Don Carlos, Parigi, opera Bastille
Inviato: mar 17 ott 2017, 17:36
Ciao a tutti, mi sono appena iscritto dopo aver letto su questo sito qua e là (ma vedendo l’altissima mole di contenuti ci sarà ancora tantissimo da scoprire) alcuni scritti molto interessanti. Volevo cogliere l’occasione del primo messaggio per provare a fare qualche riflessione sul Don Carlos in scena in questi giorni a Parigi, spettacolo che si preannunciava come l’evento lirico di questo periodo. Diciamo subito che le attese non sono state affatto deluse anche se forse a colpire sono stati alcuni elementi meno attesi, mentre altri hanno deluso di più. Partiamo dalle note positive, Philippe Jordan. Prima ancora che per la superba direzione d’orchestra il merito del maestro franco-svizzero è stato quello di farci capire come Verdi avesse originariamente pensato quest’opera per l’Opera: ci è parso finalmente chiaro come i famigerati tagli siano stati effettuati assolutamente controvoglia e che risultino deleteri per la costruzione drammatica (per chi volesse approfondire la questione oltre che il famosissimo volume del Budden la prefazione di Ursula Gunther all’edizione critica che acclude questi materiali: si scoprirà che la questione è molto più contorta di come la vulgata recita). Ma i meriti di Jordan non si fermano certo qui: una volta fatta una scelta “sulla carta” non meno discutibile di un’altra, egli è stato in grado di convincerci assolutamente della bontà di essa, costruendo, come mai prima mi era stato possibile sentire, uno stile, un suono assolutamente perfetti, unici, specifici in relazione all’edizione mesa in scena, e , cosa più importante, assolutamente mai fini a se stessi ma sempre attentissimi allo sviluppo teatrale dell’opera (il fremito degli archi bassi sotto la melodia ancora celestiale del duetto un attimo prima dell’arrivo di Filippo nel finale!!). Citerò due esempi: l’introduzione e l’accompagnamento della scena di Eboli nel secondo atto dove per una volta il tanto strombazzato “stile francese” diventa sinonimo di eleganza e raffinatezza, e non petulanza e civetteria, e la marcia dei condannati al supplizio nell’autodafè, davvero impressionante per scansione bruciante e colore cupo. Davvero dunque una direzione che si può definire paradigmatica nel modo di intendere questo capolavoro. Si spera che in futuro Jordan si dedichi agli altri lavori del Verdi francese, comprese certe riscritture. Orchestra in buca che segue perfettamente le indicazioni del maestro mentre abbastanza imbarazzanti gli ottoni fuoriscena nella prima scena e nella banda dell’autodafè).
Le voci in generale si coprono di gloria anche se forse siamo un pelo sotto l’eccellenza di Jordan. Infatti i soli che si può dire abbiano cercato di costruire un personaggio originale sono stati a mio avviso Kaufmann e la Garanca. Vi dico subito che adoro visceralmente la bella lettone quindi il mio giudizio potrebbe essere falsato. Qualche difficoltà nelle agilità acute della canzone del velo le si sentono (perché a questo punto non riesumare la versione in sol maggiore preparata da Verdi e poi cambiata per le esigenze della prima interprete?), ma il resto è a un tale livello di perfezione vocale, senza un cedimento e con un colore davvero unico da lasciare allibiti (e infatti all’o don fatale il teatro viene giù). Ma al tempo stesso mi è sembrato che la cantante sia riuscita a differenziare molto bene le diverse fasi del suo personaggio e della sua evoluzione psicologica scena dopo scena, dando quindi un ritratto della principessa d’Eboli contorto e sfaccettato. Kaufmann