandare i sessantottini in pensione! :D

Un ultimo appunto sulla discografia. A me non pare che solo dalla metà degli anni '60 cominci il dominio delle multinazionali del disco. Se guardo alla storia della discografia dagli anni '50 ad oggi, trovo monoliticità tanto negli anni '50 quanto negli anni '60, '70. Che incisioni furono fatte negli anni '50 di opere italiane? Callas Tebaldi Callas Tebaldi Di Stefano Del Monaco Di Stefano Del Monaco Gobbi Bastianini Gobbi Bastianini Serafin Molinari-Pradelli Serafin Molinari Pradelli con la botta di vita di Erede e Votto di tanto in tanto..
Se devo dire la verità, a mio avviso le multinazionali del disco si erano già fatte largo da tempo, direi dall'avvento del microsolco.


Secondo me non è così.
Negli anni '50 il disco non era ancora così capillarmente diffuso, nè potente e soprattutto non era in grado di decidere delle carriere dei propri campioni.
Tebaldi e Callas erano celeberrime indipendentemente dal disco.
Un Legge o un Culshlaw non avrebbero avuto il potere (tranni casi rarissimi) di decidere il taglio delle stagioni internazionali e i cast e men che meno di piazzare strategicamente i propri campioni in tutti i circuiti del "grande slam operistico".
Negli anni '70 tutto era diverso.
La Ricciarelli, Domingo, Carreras, Ghiaurov giravano il mondo sulla base di articolatissime strategie di marketing e compensazioni definite a tavolino da chi ...tirava fuori i soldi.

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Re: Anni Ottanta

Messaggioda Tucidide » mar 03 nov 2009, 19:14

MatMarazzi ha scritto:E' evidente che mi spiego male, dato che tu hai capito esattamente l'opposto di quel che pensavo di aver scritto! :)
Non è la società anni '50 che si rispecchia nell'opera, era l'opera degli anni '50 che sapeva farsi riflesso della società.
Col '68 la società ha respinto non tanto l'opera di per sè, bensì gli strumenti con cui essa veniva realizzata dagli odiati "genitori" negli anni '50
Ciò è accaduto in varie forme d'arte: il '68 è stato uno spartiacqua. Ma altre forme d'arte (vedi il Cinema o la musica Pop) si sono immediatamente adattate.

OK. Ho capito il tuop pensiero.
A questo punto, però, mi chiedo: perché critichi il Sessantotto? :) Tu non ritieni il Sessantotto nemico dell'opera, giusto? Ritieni che, come ogni corrente sociale, anche la più estremsta, possa trovare rappresentazione nell'arte, anche in un genere apparentemente polveroso e vecchio come l'opera. Tu stesso dici che la colpa fu degli artisti, se non si riuscì a rappresentare subito le istanze del movimento sessantottino nell'opera. Quindi, i sessantottini non c'entrano niente. :)
Io invece ho una mia visione lievemente diversa: secondo me, fin dai primi anni '60 (il Sessantotto fu solo l'esplosione di un calderone che era già in ebollizione da tempo) si cominciò a guardare alla grande ubriacatura di illusioni del decennio precedente, e, dapprima timidamente, poi sempre più esplicitamente, ci si cominciò ad interrogare sui valori effettivi di tale ubriacatura.
Restando in tema operistico, anzi tenorile, diciamo che anche quelli che fino a dieci anni prima si erano esaltati per Di Stefano e le sue brucianti aperture cominciarono a chiedersi se... :oops: non si fosse andati troppo in là, se non si fosse esagerato, il tutto sotto lo sguardo compiaciuto e gongolante di chi, già dieci anni prima, aveva scosso la testa riluttante ad accettare l'innovazione di quell'espressività, ricordandosi di quando c'era Lui (Pertile... ovvio! :D ).
In sostanza, la generazione dei grandi sogni anni '50 cominciò ad avvertire le prime paure, a non essere più sicura di essere stata nel giusto, ed ecco allora erigere Bergonzi a modello, lui che con grande onestà e bravura (diciamolo) si era saputo tenere lontano dalle intemperanze dei tenori che l'avevano preceduto.
Niente di particolare: la Storia non è sempre rivolta avanti; talvolta sceglie di tornare indietro, se si accorge, a torto o a ragione, di aver fatto il passo più lungo della gamba.
Ultima modifica di Tucidide il mer 04 nov 2009, 0:34, modificato 1 volta in totale.
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda Rodrigo » mar 03 nov 2009, 23:03

