Macbeth, Daniele Gatti, Mario Martone, Parigi
Inviato: ven 15 mag 2015, 17:25
Macbeth di Giuseppe Verdi, finale atto 1, concertato “Schiudi, inferno”. Forse, anzi senza forse, il più bello fra i tanti bellissimi di Verdi. Ancora più bello quando, in scena accade che il coro e i protagonisti lo intonino tutti insieme, poi che, al momento della melodia “l’ira tua” – drammatica eppure dondolante come un valzer – il sipario cali di colpo su Banco e su tutti i presenti, e al proscenio restino solo Macbeth e la Lady, avvinghiati fra loro in un valzer lento che è danza d’amore e di complicità, di sesso, di delitto e di morte.
Credo sia la più sconvolgente immagine sortita quest’anno, finora, da un teatro d’opera. Ne sono “autori”, per la regia Mario Martone e per la direzione musicale Daniele Gatti, ai quali si deve il Macbeth, accolto benissimo da pubblico e stampa, le scorse settimane, sulla scena del Theatre des Champs Elysees di Parigi. Dopo il Così Fan Tutte con Claudio Abbado e Cavalleria Rusticana con Harding, il Martone regista d’opera conferma di riuscire a trovare i toni migliori quando si associa ad interpreti (quali i tre direttori nominati) naturalmente disposti a “studiare” e “sperimentare” in connubio d’intenti fra podio e regia, e là dove l’elemento psicologico prevale sul “politico” (che è talora a rischio di “dimostratività”). E’ quanto è avvenuto nel Macbeth-Gatti-Martone di Parigi.
Un laboratorio di musica e regia sul Macbeth: così nella sede adattissima (perché raccolta) del teatro parigino si è configurata l’opera verdiana. La dimensione del teatro ha offerto a Gatti e a Martone l’occasione per un lavoro, in musica e scena (parola scenica) sul sussurro, sul “non detto” o detto a mezza voce. Le cose orribili, delittuose, non si urlano: si sussurrano, in un canto soffocato e notturno che è quanto Verdi prescrive a piene mani nella partitura di Macbeth, a partire dalla figura-cardine della Lady. Gatti, che pure si accende (i tempi stavolta sono tendenzialmente “stretti”, è pur sempre un Verdi ancor giovane) là dove è dovuto, disegna dal podio un Macbeth sussurrato e notturno cui sulla scena corrisponde perfettamente, un cavalleresco (ci sono bellissimi cavalli vivi, proposti con un’efficacia che raramente si riscontra) Medio Evo di segreti, di delitto e di morte, perfettamente “colto” e proposto da Martone con ispirazioni a filmografia propria e forse anche non (ci è venuto alla mente Il Mestiere delle Armi di Olmi, nel quale i rumori e le tenebre della guerra erano più che parte integrante, protagonisti). Elemento fondamentale, in tale visione, è ovviamente la Lady: Susanna Branchini, bellissima donna di forte presenza scenica, si presta ad un canto”soffocato” (e per questo non immediatamente “spettacolare”), segreto e notturno nel quale dal buio della notte guizzano improvvise “sciabolate” – la voce pare rendere lo scintillio della lama insozzata di sangue (incredibile l’improvviso balenare del clarinetto nella seconda strofa della cabaletta atto 1). Tutto il primo duetto è da lei cantato, accanto al coniuge (cui è riservato un canto assai più “aperto” e volutamente “grossier”, da uomo di armi, in cui l’interprete Frontali è pure ottimo e attendibile), in una dinamica soffocata da segreto inconfessabile. Una Lady nella quale Martone e Gatti colgono altri “segni”: il sesso e la stregoneria, che in qualche modo la apparentano, anche musicalmente, alle streghe. Al fantastico coro femminile viene qui imposto un canto, quasi non impostato, da “bambine”, di esito agghiacciante all’ascolto: al quale “corrisponde”, da un lato, un brindisi completamente divaricato nelle due strofe: la Lady canta totalmente fatua la prima ( e la follìa già lavora), ma “nel panico” del delitto scoperto la seconda. D’altra parte, la scena del sonnambulismo è giocata a metà fra toni infantili e disperate aperture di canto drammatico.
Tutti i temi – sogno, delitto, attrazione sessuale – trovano poi una singolarissima sintesi in un momento che, nella direzione accuratissima e nella realizzazione scenica, diventa insolitamente “centrale”: la danza “ondine e silfidi” attorno a Macbeth privo di sensi. Tutti i suoi incubi trovano, qui, manifestazione
Mentre la Lady trascorre dal segreto del delitto non detto alla follia, lui, Macbeth, resta uomo d’armi fin nella resa, pure disperata ma non scevra d’una cercata “rusticità” di toni, di “Pietà, rispetto, amore”. Un Macbeth cui fa da contraltare l’evidente nobiltà d’accenti di Banco (credibile fisicamente, e ottimo Andrea Mastroni) e poi di Macduff (l’applauditissimo Jean Francois Borras). A Macduff e Malcolm lo spettacolo riserva un evidente ripristino dell’ordine: il coro finale ha, nella lettura di Gatti e nelle armi riposte della regia di Martone, una solennità di celebrazione da un lato lontanissima dalla “marcetta” cui lo si associa solitamente, dall’altro tale da ingenerare, proprio in chiusura, una inevitabile inquietudine: sarà pace duratura? Gatti e Martone sembrano propendere (e Verdi, crediamo, anche) per il no.