invece non fa nessuna rivoluzione, o meglio l’interprete è sublime ma è ugualmente sublime a come lo conosciamo in questo ruolo. Rispetto ai miei timori devo dire che l’ho trovato proprio in forma. Certo se uno cerca il legato purissimo della prima aria è bene rivolgersi altrove, ma il resto è una meraviglia, senza un cedimento nelle numerose impennate in acuto e con smorzature e mezzevoci fantastiche. Interpretativamente poi ho molto apprezzato la costruzione di un climax emotivo molto ben calibrato, cercando cioè di evitare di fare il pazzo urlante fin da subito. In una parola si può dire che nella prima parte fino al terzetto (a mio avviso il punto migliore della serata) abbia evidenziato più l’aspetto dell’innamorato che del titano, puntando più sull’accumulo interiore per poi lasciarsi andare nel terzo e quarto atto. Una volta svuotato eccolo tornare apparentemente quello di prima ma con la consapevolezza di tutto quello che ha sofferto. Meno originali gli altri: Tezier è prevedibilmente elegante e efficace nella morte ma il personaggio finisce lì, senza particolari guizzi o introspezioni. Sono sempre più convinto che i migliori interpreti di questo ruolo sono certi baritoni inglesi (Hampson, Keenlyside…). Abdrazakov a me non piace particolarmente e anzi lo trovo abbastanza noioso ma il pubblico gli ha tributato un’ovazione al termine della sua aria. Chi mi ha deluso è stata la Yoncheva, o meglio il colore al centro è molto affascinante, certe intenzioni (che rimangono solo intenzioni) anche interessanti ma soffre pesantemente ogni volta che la voce si spinge oltre il sol acuto, quindi non vi dico cosa sono diventate le gradi frasi della sua aria.
E adesso veniamo alla regia, vero punto dolente e delusione della serata. Dello stesso regista avevo visto la Frau ohne Schatten a Monaco questo luglio la quale, pur senza esaltarmi, mi aveva convinto di più. Credo che il motivo sia semplicemente la difficoltà teatrale dei due titoli. Infatti gli stessi difetti che qui ho ritrovato li avevo già notati allora ma qui risaltano maggiormente e non danno scampo al regista polacco. Si possono trovare simbologie più o meno efficaci, si possono creare ambientazioni più o meno interessanti ma se tutto questo non viene sviluppato coerentemente e sulla musica allora si affloscia teatralmente (cosa che raramente con i miei due registi preferiti, Richard Jones e Dimitri Tcherniakov succede). Sarà che in una settimana avevo visto anche l'Onegin a Zurigo (Kosky) e il Tristan a Torino (Guth), vere e proprie macchine teatrali perfette, ma questo Don Carlos mi è sembrato teatralmente povero e moscio, con i cantanti lasciati a loro stessi a reiterare le solite mosse di tutti i don Carlo. Peccato perché musicalmente non mancava certo di senso teatrale anzi! Sono sempre più convinto che a teatro non contino le idee in sé ma come un regista ti sa convincere della loro bontà , esattamente come ha fatto Jordan.
Mi rendo conto di aver scritto troppo per essere il mio primo intervento, spero di risultare un minimo comprensibile. Anzi vi chiedo proprio scusa ma ritenevo che su questo spettacolo fosse opportuno spendere qualche parola posto che qui in Italia sembra che non se ne sia accorto nessuno mentre infuriano discussioni su fondamentali Carmen, eseguite per’altro con la vecchia Choudens, da cui probabilmente dipendono le sorti della storia dell’interpretazione operistica (scusate lo sfogo, se lo ritenete poco opportuno cancellatelo pure, non mi offendo).
Segnalo infine che mi sembra di aver capito che il 19 sarà trasmesso su arte.