Partendo dal discorso fatto da Matt e Tuc relativo al succedersi (fisiologico?) di fasi diverse nel divenire del mondo dell'opera novecentesco mi lancio in una considerazione relativa all'evoluzione del repertorio. Io riscontro in quel ventennio di crisi ricordato sopra due fenomeni molto particolari:
La diffusione "capillare" di titoli del barocco e del belcantistico: è un caso che questo fenomeno coincida - sostanzialmente - con il ventennio di crisi? Se ci pensiamo sono in sostanza gli anni delle prime riproposte di Harnoncourt (e del suo "profeta" Richter), del fenomeno Sutherland (da Alcina a Beatrice di Tenda), delle riprese del Donizetti più raro, delle riprese sempre più frequenti dei titoli rossiniani, anche quelli meno riconducibili a "profezia" romantica. Verrebbe quasi da pensare che il pubblico di quest'epoca straveda per il lato più "astratto" e per quello meno conosciuto del melodramma. Quello che negli anni '50 era (cito da Mat) "una curiosità per spiriti colti" diventa il pane quotidiano dei teatri. Si va in sollucchero per Semiramide quando ancora nell'immediato dopoguerra la partitura era stata stroncata da un raffinato intellettuale (tutt'altro che prevenuto contro Rossini!!!) come Riccardo Bacchelli.

Un diffuso atteggiamento critico verso il c.d. grande repertorio: è da questo periodo in poi che "fa fine" parlare male -fino a vergognarsene- del verismo. Persino Verdi, che non si può attaccare in blocco, in qualche modo viene deformato sulla base di preconcetti "ideologici". Nei palchi ci si entusiasma -che so- per Simone e don Carlo (a Milano con Abbado) o per Alzira e i Masnadieri (emblematico un elzeviro di Maria Bellonci sulla ripresa a Roma di Alzira con la Zeani). Forse queste partiture non meritavano di essere diffuse come il Verdi più noto? Certo che sì, chi lo nega, ma ho il sospetto che si gridava al miracolo "a comando". Non tanto, cioè, perché si era convinti del valore estetico della riproposta, ma per il gusto intellettualoide di contrapporsi alla "communis opinio". Il che, conveniamone, ben si adattava a certo milieu radical chic dominante negli ambienti che contano degli anni '70.

Spero di non turbare i sonni di nessuno, saluti! :D :

PS: fantastico il "quando c'era lui" riferito a... Pertile :shock: !!! Da antologia : WohoW : : WohoW : : WohoW : : WohoW : !!!
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L'OPERA E IL '68

Messaggioda MatMarazzi » mer 04 nov 2009, 14:02

Rodrigo, complimenti come sempre. : Thumbup :
I tuoi post affondano subito il dito nella piaga.

Affronti un bel po' di punti nodali a noi molto utili nella definizione della "crisi" di cui stiamo parlando (65-85), crisi che per me (lo ribadisco) è la peggiore che abbia conosciuto l'opera nel corso del '900.
Una crisi estetica anzitutto, indotta dall'avvento del '68, che però (come ogni crisi estetica) si è trasformata in crisi economica e gestionale.
Cali di vendite, cali di presenze, teatri disertati, prezzi ai minimi storici: basti dire che quello era il periodo in cui a Bayreuth si trovavano posti!
Ancora venticinque anni fa, e lo dico per esperienza diretta, trovare posto per una prima alla scala, spendendo pochissimo rispetto a oggi era facilissimo.
E' in quel periodo che i teatri hanno cominciato ad essere grandi macchine dello sperpero, a causa dei rossi spaventosi che accumulavano. E' quello il periodo in cui non ci si vergognava più di mettere dilettanti, parenti, politici in disarmo a capo di strutture che, tanto, erano considerate in perdita.
Gli illuminati direttori artistici del ventennio 45-65 sparirono. La Scala cominciò la sua lunga eclisse, dopo gli splendori di Ghiringhelli e Siciliani.
Naturalmente è stata anche una crisi artistica, la cui responsabilità (se così si può dire) è in buona parte degli artisti, come diceva anche Tucidide.
Ma come rimproverarli?
Nati e cresciuti in un'altra epoca (il dopoguerra), un'epoca splendente e all'insegna della rinascita (altro che ubriacatura, Tuc!), un'epoca carica di valori un po' troppo "borghesi" forse, ma giustificati dal bisogno di luce dopo la guerra, un'epoca che ha garantito quel benessere i cui frutti avrebbero per altro nutrito e ingrassato le illusioni e le ubriacature (quelle sì) del '68, gli artisti dell'opera si ritrovarono spiazzati.
E purtroppo il ricambio non fu immediato, come era stato col cinema e la musica pop.
Lì lo spartiacque del '68 spazzò via una generazione di artisti e la sostituì immediatamente con un'altra.
Nell'opera ci vollero dieci anni perché i primi frutti della generazione "contestatrice" cominciassero pallidamente a farsi vedere (il punto d'arrivo internazionale fu nel 1976 il Ring di Chéreau e Boulez).

