La Boheme Scala Dudamel Agresta
Inviato: gio 20 ago 2015, 22:36
Non passerà alla storia, ma è viva, giovane, ardente, non banale, più divertente che poetica. La Boheme Dudamel-venezuelana della Scala è così, con un'eccellenza vocale e una - ahimè - caricatura, un podio difettoso ma geniale, un orchestra "etnica" ma formidabile, il tutto avvolto nello spettacolo di Zeffirelli che è il suo migliore e funziona ancora benissimo.
- L'eccellenza. Maria Agresta: è il Manuale di Mimì, nel modo di porgere le frasi, nel canto e nel gesto e nell'espressione. Si può eccepire che il timbro, talora un po' querulo, non esprima una personalità travolgente, ma stravince nell'esattezza con la quale "è" Mimì. Una certezza, oltretutto in continua crescita.
Il talento, e un limite. Gustavo Dudamel. La sua è La Boheme di un grande direttore sinfonico, colmo di talento. Non si contano gli incisi, le note d'espressione, le sortite solistiche in appoggio ai cantanti quasi mai udite, e questa sua Boheme infiammata, vibrante, anche "novecentesca" in cenni d'orchestrazione quasi stravinskiana, è strumentalmente avvincente, molto più ardita della precedente di Gustavo alla Scala, che era solo pulita ma troppo cauta. Qui, con un'orchestra che glielo consente, ha osato e ha osato bene. Con un limite. La sua Boheme non è teatro in musica. Fra Dudamel e il palcoscenico - lo si era notato in tutte le sue precedenti esibizioni operistiche - c'è come un muro. Il palco - il teatro in musica - non è suo, le sincronie talora saltano, e questa Boheme è tanto meravigliosamente "sinfonica" quanto poco è teatrale. Che sia poco parigina non importa, tanto è viva ed infuocata nel suo clima fra festa e tragedia, così "ispanico" (non potrebbe essere altrimenti). Che ci sia più passione che poesia, amen. Ma Boheme è un meccanismo teatrale perfetto. E questo, con Dudamel, sfugge, nello splendore solo sinfonico dei mille particolari orchestrali. Gran direttore sinfonico. Niente di male, ma fossimo in lui ci rifletteremmo. Si può esserlo, Celibidache "mollò" l'opera, eppure fu eccelso. Gli imminenti concerti di Gustavo saranno tutti da ascoltare. Anche questa Boheme lo è. Ma il limite c'è.
La caricatura. Rodolfo. Vittorio> Grigolo inizia con una aberrazione, una mostruosità kitsch, proprio alla sua entrata. "Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli PPPPPPPParigi!". Così, con otto P più un ululato. Per tutto il primo atto balza, saltella, strabuzza gli occhi come gli attori dei film muti, un tarantolato, una sorta di epilessia scenica cui fa riscontro un canto disordinato he (e ti fa rabbia per quel che potrebbe essere) trova un'isola felice nella "gelida manina", ma tonfa nel finale 1 dove, insistendo a cantare "amor, amor, amor" senza uscir di scena (e coprendo vocalmente la partner), nella foga il nostro rantola e bercia l'acuto. Il suo primo atto è, così, proprio brutto, almeno la sera della prima. Per fortuna poi si acquieta. La forma vocale no pare al massimo, il bel timbro (tale sarebbe) suona più "sporco" di altre volte. La generosità del darsi è, quella sì, ammirevole. E quando all'ultimo atto intona "O Mimì tu più non torni" si capisce cosa potrebbe essere il suo Rodolfo, e la sua voce, se decidesse di fare un po' d'ordine. Ma non decide. E nella continua esagitazione, i "suoi" personaggi - siano Rodolfo, Romeo, Edgardo, finiscono per sembrare, anche nello stile vocale, uno solo: è Grigolo, non il personaggio, è Grigolo, non la differenziazione - che sarebbe necessaria - dello stile vocale e dell'espressione da un autore e da un personaggio all'altro. Peccato: potrebbe esser ben altro, con quel che ha avuto da Madre Natura.
L'orchestra. La Bolivar suona benissimo. Anche forte, molto forte: ma il suono forte è il distintivo di un'etnia, uno stile, un modo di essere. In compenso, la precisione, l'intonazione, sono da manuale. E hanno un' anima, esprimono una passione "in suono" che invano cercheremmo negli abitanti stabili della buca scaligera. Idem il coro (meglio le voci maschili), forte ma superespressivo.
Sicché, fra pregi e limiti, ne esce una Boheme colma di vita. Non storica, imperfetta, ma palpitante. Una Boheme a sangue caldo.