Buona giornata a tutti
Le voci in generale si coprono di gloria anche se forse siamo un pelo sotto l’eccellenza di Jordan. Infatti i soli che si può dire abbiano cercato di costruire un personaggio originale sono stati a mio avviso Kaufmann e la Garanca. Vi dico subito che adoro visceralmente la bella lettone quindi il mio giudizio potrebbe essere falsato. Qualche difficoltà nelle agilità acute della canzone del velo le si sentono (perché a questo punto non riesumare la versione in sol maggiore preparata da Verdi e poi cambiata per le esigenze della prima interprete?), ma il resto è a un tale livello di perfezione vocale, senza un cedimento e con un colore davvero unico da lasciare allibiti (e infatti all’o don fatale il teatro viene giù). Ma al tempo stesso mi è sembrato che la cantante sia riuscita a differenziare molto bene le diverse fasi del suo personaggio e della sua evoluzione psicologica scena dopo scena, dando quindi un ritratto della principessa d’Eboli contorto e sfaccettato. Kaufmann invece non fa nessuna rivoluzione, o meglio l’interprete è sublime ma è ugualmente sublime a come lo conosciamo in questo ruolo. Rispetto ai miei timori devo dire che l’ho trovato proprio in forma. Certo se uno cerca il legato purissimo della prima aria è bene rivolgersi altrove, ma il resto è una meraviglia, senza un cedimento nelle numerose impennate in acuto e con smorzature e mezzevoci fantastiche. Interpretativamente poi ho molto apprezzato la costruzione di un climax emotivo molto ben calibrato, cercando cioè di evitare di fare il pazzo urlante fin da subito. In una parola si può dire che nella prima parte fino al terzetto (a mio avviso il punto migliore della serata) abbia evidenziato più l’aspetto dell’innamorato che del titano, puntando più sull’accumulo interiore per poi lasciarsi andare nel terzo e quarto atto. Una volta svuotato eccolo tornare apparentemente quello di prima ma con la consapevolezza di tutto quello che ha sofferto. Meno originali gli altri: Tezier è prevedibilmente elegante e efficace nella morte ma il personaggio finisce lì, senza particolari guizzi o introspezioni. Sono sempre più convinto che i migliori interpreti di questo ruolo sono certi baritoni inglesi (Hampson, Keenlyside…). Abdrazakov a me non piace particolarmente e anzi lo trovo abbastanza noioso ma il pubblico gli ha tributato un’ovazione al termine della sua aria. Chi mi ha deluso è stata la Yoncheva, o meglio il colore al centro è molto affascinante, certe intenzioni (che rimangono solo intenzioni) anche interessanti ma soffre pesantemente ogni volta che la voce si spinge oltre il sol acuto, quindi non vi dico cosa sono diventate le gradi frasi della sua aria.
E adesso veniamo alla regia, vero punto dolente e delusione della serata. Dello stesso regista avevo visto la Frau ohne Schatten a Monaco questo luglio la quale, pur senza esaltarmi, mi aveva convinto di più. Credo che il motivo sia semplicemente la difficoltà teatrale dei due titoli. Infatti gli stessi difetti che qui ho ritrovato li avevo già notati allora ma qui risaltano maggiormente e non danno scampo al regista polacco. Si possono trovare simbologie più o meno efficaci, si possono creare ambientazioni più o meno interessanti ma se tutto questo non viene sviluppato coerentemente e sulla musica allora si affloscia teatralmente (cosa che raramente con i miei due registi preferiti, Richard Jones e Dimitri Tcherniakov succede). Sarà che in una settimana avevo visto anche l'Onegin a Zurigo (Kosky) e il Tristan a Torino (Guth), vere e proprie macchine teatrali perfette, ma questo Don Carlos mi è sembrato teatralmente povero e moscio, con i cantanti lasciati a loro stessi a reiterare le solite mosse di tutti i don Carlo. Peccato perché musicalmente non mancava certo di senso teatrale anzi! Sono sempre più convinto che a teatro non contino le idee in sé ma come un regista ti sa convincere della loro bontà , esattamente come ha fatto Jordan.
Mi rendo conto di aver scritto troppo per essere il mio primo intervento, spero di risultare un minimo comprensibile. Anzi vi chiedo proprio scusa ma ritenevo che su questo spettacolo fosse opportuno spendere qualche parola posto che qui in Italia sembra che non se ne sia accorto nessuno mentre infuriano discussioni su fondamentali Carmen, eseguite per’altro con la vecchia Choudens, da cui probabilmente dipendono le sorti della storia dell’interpretazione operistica (scusate lo sfogo, se lo ritenete poco opportuno cancellatelo pure, non mi offendo).
Segnalo infine che mi sembra di aver capito che il 19 sarà trasmesso su arte.
Buona giornata a tutti