Ma è solo dal 1985 circa che le nuove tendenze presero piede a livello internazionale (non in Italia ovviamente) e con risultati davvero grandiosi.
E' proprio ai sessantottini (finalmente approdati nei vertici dei teatri che contano, dove hanno dato prova di strepitose capacità) che è spettato il compito di salvare l'Opera dalla crisi che lo stesso '68 aveva generato.
E la cosa più curiosa... è che - a causa del ritardo di vent'anni - ciò è avvenuto proprio quando il '68 è entrato ideologicamente in crisi (dall'85 circa), ossia nel ventennio della grandiosa rivoluzione liberale che ha scosso tutto il mondo (dalla Russia, all'America, all'Europa, persino alla Cina) con forza ancora maggiore - anche se meno pubblicizzata - di quella che aveva scatenato il '68.
Se oggi l'opera è sana, salva, gode di ottima salute e rigurgita di fortissime personalità, dobbiamo ringraziare proprio i sopravvissuti del '68 e (mi si passi il termine) la loro organizzatissima lobby. Loro ci hanno messo le idee; la "rinascita economica" che la rivoluzione liberale ha portato ci ha messo i soldi.
Un'incongruenza?
Certo... una deliziosa incongruenza.
La stessa per cui questi post-sessantottini infarciscano le loro produzioni di cappottini sbiaditi quando loro hanno abiti firmatissimi, mettano ovunque la denuncia sociale e poi viaggiano con stipendi da nababbi, accusino la ricchezza dell'occidente e facciano pagare oro i biglietti degli spettacoli...
Certo... un'incongruenza di cui sorridere, che nasconde (ma questo è un pensiero mio) la debolezza ideologica di questi intellettuali.
Eppure grazie a questa incongruenza (forza estetica del sessantotto, forza economica degli anni '80) che l'opera si è aggiudicata vent'anni di ritrovato splendore, di spettacoli grandiosi, di generazioni di artisti strepitosi.

E qui rispondo brevemente a Tuc, che mi muove una (per me incomprensibile) obiezione.
"Ma tu non sei quello che disapprova il '68?"
E questo che c'entra?
Che influenza hanno le mie idee sulla storia?
Nessuna!
Quando leggo la Storia leggo fatti, non le mie idee.
E la Storia ci dice che il '68 è stato un ciclone, specie dal punto di vista estetico e artistico.
Ha nutrito generazioni sulla base di nuovi valori e ha cambiato il volto di quasi tutte le forme d'arte.
Se il '68 (e i suoi eredi) si fosse limitato a distruggere la tradizione operistica precedente, che effettivamente ha distrutto (benché fosse una tradizione meravigliosa, quella degli anni '50) allora me ne lamenterei.
Ma non è così: sia pure con vent'anni di ritardo, è stato proprio il '68 a risollevare l'opera dalla sua crisi spaventosa, a farvi penetrare la propria estetica, rivitalizzandone il linguaggio, ricucendo lo strappo con la contemporaneità, modificandone le prospettive, in pratica a riportarla in vita.