Spettacolo di sola musica e luci e costumi (molto efficace l’uso delle proiezioni riferite alla Lady nel finale, un po’ più arduo, forse, nelle apparizioni dei Re) cui l’orchestra National de France e il Coro di Radio France hanno offerto tutta la loro duttilità e un suono che ha fatto di questo Macbeth l’opera della notte e dei sensi.
marco vizzardelli
Credo sia la più sconvolgente immagine sortita quest’anno, finora, da un teatro d’opera. Ne sono “autori”, per la regia Mario Martone e per la direzione musicale Daniele Gatti, ai quali si deve il Macbeth, accolto benissimo da pubblico e stampa, le scorse settimane, sulla scena del Theatre des Champs Elysees di Parigi. Dopo il Così Fan Tutte con Claudio Abbado e Cavalleria Rusticana con Harding, il Martone regista d’opera conferma di riuscire a trovare i toni migliori quando si associa ad interpreti (quali i tre direttori nominati) naturalmente disposti a “studiare” e “sperimentare” in connubio d’intenti fra podio e regia, e là dove l’elemento psicologico prevale sul “politico” (che è talora a rischio di “dimostratività”). E’ quanto è avvenuto nel Macbeth-Gatti-Martone di Parigi.
Un laboratorio di musica e regia sul Macbeth: così nella sede adattissima (perché raccolta) del teatro parigino si è configurata l’opera verdiana. La dimensione del teatro ha offerto a Gatti e a Martone l’occasione per un lavoro, in musica e scena (parola scenica) sul sussurro, sul “non detto” o detto a mezza voce. Le cose orribili, delittuose, non si urlano: si sussurrano, in un canto soffocato e notturno che è quanto Verdi prescrive a piene mani nella partitura di Macbeth, a partire dalla figura-cardine della Lady. Gatti, che pure si accende (i tempi stavolta sono tendenzialmente “stretti”, è pur sempre un Verdi ancor giovane) là dove è dovuto, disegna dal podio un Macbeth sussurrato e notturno cui sulla scena corrisponde perfettamente, un cavalleresco (ci sono bellissimi cavalli vivi, proposti con un’efficacia che raramente si riscontra) Medio Evo di segreti, di delitto e di morte, perfettamente “colto” e proposto da Martone con ispirazioni a filmografia propria e forse anche non (ci è venuto alla mente Il Mestiere delle Armi di Olmi, nel quale i rumori e le tenebre della guerra erano più che parte integrante, protagonisti). Elemento fondamentale, in tale visione, è ovviamente la Lady: Susanna Branchini, bellissima donna di forte presenza scenica, si presta ad un canto”soffocato” (e per questo non immediatamente “spettacolare”), segreto e notturno nel quale dal buio della notte guizzano improvvise “sciabolate” – la voce pare rendere lo scintillio della lama insozzata di sangue (incredibile l’improvviso balenare del clarinetto nella seconda strofa della cabaletta atto 1). Tutto il primo duetto è da lei cantato, accanto al coniuge (cui è riservato un canto assai più “aperto” e volutamente “grossier”, da uomo di armi, in cui l’interprete Frontali è pure ottimo e attendibile), in una dinamica soffocata da segreto inconfessabile. Una Lady nella quale Martone e Gatti colgono altri “segni”: il sesso e la stregoneria, che in qualche modo la apparentano, anche musicalmente, alle streghe. Al fantastico coro femminile viene qui imposto un canto, quasi non impostato, da “bambine”, di esito agghiacciante all’ascolto: al quale “corrisponde”, da un lato, un brindisi completamente divaricato nelle due strofe: la Lady canta totalmente fatua la prima ( e la follìa già lavora), ma “nel panico” del delitto scoperto la seconda. D’altra parte, la scena del sonnambulismo è giocata a metà fra toni infantili e disperate aperture di canto drammatico.
Tutti i temi – sogno, delitto, attrazione sessuale – trovano poi una singolarissima sintesi in un momento che, nella direzione accuratissima e nella realizzazione scenica, diventa insolitamente “centrale”: la danza “ondine e silfidi” attorno a Macbeth privo di sensi. Tutti i suoi incubi trovano, qui, manifestazione
Mentre la Lady trascorre dal segreto del delitto non detto alla follia, lui, Macbeth, resta uomo d’armi fin nella resa, pure disperata ma non scevra d’una cercata “rusticità” di toni, di “Pietà, rispetto, amore”. Un Macbeth cui fa da contraltare l’evidente nobiltà d’accenti di Banco (credibile fisicamente, e ottimo Andrea Mastroni) e poi di Macduff (l’applauditissimo Jean Francois Borras). A Macduff e Malcolm lo spettacolo riserva un evidente ripristino dell’ordine: il coro finale ha, nella lettura di Gatti e nelle armi riposte della regia di Martone, una solennità di celebrazione da un lato lontanissima dalla “marcetta” cui lo si associa solitamente, dall’altro tale da ingenerare, proprio in chiusura, una inevitabile inquietudine: sarà pace duratura? Gatti e Martone sembrano propendere (e Verdi, crediamo, anche) per il no.
Spettacolo di sola musica e luci e costumi (molto efficace l’uso delle proiezioni riferite alla Lady nel finale, un po’ più arduo, forse, nelle apparizioni dei Re) cui l’orchestra National de France e il Coro di Radio France hanno offerto tutta la loro duttilità e un suono che ha fatto di questo Macbeth l’opera della notte e dei sensi.
marco vizzardelli