Eccolo lì. Arriva alla Scala con un programma tutto pensiero e sentimento, ma per nulla spettacolare. L'orchestra fatica parecchio in un Wagner del 1844 (rivisto nel 1855: la Faust-ouverture), ostico, frammentario e un po' arido pur nella pienezza di idee infuse dal podio, poi arrivano due letture da Padreterno di Liszt e soprattutto Schumann, che lega e spiega tutto l'impaginato. Sempre più essenziale nel gesto, semplice e mai esibito nel modo di porsi quanto profondo nelle letture. E' Daniele Gatti, di passaggio a Milano prima del prossimo Falstaff. La Filarmonica, nella sua formazione migliore - De Angelis in pole position, l'arpa stupenda della Prandina nell'Orfeo di Liszt, i corni giusti con il giovane spagnolo giusto, anche i timpani giusti senza il bombardiere - lascia intendere cosa potrebbe succedere in un annetto di cura-Gatti. Prove e studio, e risultati. E il concerto, breve in fondo e a tasso zero di spettacolarità ma tasso un milione di intelligenza, diventa un ulteriore dimostrazione dello stato e stadio di grazia e libertà mentale e di cuore di un direttore che si esprime, a 53 anni, come accadde all'Abbado meraviglioso della piena maturità, quando mente e cuore, appunto, parvero liberarsi facendo della musica una continua evoluzione. L'integrale delle sinfonie di Schumann da parte di Daniele Gatti sarà uno dei capisaldi della prossima, meravigliosa stagione di Santa Cecilia, a Roma. E la Sinfonia nr 2 in Do maggiore ne è stata, a Milano alla Scala, un assaggio tale da fer venire l'acquolina in bocca. Eppure, siamo certi - ed è il bello - che la stupenda lettura data a Milano potrà cambiar connotati, in altro contesto, a Roma. Qui, Gatti l'ha voluta ed eseguita come sintesi di un concerto dedicato al Romanticismo (ma un romanticismo non dimentico dei suoi precedenti) vissuto come sogno, visione, forse a tratti anche incubo, nel quale, alle spalle di Wagner, di Liszt, e soprattutto di Schumann, vegliava un'ombra - quella di Felix Mendelssohn (di cui Gatti è felicissimo interprete, in particolare, di un'Italiana nella quale legge, in maniera tutta speciale, un mondo di inquietudini). Allora, in questo caso, la Seconda di Schumann era sì, ombrosa, giustamente sghemba negli scarti ritmici dello Scherzo (brava davvero, qui, la Filarmonica), distesa ma pudìca nell'adagio-capolavoro (che abisso di bellezza, questo brano!), risolutiva (ma fino ad un certo punto) dalla ombre alla luce nel finale. Ma con un equilibrio - nel dettaglio di una concertazione capillare ma ricondotta ad unità (che è il segno del Gatti di questi anni) - rimandante, appunto, a Mendelssohn. Non è detto che a Roma, nel quadro dell'integrale, la lettura sarà identica. Anzi, sono da aspettarsi sorprese, da un direttore per il quale ogni concerto, ogni opera, ogni serata, sembra diventare - a godimento di chi ascolta - una nuova avventura dello spirito (e in questo c'è moltissimo in Gatti - nello spirito, si badi, pur nella differenza delle letture e dello stile - dell'Abbado maturo). Ciò che colpisce - ad ogni ascolto, da Parigi, ad Amsterdam, a Milano i nostri più recenti - di questo direttore è che il suo far musica - assieme alle orchestre che dirige - è sempre più un lavoro "dell'anima" (la tecnica è strumento, mai fine) e "nell'anima" lasciato alla riflessione (e al cuore: Gatti mai dimentica il lato emotivo) dell'ascoltatore, in una conquista di libertà espressiva che ogni volta affascina ed avvince. Così, l'ascolto diventa, ogni volta, una meravigliosa avventura dello spirito, cui partecipano mente e cuore (mi accorgo che ho detto lo stesso, di recente, di un paio di regie - in particolare Un Viaggio a Reims ad Amsterdam e le folgoranti Divine Parole al Piccolo di Milano - di Damiano Michieletto: non è un caso, ed è bella e forte la circostanza in cui il lavoro e l'opera d'arte si fanno vivere, da chi ne fruisce e ne è investito, a questo livello).
marco vizzardelli