Ai sessantottini si deve l'esplosione della filologia esecutiva barocca e pre-barocca (che infatti fu uno dei primi passi della contestazione, in quanto negazione del costume "melodrammatico" tradizionale: i pionieri sono già dei primi anni '70, come dice Rodrigo, ma le conquiste vere e la piena adesione del pubblico sono dalla metà degli anni '80).
Sempre a loro si deve l'autonomia concessa al regista (anche in questo caso, i primi pallidi segnali sono stati negli anni '70, ma c'è voluto un altro quindicennio perchè gli abbozzi diventassero sostanza) che oggi eccitano e attirano il pubblico come le più grandi star del canto.
Ancora a loro si deve la diffusione del canto colorista, già esplorato negli anni '50 ma divenuto solo negli anni '80 espressione "critica" verso il canto tradizionalmente melodrammatico, vicinanza sempre più esplicita a quel "rock" che del '68 era stato il vessillo (ricordate la sparata di Mortier, nell'insediamento a Salisburgo? "Meglio Michael Jackson che Pavarotti")
Ma soprattutto ai sessantottini si deve un radicale ripensamento del repertorio, che ha sì il suo centro in Mozart e Wagner (e per concessione Verdi) ma che ruota attorna alla valorizzazione di un repertorio ben preciso (e sempre anti-melodrammatico in senso classico) i cui esponenti privilegiati sono Britten, Janacek, Prokof'ev, Shostakovic, ma anche Monteverdi, Handel, Cavalli, autori che - è vero - erano eseguiti anche prima, ma che dall'85 in poi hanno assunto una fisionomia, una frequenza di esecuzioni e una popolarità completamente diverse.
Tengo per ultimo il fenomeno della Rossini Renaissance e della Fondazione di Pesaro (i cui frutti sono a loro volta esplosi nella seconda metà degli anni '80). Anch'esso porta il marchio del '68 e una di queste volte vedremo il "perchè" Rossini risultò più vicino al '68 di Donizetti e Bellini (le cui "rinascite" invece conobbero una certa eclissi).

Insomma, a parte i generosi e strani tentativi di Tucidide di far passare l'involuzione per evoluzione, è certo e inconfutabile che i migliori "atout" di quella splendida stagione operistica che stiamo vivendo (1985-2005) si devono alla tardiva egemonia operistica dell'estetica sessantottina.
Anche un anti-sessantottino come me deve riconoscere con gratitudine che l'opera era morta (nel ventennio precedente) e loro l'hanno riportata in vita.

Poi, è ovvio, ogni epoca, ogni estetica, anche quella più vincente, ha le sue ombre.
E anche l'era dei postsessantottini ha le sue: ad esempio il malcelato disprezzo (culturale e sotto sotto ideologico) per tutto ciò che è l'800 pre-Wagneriano, in particolare l'opera-borghese e popolare italiana e francese. L'oblio verso un Meyerbeer, la sufficienza con cui Donizetti viene lasciato alle divastre o Massenet ai divastri, lo scarso interesse persino per Weber, Auber, Mayr, sono elementi gravissimi... così come il non curarsi per nulla delle specificità linguistiche di Verdi, Bizet, Cajkovsky... "nobilitati" (in realtà traditi e malmenati) da linguaggi adatti ad altra drammaturgia, che secondo loro sarebbe più intellettuale.
Non parliamo (anche perché ne abbiamo parlato già tante volte) dell'odiosa sufficienza con cui viene trattato l'operismo italiano e francese protonovecentesco (solo parlare di D'Annunzio dà l'orticaria a molti intellettuali di quelle leve).

Da tanti segnali si vede che la gloriosa epoca dei "post-sessantottini" (a cui ribadisco va tutta la mia gratitudine) sta volgendo al termine.
Il fallimento di Lissner alla Scala, quello di Mortier a Parigi sono già segnali rivelatori.
Gli slanci in avanti delle più avanzate frange di appassionati (che reclamano sempre più opera ottocentesca) o dei registi più amati di oggi (i Carsen, i Jones, ormai completamente al di fuori della logica sessantottarda) per non palrare dello strano fenomeno del "mito del tenore", osteggiato dai sessantottini e ora tornato prepotentemente alla ribalta, sono tutti segnali che qualcosa sta cambiando.
Ci avviamo a una nuova fase, a cui anche noi - semplici appassionati - possiamo contribuire.
Per esempio, come già dicevo, invitando i grandi vecchi (in senso culturale) come Lissner a lasciare il campo alle nuove generazioni. Ora è venuto il loro turno di esserre definiti "matusa". Purtroppo però sono più abbarbicati loro alle loro poltrone di quei "baroni" che alcuni decenni fa gambizzavano.