Bene le parti di contorno. Imponente nel fisico la bellissima Angel Blue,Musetta nera di straordinaria avvenenza (ancorché, alla fine, "normale" vocalmente).
marco vizzardelli
- L'eccellenza. Maria Agresta: è il Manuale di Mimì, nel modo di porgere le frasi, nel canto e nel gesto e nell'espressione. Si può eccepire che il timbro, talora un po' querulo, non esprima una personalità travolgente, ma stravince nell'esattezza con la quale "è" Mimì. Una certezza, oltretutto in continua crescita.
Il talento, e un limite. Gustavo Dudamel. La sua è La Boheme di un grande direttore sinfonico, colmo di talento. Non si contano gli incisi, le note d'espressione, le sortite solistiche in appoggio ai cantanti quasi mai udite, e questa sua Boheme infiammata, vibrante, anche "novecentesca" in cenni d'orchestrazione quasi stravinskiana, è strumentalmente avvincente, molto più ardita della precedente di Gustavo alla Scala, che era solo pulita ma troppo cauta. Qui, con un'orchestra che glielo consente, ha osato e ha osato bene. Con un limite. La sua Boheme non è teatro in musica. Fra Dudamel e il palcoscenico - lo si era notato in tutte le sue precedenti esibizioni operistiche - c'è come un muro. Il palco - il teatro in musica - non è suo, le sincronie talora saltano, e questa Boheme è tanto meravigliosamente "sinfonica" quanto poco è teatrale. Che sia poco parigina non importa, tanto è viva ed infuocata nel suo clima fra festa e tragedia, così "ispanico" (non potrebbe essere altrimenti). Che ci sia più passione che poesia, amen. Ma Boheme è un meccanismo teatrale perfetto. E questo, con Dudamel, sfugge, nello splendore solo sinfonico dei mille particolari orchestrali. Gran direttore sinfonico. Niente di male, ma fossimo in lui ci rifletteremmo. Si può esserlo, Celibidache "mollò" l'opera, eppure fu eccelso. Gli imminenti concerti di Gustavo saranno tutti da ascoltare. Anche questa Boheme lo è. Ma il limite c'è.
La caricatura. Rodolfo. Vittorio> Grigolo inizia con una aberrazione, una mostruosità kitsch, proprio alla sua entrata. "Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli PPPPPPPParigi!". Così, con otto P più un ululato. Per tutto il primo atto balza, saltella, strabuzza gli occhi come gli attori dei film muti, un tarantolato, una sorta di epilessia scenica cui fa riscontro un canto disordinato he (e ti fa rabbia per quel che potrebbe essere) trova un'isola felice nella "gelida manina", ma tonfa nel finale 1 dove, insistendo a cantare "amor, amor, amor" senza uscir di scena (e coprendo vocalmente la partner), nella foga il nostro rantola e bercia l'acuto. Il suo primo atto è, così, proprio brutto, almeno la sera della prima. Per fortuna poi si acquieta. La forma vocale no pare al massimo, il bel timbro (tale sarebbe) suona più "sporco" di altre volte. La generosità del darsi è, quella sì, ammirevole. E quando all'ultimo atto intona "O Mimì tu più non torni" si capisce cosa potrebbe essere il suo Rodolfo, e la sua voce, se decidesse di fare un po' d'ordine. Ma non decide. E nella continua esagitazione, i "suoi" personaggi - siano Rodolfo, Romeo, Edgardo, finiscono per sembrare, anche nello stile vocale, uno solo: è Grigolo, non il personaggio, è Grigolo, non la differenziazione - che sarebbe necessaria - dello stile vocale e dell'espressione da un autore e da un personaggio all'altro. Peccato: potrebbe esser ben altro, con quel che ha avuto da Madre Natura.
L'orchestra. La Bolivar suona benissimo. Anche forte, molto forte: ma il suono forte è il distintivo di un'etnia, uno stile, un modo di essere. In compenso, la precisione, l'intonazione, sono da manuale. E hanno un' anima, esprimono una passione "in suono" che invano cercheremmo negli abitanti stabili della buca scaligera. Idem il coro (meglio le voci maschili), forte ma superespressivo.
Sicché, fra pregi e limiti, ne esce una Boheme colma di vita. Non storica, imperfetta, ma palpitante. Una Boheme a sangue caldo.
Bene le parti di contorno. Imponente nel fisico la bellissima Angel Blue,Musetta nera di straordinaria avvenenza (ancorché, alla fine, "normale" vocalmente).
marco vizzardelli