Sono francamente stupefatto. Io questo Attila l'ho visto alla prima il 23 (e per inciso mi è tanto piaciuto che tornerovvi domenica) e tutte le persone - molte - che conoscevo in sala e con cui ho parlato concordavano sulla bellezza della direzione. L'unica ipotesi che posso fare è che, al solito, la Rai abbia indecentemente ripreso lo spettacolo.
Venendo allo specifico, e contestando ovviamente teo.emme
:
Sarà che il mio imprinting con Attila è stato nel 1991 a Milano in quella che è - tutt'ora - la prova migliore del Muti direttore verdiano, sarà che difficilmente troverò nella mia carriera d'ascoltatore un Attila come Ramey...
E allora che si fa? Concesso e non dato che quell'Attila fosse meraviglioso, non facciamo più Attila? Non c'è più Ramey (in ogni caso, da quel che ricordo io, e magari anche da quel che documenta il disco, assai migliore sei anni prima alla Fenice), quindi addio a quest'opera?
non capisco, infatti, quest'ansia di "riduzione", di "intimismo", di "miniaturizzazione" a tutti i costi. Sta diventando ormai una moda fastidiosa - per me - come ad ogni Aida in cui ci tocca sorbire il genio di turno che ci "spiega" che Aida è opera da camera. E anche qui - come nella Giovanna scaligera - ho letto e sentito di tutto circa le "finezze" orchestrali, la fragilità dei personaggi, la partitura che anticipa, prevede e apre alle opere della maturità, l'opera "finalmente liberata" dal quarantottismo e dalla retorica ottocentesca. E blablabla.
Io non so cosa Mariotti abbia detto prima della prima. In ogni caso, sarebbe buona regola non farsi influenzare dalle dichiarazioni degli interpreti. Cinque volte su dieci, e qui ha ragione teo.emme, sono inutili banalità. Le altre cinque, sono travisate da giornalisti che hanno con la musica la stessa dimestichezza che ho io con la fisica nucleare. Conta non quel che i musicisti dicono, ma quel che fanno in sede di esecuzione. Quindi, a mente sgombra, a mio modo di vedere l'aspetto eccezionale (uno dei tanti) di questa direzione, in assoluto la migliore che io abbia sentito in quest'opera, è proprio la sua capacità di rileggere il cabalettismo brado che, in effetti, è una caratteristica dell'Attila, in maniera affatto nuova. Puntando, cioè, non sulla magniloquenza del suono, gli schianti, il volume, la verdianità più bandistica ed effettistica, ma su un suono asciutto, energico, concentrato, nervoso, tutto muscoli ma senza pesantezze. Se ci si prendesse la briga di andare ad ascoltare quest'Attila, io consiglierei di fare attenzione ad alcuni brani da sempre negletti, cioè i "tempi di mezzo" delle scene solistiche. In particolare, il breve racconto di Foresto fra il cantabile e la cabaletta di Ezio. Una musica banalissima diventa eccezionale grazie a un accompagnamento di straordinaria teatralità, grazie a una dinamica e un'agogica calibrate al millimetro, eccezionalmente energiche ma senza alcuna pesantezza.
il protagonista non c'è, perché manca il piglio
Questa storia cellettiana del "piglio" mi ha sempre lasciato perplesso. Cos'è il "piglio"? Boh. D'Arcangelo manca un po' di volume, questo sì. Ma come interprete, secondo me, ha capito perfettamente il personaggio. Concludo con gli uomini della compagnia: Sartori può non piacere come timbro e perché è impresentabile in scena (infatti a me non piace), ma bisogna ammettere che canta bene, smorza, regge la parte (che non è improba come tessitura ma richiede la capacità di cantare lunghe frasi legate - è la vera parte belcantistica dell'opera, per inciso) ed è sicurissimo. Quanto a Piazzola, dopo il Simone con Chung che mi aveva entusiasmato (pensa un po', teo.emme: entusiasmarsi per qualcuno vivo e in carriera
), l'ho trovato in grande forma. Sul pasticcio successo alla replica non mi pronuncio: prima di sparare sentenze, sarebbe bene informarsi. Io non l'ho fatto, posso supporre che il teatro abbia convocato il secondo baritono che poi, visto che l'intervallo era passato e Piazzola cantava, se ne sia andato per i fatti suoi. Però non ho dati di fatto, quindi sto zitto.
E adesso la questione Odabella:
P.S.: in tutta onestà esiterei nell´indicare la Sutherland come paradigma di Odabella.
In quella sortita per me è rivelatrice e per ora la migliore che mi è capitata sotto orecchio. E mostra che Odabella è un personaggio di matrice belcantista
Il paradigma di Odabella non è la Sutherland perché, molto semplicemente, la Sutherland non cantava l'opera (o almeno non che io sappia). Si è limitata a incidere la cavatina, in studio. Dove l'ha cantata meravigliosamente, al solito, e interpretata malissimo, dato che, al solito, non si capisce una mazza di quel che va dicendo. Ora, la parte di Odabella non è affatto "belcantistica" (qualunque significato si voglia dare al termine) perché nessun compositore "belcantista" avrebbe fatto entrare in scena una primadonna su un ottovolante del genere. La parte è in realtà affatto sperimentale, la più sperimentale dell'Attila, quasi espressionista nei suoi folli salti che dipingono, appunto, un'esaltata. Chi ha visto e sentito un po' di Attila in teatro sa che tutte le Odabelle entrano in scena terrorizzate per dover sparare il do acuto e quel che segue dopo tre note, a gola fredda e del tutto scoperte. La Siri, checché se ne dica, ha dimostrato una sicurezza invidiabile qui e altrove, anche se nella romanza mi ha lasciato perplesso una certa difficoltà a emettere dei veri piani e una cadenza un po' avventurosa (io ho sentito qualche nota crescente, ma ero solo io, quindi magari è il mio orecchio che funziona male).
Concludendo, una buona compagnia al servizio di una direzione stratosferica. Regia, purtroppo, non pervenuta.
Ma mi permetto di consigliare a chi non l'ha fatto di fare un salto a Bologna.
Scusate la lenzuolata, baci baci
AM