Spero di aver chiarito meglio il mio pensiero, e di aver fornito alcune possibili risposte alle considerazioni mosse da Rodrigo.

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Re: L'OPERA E IL '68

Messaggioda Tucidide » mer 04 nov 2009, 15:23

MatMarazzi ha scritto:E qui rispondo brevemente a Tuc, che mi muove una (per me incomprensibile) obiezione.
"Ma tu non sei quello che disapprova il '68?"
E questo che c'entra?
Che influenza hanno le mie idee sulla storia?
Nessuna!
Quando leggo la Storia leggo fatti, non le mie idee.
E la Storia ci dice che il '68 è stato un ciclone, specie dal punto di vista estetico e artistico.
Ha nutrito generazioni sulla base di nuovi valori e ha cambiato il volto di quasi tutte le forme d'arte.
Se il '68 (e i suoi eredi) si fosse limitato a distruggere la tradizione operistica precedente, che effettivamente ha distrutto (benché fosse una tradizione meravigliosa, quella degli anni '50) allora me ne lamenterei.
Ma non è così: sia pure con vent'anni di ritardo, è stato proprio il '68 a risollevare l'opera dalla sua crisi spaventosa, a farvi penetrare la propria estetica, rivitalizzandone il linguaggio, ricucendo lo strappo con la contemporaneità, modificandone le prospettive, in pratica a riportarla in vita.
...
Insomma, a parte i generosi e strani tentativi di Tucidide di far passare l'involuzione per evoluzione, è certo e inconfutabile che i migliori "atout" di quella splendida stagione operistica che stiamo vivendo (1985-2005) si devono alla tardiva egemonia operistica dell'estetica sessantottina.
Anche un anti-sessantottino come me deve riconoscere con gratitudine che l'opera era morta (nel ventennio precedente) e loro l'hanno riportata in vita.

A dire il vero, la mia obiezione era relativa alla tua precedente affermazione secondo cui:
l'opera era uscita dalla relazione col presente, spinta via in malo modo dalla violenza eversiva (e sciocca) del '68.

Questa frase mi sembra fare a pugni con la celebrazione dei post-sessantottini come fautori della rinascita dell'opera dal 1985 in poi.
Se consideri la generazione di intellettuali cresciuta e formatasi in quella temperie culturale e sociale così importante per l'opera, veri e propri Copernico del teatro lirico, mi risulta strano che poi tu definisca quella medesima temperie violenta, eversiva e - addirittura - sciocca. :shock: :roll:
... Comunque, non importa... :roll:
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Re: L'OPERA E IL '68

Messaggioda MatMarazzi » mer 04 nov 2009, 15:32

Tucidide ha scritto:Se consideri la generazione di intellettuali cresciuta e formatasi in quella temperie culturale e sociale così importante per l'opera, veri e propri Copernico del teatro lirico, mi risulta strano che poi tu definisca quella medesima temperie violenta, eversiva e - addirittura - sciocca. :shock: :roll:
... Comunque, non importa... :roll:


Esistono, caro Tuc, gli "ideologizzati".
Costoro, perché odiano il Comunismo, dicono "Brecht non sa scrivere, Pasolini non sa fare i film".
Poi ci sono i non "ideologizzati", come ritengo di essere io.
Costoro, pur odiando - è solo un esempio - il Comunismo, dicono "Brecht è comunque un grandissimo drammaturgo; alcuni film di Pasolini sono comunque capolavori".
I "non ideologizzati" come me hanno le loro idee, e vi stanno ben attaccati, ma non ne fanno una chiave di valutazione artistica, storica, estetica: solo un proprio bagaglio interiore e personale.

Il fatto che io non condivida una virgola del '68 e della sua ideologia non mi deve impedire, e di fatto non mi impedisce, di riconoscere la forza, l'originalità, l'intensità della sua estetica e soprattutto misurare l'importanza storica dei contribuiti da esso offerti al mondo dell'Opera.
Quali che siano le mie idee, io inneggio alla genialità di un Bondy mentre darei alle fiamme qualsiasi regia di un Zeffirelli.

