Il concerto conclusivo del ciclo dedicato, alla Scala di Milano, ai 70 anni di Daniel Barenboim è stato particolare. Questo il programma e gli interpreti
Prima parte:
L.v. Beethoven: Concerto nr 3 in Do min.
pianoforte: Daniel Barenboim
direttore: Daniel Harding
Prima parte:
L.v. Beethoven: Concerto nr 3 in Do min.
Seconda parte
P.I. Ciaikovsky: Concerto nr.1 in si bem. min.
Si può pure riderci su, visto che il tutto ha scatenato un trionfo di orchestra e pubblico al festeggiato. Ma lo sconcerto resta: qui abbiamo ascoltato due parti di qualità totalmente divresa l’una dall’altra.
Il concerto di Beethoven è stato preparato ed eseguito al limite di figurare come edizione “di riferimento”. Una meraviglia la concertazione e direzione di Harding (suono leggero, trasluicido, fraseggi mobili, tempi adeguati alle necessità del pianista ma senza per questo rinunciare ad una lettura originale quanto plausibile). Bella, d’altra parte, la sia pur “antica” (è sempre così) lettura di Barenboim. Due mondi differenti hanno trovato un dialogo stimolante. Molto bello
Ma, ascoltata la seconda parte, meglio sarebbe stato che ilò concerto finisse lì.
Per la verità, Ciaikovsky era iniziato bene: magnifica l’enunciazione di Harding del celebre tema. Ma, purtroppo, non è materialmente potuto andare oltre in quanto il suo compito – per tutta la durata successiva del concerto (fatti salvi, forse certi rabeschi del movimento centrale) – è stato tenere insieme il tutto a fronte dei cocci (amnesie, fracasso, svarioni metrici) del pianista. Ne è sortita una sorta di melma musicale, fra qualche frammento suggestivo e tanto baccano. Anche Abbado aveva avuto il suo da fare a tenere insieme Chopin rispetto ai cocci di Barenboim. Qui la difficoltà si è riproposta. Harding ha adottato la forse unica soluzione possibile: scomparire e fare ordine nel disordine. Probabilmente ha fatto bene: in caso contrario, si sarebbe rischiato il caos che, comunque, sulla tastiera è stato considerevole.
Ma non era finita. Barenboim è simpatico: lo è stato – da gran signore – nei confronti di Abbado, e gli piace da matti piacere
al suo pubblico. Allora, tre bis. Ok il notturno destrutturato ma almeno forte del ben noto suono perlato. Ok la Valse-Minute ruffianissima e salottiera. Ma improponibile ad un pubblico pagante (come già il Ciaikovsky, anzi peggio) la polacca in la bem. magg., eseguita saltando sul seggiolino e abbattendo mannaiate sulla tastiera in un profluvio di note acchiappate (o non) a casaccio. Per questo genere di esecuzione, esiste il salotto di casa propria, davanti ai nipotini da far ridere. Qui la simpatia deborda in qualcosa d’altro, che non ha più a che fare con una sala da concerto o teatro, né con il rispetto dovuto a Chopin e ad un pubblico. La simpatia può aver “pagato” nei confronti di un pubblico, ma Daniel Barenboim tenga presente che (come era già successo, alla Scala, in occasione di un ben noto Imperatore di Beethoven) c’è chi si è sentito preso in giro e defraudato da tutta la seconda parte del concerto più quella orripilante polacca, un vero insulto a Chopin e alle orecchie di chi l’ha ascoltata.
Esiste un pianista, di nome Krystian Zimerman, che diluisce e dosa le sue esecuzioni, nonché il “suo” Chopin, in base allo studio (ripetiamo: STUDIO) e al “senso”" di dover proporre ad un pubblico un’esecuzione rifinita fino ai limiti della perfezione. Esiste un pianista di nome Pollini, idem come sopra. E’ esitito un pianista di nome Arthur Rubinstein per il quale – ad un’età di 10 o 15 anni superiore ai 70 di Barenboim – l’esecuzione della Polacca in la bem. magg. restava basata su un fenomenale puntiglio esecutivo e di interprete. Al tavolo, con una bibita, è piacevole ascoltare il piano-bar. Alla Scala, no. Neanche con la scusa del compleanno.
marco vizzardelli