E' davvero così strano da intendere questo ragionamento?
Non capisco...
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Re: L'OPERA E IL '68

Messaggioda Tucidide » mer 04 nov 2009, 17:39

MatMarazzi ha scritto:E' davvero così strano da intendere questo ragionamento?
Non capisco...

Oh, al contrario, è facilissimo. E anche molto diffuso, come ragionamento.
Però, non lo condivido. :D
Il "sessantottinismo", se così posso dire, non è, in questo caso, una componente accessoria, un qualcosa di più. E' la radice stessa di questa svolta che tu dici.
Un antifascista può portare la macchina a riparare da un meccanico fascista che ha in casa i busti di Mussolini. Nella riparazione della coppa dell'olio o della marmitta non si noterà l'essere fascista del meccanico, quindi il cliente antifascista non se ne lamenterà.
Invece, qua parliamo di un'ideologia (o ideale, fai tu, per me è uguale, stessa roba) che ha segnato, informato, ispirato, causato l'attività artistica. I sovrintendenti, i registi, i direttori, gli artisti che tu citi non sono stati importanti, non si sono distinti a prescindere dal loro essere sessantottini, ma proprio in quanto sessantottini.
Se tu dici di non approvare il Sessantotto, come puoi approvare artisti che si sono espressi proprio in quanto sessantottini?
Quindi, se posso, mi vien da pensare che tu, in fondo in fondo, tanto antisessantottino non sia... :P :wink:
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Re: L'OPERA E IL '68

Messaggioda MatMarazzi » mer 04 nov 2009, 20:20

Tucidide ha scritto:Se tu dici di non approvare il Sessantotto, come puoi approvare artisti che si sono espressi proprio in quanto sessantottini?
Quindi, se posso, mi vien da pensare che tu, in fondo in fondo, tanto antisessantottino non sia... :P :wink:


Bene, allora devo dire che Abbado non sa dirigere, perchè non sono sessantottino?
O devo dire che Zeffirelli è il mio ideale di regista perché non era sessantottino?
O che Dante scriveva male in quanto Guelfo Bianco?
: Blink :
Vedi Tuc, certe dispute talmudiche possono essere gratificanti, ma non portano contributi al thread: ciò che è artisticamente rilevante lo è a prescindere dell'ideologia che ha mosso il suo autore.
E il nostro giudizio deve essere tale a prescindere dalle nostre ideologie.
Trovo sterile qualsiasi dibattito che non parta da questo presupposto. Scusa la franchezza.

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Re: L'OPERA E IL '68

Messaggioda Tucidide » mer 04 nov 2009, 21:36

Sicuramente avrai capito che non metto in dubbio l'importanza di giudicare l'espressione artistica a prescindere dalla sua ideologia di fondo.
Prendendo i tuoi esempi, se io dicessi che i Guelfi bianchi erano dei cretini, allora ci metterei dentro anche Dante, e poco mi servirebbe, truffaldinamente, aggiungere: ... eh... però Dante era un genio! :D (per la serie: nessuno è perfetto.)
Non potrei stigmatizzare, né tacciare di rabbinismo talmudico, chi dicesse che mi contraddico. Avrebbe ragione lui!
Se un'ideologia ha portato ad un'espressione artistica importante, fondamentale, allora di certo non la si può bollare complessivamente come "sciocca". Se il Sessantotto è sciocco, allora sono sciocchi anche i sessantottini, quelli che tu ritieni, sicuramente a ragione, grandi innovatori.
Tutto qua. : Sailor :

Aspetto con curiosità le prossime puntate dell'editoriale di Pietro, così non ammorbo ulteriormente il thread con discussioni sterili. : Sailor : : Chessygrin :

Peace and Love (tanto per restare in tema...) : Nar :

P.S.: Nessun altro gioca al mio quiz del "Niun mi tema"? (pubblicità subliminale) :mrgreen:
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Re: L'OPERA E IL '68

Messaggioda MatMarazzi » mer 04 nov 2009, 23:24

Tucidide ha scritto:Prendendo i tuoi esempi, se io dicessi che i Guelfi bianchi erano dei cretini, allora ci metterei dentro anche Dante, e poco mi servirebbe, truffaldinamente, aggiungere: ... eh... però Dante era un genio! :D (per la serie: nessuno è perfetto.)
Non potrei stigmatizzare, né tacciare di rabbinismo talmudico, chi dicesse che mi contraddico. Avrebbe ragione lui!


E invece avrebbe torto! Perché la grandezza di Dante si misura su altre cose che non il tuo giudizio politico sui Guelfi Bianchi (giudizio che in fondo, se si parla di letteratura, non interessa nessuno, e in teoria non dovrebbe interessare nemmeno a te).
La gioventù (beato chi ce l'ha) può indurre in varie sorte di semplificazioni, ma sono semplificazioni che - come dice la Fleming, nella tua nuova simpaticissima firma - l'età e l'esperienza risolvono.
Detto questo, ho la sensazione che questi dibattiti sulla mia incoerenza (che mi fa affermare enormità come il fatto che Abbado sa dirigere, pur essendo un sessantottino) abbiano già notevolmente frenato l'evoluzione di un thread che avrebbe invece ben altri spunti di interesse; un ritorno alle ragioni della crisi degli anni 65-85 (se mai crisi vi è stata) non sarebbe male.
Attendo con impazienza, in proposito, anche i punti di vista non solo di Beck e Rodrigo, ai quali espressamente rispondevo, ma anche di un certo "desaparecido", che (con la mia tipica incoerenza) mi ostino a considerare persona illuminata e illuminante, nonché amico carissimo e preziosissimo, e tutto questo benché abbia idee diversissime dalle mie.

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Re: L'OPERA E IL '68

Messaggioda Tucidide » gio 05 nov 2009, 0:18

MatMarazzi ha scritto:un ritorno alle ragioni della crisi degli anni 65-85 (se mai crisi vi è stata) non sarebbe male.

Ah, se ci fosse crisi io non lo so... non c'ero e se c'ero ero troppo piccino. :mrgreen:
Ma davvero i teatri erano mezzi vuoti e la gente si stava allontanando dall'opera? E' un dato abbastanza interessante, questo.
I nostalgici dicono che adesso i teatri sono vuoti, perché la mancanza di voci ha fatto disamorare il pubblico, mentre in passato (ovviamente, senza dire date :) ) la gente andava a teatro felice e soddisfatta.
Ad essere onesti, in Italia questo è abbastanza vero: più volte mi è capitato di assistere a spettacoli con il teatro mezzo vuoto.

Rileggendo i post precedenti mi vorrei anche soffermare su un altro punto:
lo strano fenomeno del "mito del tenore", osteggiato dai sessantottini e ora tornato prepotentemente alla ribalta

In realtà, non so se il ROF sia specchio del sessantottismo in musica, ma proprio dal 1985 in poi i due tenori americani Rocky & Chris riproposero in chiave sicuramente diversa, ma altrettanto decisiva, il mito del tenore.
Invece adesso... mi sfugge un po' quali siano i tenori-mito: Florez e Kaufmann, forse Vargas, con Villazon a corrente alternata e Alagna oramai quasi tramontato? Bravissimi, certo, ma numericamente un po' pochi, rispetto ai Pavarotti - Domingo - Carreras - Corelli - Bergonzi - Gedda - Kraus degli anni '70.
Di soprani o mezzosoprani-icona invece ce ne sono a valanghe: Dessay, Mattila, Fleming, Netrebko, Gheorghiu, De Niese, Damrau, Denoke, Westbroek, Harteros, Garanca, DiDonato, Bartoli... Tutte cantanti che suscitano entusiasmo, più o meno giustificato ai miei occhi.
Fra l'altro, fateci caso: dei cantanti che le case discografiche cercano di lanciare il 70% sono soprani. Pensiamo anche solo alle due più recenti scritturate della EMI, Kate Royal e Karine Babajanyan, all'ibrida Measha Brueggergosman della DGG, o a Nicole Cabell della DECCA. Non tutte sopravvivono alla pubblicità, perché come dico sempre il pubblico non è cretino e se un artista non mantiene le promesse della pubblicità, viene cassato (è successo con Calleja, che doveva essere il nuovo Bjoerling, e invece... :roll: ): intanto, però, le voci femminili mi sembrano quelle che adesso "tirano"di più.
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